1 maggio 2024

Quale fede?

Perché a me? Perché Dio sta permettendo questo? Sono due interrogativi che in modo personale o in termini generali pongono una questione di fede: se non capisco il perché del mio dolore e in generale la sofferenza dell’uomo come posso credere in Dio? Se non capisco Dio, il suo volere, il suo agire, come posso fidarmi e credere in Lui? La risposta a questi interrogativi svela la natura che si attribuisce alla relazione con Dio. Mi viene in mente il primo comandamento “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro dio fuori di me”. Così come viene presentato Dio fin dai primi anni di catechismo, la natura della relazione ha un carattere formale: si dà grande importanza al rispetto delle regole (dei comandamenti), alle pratiche (preghiere e riti), ai formalismi (è lecito/non è lecito), al senso del dovere (mi devo sforzare a…) con l’idea che, nella relazione, la parte più difficile spetta a noi che dobbiamo camminare in salita e migliorarci, rialzarci dalle cadute, magari camminare più svelti per stare al passo con gli altri. Il metro di giudizio di questo modo di credere è lo sforzo che si compie (ho rinunciato a, ho dedicato la vita per, mi sono sacrificato in nome di) e il premio che ci si attende, consegnato direttamente dalle mani del Padreterno, è la salvezza. C’è poco o nulla da capire: si tratta di imparare a memoria e praticare; e alla domanda «Perché credi?», la risposta potrebbe essere perché sono mi hanno battezzato, perché mi è stato insegnato, perché potrei finire all’inferno… Poi però ci sono i fallimenti, le perdite, il dolore, le malattie e i problemi della vita ordinaria, quella vera di tutti i giorni, e un altro interrogativo si fa strada: a cosa serve credere in Dio se poi siamo soli ad affrontare la vita? Il bisogno di avere delle risposte valide, il desiderio di cambiare e l’apertura a nuove soluzioni squarciano la corazza delle certezze.

Incontrare qualcuno a cui brillano gli occhi quando parla di Dio, nonostante nella sua vita stia lottando contro un male incurabile, sentirsi riconosciuti dagli altri nonostante noi ci vediamo falliti, ricevere l’amore di un amico o del coniuge anche quando abbiamo sbagliato fanno cambiare tutto. Questi eventi “casuali” diventano delle micce accese che possono innescare il cambiamento. Lo Spirito di Dio, da sempre presente nell’esistenza umana, si fa strada nell’anima e piano piano comincia ad abitarla. Quel Dio lontano e irraggiungibile lo si scopre al proprio fianco sul fondo dell’abisso, tanto che il proprio dolore è inciso sulla sua carne. Egli mi è così vicino da essere nella parte più profonda della mia umanità e non sta a guardare, ma soffre e palpita con me. Questo cambio di prospettiva trasforma la relazione in personale e intima; e, come per i discepoli di Emmaus, ciò che conoscevo inizio a sperimentarlo e ciò che prima era solo regola, comandamento, ora acquista un sapore che da corpo al sapere. Dio si fa prossimo, amico, marito, figlio, presente nell’amore umano e i gesti concreti si trasfigurano diventando manifestazione della presenza divina.

La fede allora diventa una questione di esperienza e gli schemi preconfezionati non bastano più. Si può capire l’amore solo vivendolo all’interno di una relazione che lo definisce e gli da sostanza; si può capire Dio solamente facendone esperienza, attraverso la nostra umanità e all’interno della nostra vita; e alla domanda «Perché credi?», la risposta diventa «Non potrei farne a meno, Lui ha creduto in me per primo».

                                                                                    Michele Bortignon

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