9/01/2025

Qual è la voce giusta?

 

«Mi sembra di aver capito questo…, ma qualcosa mi dice che non è così»;

«D’accordo: tutti fanno così e si è sempre fatto così, ma a me questo non convince»;

«Obbedienza sì, ma in questo caso la mia coscienza mi parla altrimenti»;

«Ho capito quel che mi hai detto, mi sembra anche convincente; eppure c’è qualcosa che non mi quadra».

Quante volte abbiamo rimuginato dentro di noi frasi simili a queste?

Due voci: una che si presenta evidente, condivisa da tanti altri, appoggiata dall’autorità, conforme alla tradizione, chiara nelle sue ragioni; l’altra fatica a spiegarsi, è più una sensazione, ma è insistente e non ti lascia in pace finché non le presti attenzione e, se la metti a tacere, continua a roderti dentro.

E’ la situazione normale che ci troviamo a vivere quando ci confrontiamo col diverso: idee, persone, situazioni nuove. Il passato che abbiamo vissuto, il contesto in cui viviamo ci danno tutti i motivi per continuare come abbiamo sempre fatto, per non uscire dai sentieri battuti, per adeguarci alla mentalità corrente. Ma una sensazione di estraneità a tutto questo ci spinge a cambiare.

Che facciamo: ci allineiamo per non creare problemi? oppure ascoltiamo la voce del disagio e prendiamo una strada che neanche a noi è chiara, mettendoci contro tutto e contro tutti? Diamo ascolto all’evidenza delle idee o all’evidenza delle sensazioni?

Se abbiamo scelto di fidarci della voce che ci porta a essere fedeli a noi stessi, l’altra rientra in campo e si mette a gridare e ci spaventa: «Ma sei matto? Come si può anche solo pensare di fare una cosa del genere? Fare del bene sì, ma questo è troppo! Non riuscirai a reggere! Tutto si risolverà in un disastro». La prima torna più tardi, timida, e sottovoce ti dice «Calma. Respira. Aspetta. Io sono con te. Pensiamoci assieme».

A quale dare retta? A chi grida o a chi sussurra? A chi ti mette a tacere con le sue ragioni o a quel disagio che ti chiama a continuare a cercare?

Anche ad Abramo è toccato questo discernimento.

Assecondando la gelosia di Sara, ha scacciato nel deserto Agar e il figlio che ha avuto con lei, destinando entrambi a una morte certa. E ora i sensi di colpa lo rodono e prendono la parola dicendogli di compensare morte con morte: non puoi realizzare i tuoi desideri compiendo un’ingiustizia! E’ così pressante questa voce, è così convincente nelle sue ragioni, che Abramo la prende per la voce di Dio.

Ma, anticipata dalla voce di Isacco, il bisogno innocente, si fa largo una seconda voce che, al di là di ogni ragione più o meno ragionevole, prende le parti della vita. La vita è l’ultima istanza, quella che mai dev’essere calpestata o messa in secondo piano; tutto il resto è manipolazione. Gli altri possono dire ciò che vogliono, i miei sensi di colpa, di inferiorità, di indegnità possono cercare di bloccarmi, ma il cuore -l’amore che mi apre alla vita- ha ragioni che la ragione non comprende. E quel che è in sintonia con la vita lo sento un bene, perché mi fa sentire bene con me stesso e mi dà una pace vasta, profonda e duratura, pur in mezzo agli inevitabili contrasti.

Gesù è ben consapevole di questa lotta che si svolge dentro di noi, e ci dice cosa distingue la voce di chi cerca di manipolarci dalla sua, che, come un pastore, ci guida al nostro bene: “Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza” (Gv 10, 10).

Ma che cos’è Vita?

Non posso dire che cosa è la Vita, ma posso sentirla dentro di me. Posso sentire che qualcosa di immensamente più grande di me mi possiede e mi fa immensamente più grande di me. Se la vita è Vita, c’è sangue che scorre in essa: c’è calore, c’è passione, c’è bellezza. E l’esistenza mi è data per sperimentare la mia capacità di trasformarla in Vita, una vita talmente piena da diventare eterna, ossia una benedizione per tutti e per sempre.

La Vita diventa così il criterio di discernimento delle scelte: solo ciò che dà Vita è vero, è giusto, è buono, è bello.

Michele Bortignon

8/11/2025

L’orma del pellegrino: cap.11 - Davanti allo specchio

Il giorno dopo, per la terza volta don Manuel tornò all’ospedale, da Jeronima. Voleva chiederle indicazioni per parlare con qualcuno che fosse stato seguito personalmente da Iñigo in quel percorso che chiamavano “Esercizi Spirituali”, per capire di cosa si trattasse.

«Puoi chiedere a Canyelles» gli rispose Jeronima. «Abita non lontano da qui, in calle Sobrerroca».

Giunto sul posto, gli venne ad aprire una donna sui quarant’anni, alta e magra. Fin dalla prima occhiata lo colpì una strana sensazione… come se quei tratti non gli fossero nuovi. Eppure era impossibile che l’avesse già conosciuta.

Scacciò quella sensazione e fece la sua richiesta: poteva condividere con lui l’esperienza spirituale che aveva fatto con Iñigo? Ne aveva bisogno per valutare se anche per sé poteva essere un modo per affrontare un certo problema, da cui fino ad ora non era stato capace di uscire.

«Volentieri!» rispose subito la donna. «Iñigo ci diceva sempre che la nostra esperienza di vita con Dio, tanto più quando si tratta di una risurrezione da una situazione di morte interiore, è un talento da spendere per aiutare altri, feriti dalla nostra stessa situazione, per dar loro la speranza che, appoggiandosi a Dio, ce la faranno anche loro».

Entrarono in casa. Passando davanti a una stanza, la donna ne aprì la porta. Un semplice letto e una sedia costituivano tutto l'arredamento. E, sulla sedia, un vaso con dei fiori freschi.

«Questa era la stanza di mia madre. E’ morta qualche giorno fa. Gli ultimi mesi sono stati un’agonia; e non solo per lei. Lottava contro la morte, che non riusciva a strapparle l’ultimo respiro, ma intanto l’aveva paralizzata in tutto il corpo. Con una famiglia sulle spalle come la mia, è stato impegnativo doverle prestare le cure continue di cui abbisognava; anche, e soprattutto, per la pena che suscitava. E, in questa situazione pesante, quel che era peggio è che non riuscivo a trovare conforto nella preghiera. Provai a rivolgermi a Iñigo, che alcune amiche stimavano molto per essere state aiutate spiritualmente da lui.

Già al primo colloquio, il discorso scivolò sulla figura di mio padre: «Il papà era autoritario, non mi ha mai mostrato affetto» gli confidai. «Ciò ha provocato in me distacco nei suoi confronti e una sottile paura di non riuscire. Mi sembra di non aver mai avuto desideri, perché papà mi diceva tutto quello che dovevo fare. Il mio destino era prestabilito da lui».

«Ma… si sente bene?». Don Manuel era impallidito improvvisamente e il respiro gli si era fatto affannoso. «Mi scusi. Adesso mi passa».

«Cosa sta succedendo?» pensò. «Questa storia è la mia…! Perché, Signore, mi costringi a guardarmi in questo specchio?». Provò a fare qualche respiro profondo, cercando di calmarsi. «La prego, continui…».

«Iñigo capì che l’immagine di mio papà si era riversata su Dio, per cui facevo fatica a sentirlo come amore quando pensavo a Lui come Padre. La paura di essere castigata mi impediva di rivolgermi a Lui per essere abbracciata e consolata ora che ne avevo bisogno perché stavo male. A confermarlo, un sogno continuava a ripetersi: «Mi trovo su una scala a pioli la cui base è avvolta dal fuoco, per cui non posso scendere. La sommità della scala porta nel buio. Al di là, una voce mi dice “Salta, che ti accolgo!”, ma io ho paura e non mi butto, per cui resto bloccata, senza poter andare oltre. Vorrei aver fiducia, tanto da saltare anche se non vedo dall’altra parte. Ma me ne manca il coraggio».

Iñigo mi propose di pregare il salmo 23 («Vi troverai un Dio che è padre che guida e madre che accoglie») e il 131 (“Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre”).

Nel salmo 23 mi colpì la figura del pastore col bastone: mi richiamava mio padre che mi castigava. Anche il salmo 131 non mi aveva reso “tranquilla e serena”: un Dio che castiga non poteva certo abbracciarmi!

Facendo il collegamento con la mia storia di adesso, sentivo comunque che Dio mi chiamava alla fiducia: «Il Signore mi sta chiedendo di aver fiducia in Lui, nel suo amore: il suo bastone non serve per castigare, ma per ricondurre all’ovile la pecora perduta. Mi sta facendo sentire che non sono sola ad affrontare la situazione pesante che sto vivendo; non mi fa mancare il suo appoggio, facendomi incontrare sempre qualcuno che mi dà una mano».

Per confermare e consolidare questo pensiero, Iñigo mi ricordò Isaia 49: “Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sui palmi delle mie mani…”: «Hai indebitamente sovrapposto l’immagine di tuo padre a quella di Dio; la parola di Dio esprime il suo volto autentico, che è amore e misericordia, non pretesa e castigo».

Un passo avanti per scoprire come questo amore era stato concretamente presente nella mia vita avrei poi potuto intuirlo nel brano del vasaio, raccontato dal profeta Geremia1: «Sentiti accarezzata e plasmata dalla mano dolce ma ferma di Dio» mi disse. «Attraverso quali esperienze Dio ti ha fatto diventare quel che sei? Quali talenti ha fatto maturare in te attraverso di esse? Scoprirai così che l’amore di Dio non è una teoria, ma si esprime concretamente nell’accompagnare la nostra vita».

Gustai moltissimo il brano di Geremia: «La mia vita doveva essere perfetta, conforme alla volontà di mio padre, senza poter sbagliare. Dio invece, quando il vaso si crepa, riprende tutto in mano e riforma di nuovo. Ho gustato la dolcezza delle sue mani che mi hanno modellata finora, il suo rincuorarmi, il suo accarezzarmi con fiducia e con amore. Questo mi ha rasserenata e mi ha dato una sensazione di libertà. Prima non riuscivo a dare un significato all’amore, perché era sempre subordinato a quello che dovevo essere; non mi sentivo amata per quello che ero. L’amore di Dio mi dà ora la forza di dare quello che sono io e non ciò che vogliono gli altri. Sento che Dio mi è vicino, ma la sua è una presenza delicata, non impone. Ho rivissuto ciò che mi era stato presentato come peccato e che mi aveva causato angoscia; Dio me l’ha fatto accettare con serenità perché Lui rimodella, non butta via».

«Qual è ora il tuo desiderio?» mi chiese allora Iñigo.

«Che Dio tiri fuori da me quello che sono e non ciò che dovrei essere. Inoltre di continuare ad approfondire e fondare in me questo suo volto che ora sto scoprendo e che mi dà serenità».

Iñigo riprese: «Vorrei farti incontrare un Dio che non condanna, ma che è dalla tua parte per risollevarti quando cadi e ti fai male. Ricordi quando Gesù ferma i giudei che volevano lapidare l’adultera2? Perché Gesù non la condanna? Come vede il peccato? Come dunque ti vede quando sbagli? Cogli il suo sguardo su di te, e gustalo: guardalo guardarti con bontà e umiltà».

Mettendomi al posto dell’adultera, mi accorsi che davo più importanza a quello che dicevano gli accusatori che non a ciò che mi diceva Gesù. «Come al solito: non riesco ad essere me stessa quando mi sento giudicata dagli altri. Come vorrei riuscire a fare ciò che è giusto indipendentemente da ciò che pensano gli altri!» gli confidai.

Restava la paura del giudizio: «Faccio fatica a cogliere su di me uno sguardo misericordioso. Se ho sbagliato mi aspetto un castigo. Gesù mi dice che il suo sguardo non è minaccioso, …ma io continuo ad avvertirlo tale».

Nell’episodio della peccatrice in casa di Simone fariseo3, Iñigo individuò il brano che avrebbe potuto aiutarmi a scindere lo sguardo d’amore di Dio da quello di giudizio degli altri, senza continuare a sovrapporli. «Devi imparare ad affrontare la difficoltà e la tensione appoggiandoti sull’amore di Dio: nel brano, il desiderio della peccatrice di fare ciò che è giusto (avvicinarsi a Cristo) deve realizzarsi sotto lo sguardo di giudizio del fariseo» disse.

E mi offrì anche un altro spunto: come la peccatrice accarezzava, lavava, profumava i piedi di Gesù, anch’io avrei potuto rivivere quell’esperienza di relazione fisica con Cristo accarezzandolo in mia madre ammalata, in mio marito, nei miei figli.

Pregando quel brano finalmente riuscii a sentirmi guardata con amore, senza sovrapporre a Dio l’immagine paterna. Era vero: il giudizio è del fariseo, non di Gesù!

«Continua a chiedere a Dio la libertà interiore di fare ciò che è giusto senza guardare a ciò che dicono gli altri, recuperando fiducia in te stessa» mi disse sorridendo.

Capii allora che potevo concludere il mio percorso spirituale: mi ero scrollata di dosso un peso enorme: accogliendomi come sono, Dio mi aiutava ad essere me stessa, non un’altra persona come prima facevo per accontentare gli altri».

Per don Manuel era stato uno sforzo immenso rimanere ad ascoltare quel racconto che lo riportava a guardare in faccia il proprio vissuto. Dopo aver frettolosamente salutato, scusandosi per non stare troppo bene, uscì in strada e, fatti alcuni passi barcollando, si appoggiò al muro di una casa, scosso da violenti conati di vomito. Buttò fuori tutto quel che aveva in corpo. Ma quel peso che aveva dentro… quello no. Quello continuava a pesargli come un macigno… e non solo sullo stomaco.

1 Questa parola fu rivolta a Geremia da parte del Signore: «Prendi e scendi nella bottega del vasaio; là ti farò udire la mia parola». Io sono sceso nella bottega del vasaio ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che egli stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso, come ai suoi occhi pareva giusto”. Ger 18, 1-4.

2 Gv 8, 1-11

3 Lc 7, 36-50

8/01/2025

Le lotte simboliche

A volte sembra sia andato in tilt il meccanismo che permette di parlarsi, capirsi, mediare una soluzione. Una situazione già di per sé in tensione si carica e alla fine scoppia. E basta un banalissimo contrasto, la classica “goccia che fa traboccare il vaso”. Vediamone un esempio...

La madre vuole che nella vasca destra del secchiaio vadano messe solo le stoviglie da sciacquare, a sinistra quelle da lavare; la figlia non ci bada, non ci dà peso, per cui spesso le mette dove capita. Risultato: scoppia la terza guerra mondiale!

«Per così poco?» domanderete. Ebbene sì, perché sotto a questi comportamenti loro leggono ben altro.

La madre alla figlia: «Se non fai quel che ti ho chiesto, non mi rispetti; mi sento come se per te non esistessi».

La figlia alla madre: «Arrabbiandoti per questa stupidaggine mi fai sentire meno importante del tuo secchiaio; mi sento come se per te non esistessi».

«La tua è una colpevole trascuratezza!» accusa la madre.

«Le tue sono manie!» rimbecca la figlia.

«Ma smettetela!» ci verrebbe da dire «La relazione tra voi due sarà ben più importante di un secchiaio!». Sì, ma nessuna delle due vuole una relazione in cui si sente calpestata dall’altra. Un tempo si sarebbe detto “Ne va del mio onore!”.

Più tardi, senza rendersi conto del valore simbolico della loro lotta, le due cercano di capirsi: «Dimmi dove ho sbagliato» chiede l’una. E qui comincia l’ “avresti dovuto...” a cui risponde il “ma allora…”; e ciascuna ha le sue ragioni da contrapporre all’altra.

Così non se ne esce. Non se ne può uscire perché nessuna delle due accetta che le ragioni dell’altra siano più forti e difende il suo personale modo di vedere come fosse la Verità.

I “chiarimenti” (che poi spesso invocano a riprova dei ricordi che ciascuna delle due ricorda in modo diverso, per cui subentra anche la rabbia dell’incomprensione) qui non servono a risolvere il problema, perché il problema non è qui. Non è nei fatti, ma nelle aspettative: quel che è successo, se lo so leggere, parla di cosa vorrei essere per te, di cosa vorrei tu fossi per me. Per questo la soluzione non sta in un accordo di come ci si dovrà comportare la prossima volta, ma nel rassicurarci sul legame che ci unisce. Dicendocelo.

E non è facile, ora che ci siamo ferite.

L’impossibile miracolo solo lo può fare la libertà interiore, se in questo momento, entrando nell’assurda saggezza del “porgi l’altra guancia”, decido di tirarmi fuori dal pantano immobilizzante dei miei diritti calpestati, riconosco chi siamo l’una per l’altra e, guardandoti, ti dico: «Ti voglio bene». E alla malora tutto il resto.

Non ci riesco? “Quisque faber fortunae suae” direbbero gli antichi: uno la sua vita se la costruisce con le sue scelte.

E io, che scelta voglio fare?

Per la preghiera: Mt 5, 38-41

Michele Bortignon

7/15/2025

L’orma del pellegrino: cap.10 - Verso quale direzione?

Erano passati due giorni e don Manuel non era più uscito dalle mura del convento di san Domenico. Quel succedersi di provocazioni, attraverso tanti avvenimenti che quasi gli si accalcavano attorno, era troppo per lui.

Finora la vita gli si era presentata così chiara e così univoca attraverso le pagine di libri che dipingevano un mondo ben strutturato tra luci e ombre che delimitavano il bene dal male! Ma nelle situazioni che si era trovato a vivere negli ultimi giorni, male e bene sembravano giocare a nascondino, mettendosi l’uno nelle vesti dell’altro, così da rendere assolutamente inadeguati gli schemi che aveva a disposizione per distinguere l’uno dall’altro. E, a complicare il tutto, il cuore chiaramente gli suggeriva l’opposto di quel che la mente, applicando tali schemi, sembrava affermare.

«Sono venuto per capire» si diceva, «ma qui capisco cose che non posso riferire… se non voglio io stesso passare dalla parte dell’inquisito».

«Magari sei tu che sei sbagliato…» gli suggeriva una voce fastidiosa. «Sei talmente ingenuo da prestare ascolto al cuore? Pensi che, se fosse vero quel che ti dice, chi ne sa più di te non l’avrebbe già riconosciuto? Lascia perdere, non pensare, raccogli dati e basta».

Ma se subito questa voce lo tranquillizzava, il malessere tornava poi più forte di prima, togliendogli la pace. E, in mezzo ad esso, si faceva strada una voce più sottile, eco lontana di una Parola anch’essa ascoltata in antiche Scritture, ma al cui ascolto il cuore, e non solo la mente, aveva vibrato. E questa voce gli diceva: «Continua a cercare, ma cerca per capire, cerca per trovare, cerca per vedere».

Con questo desiderio nel cuore, don Manuel decise di tornare all’ospedale di Santa Lucia.

«Sento che non riesco a capire Iñigo se rimango ancorato a ciò che già so, a quello che ho sempre considerato giusto e normale» disse a Jeronima. «La sua storia mi sta risucchiando dentro di sé mettendo in crisi la mia. Una crisi che avverto dalla battaglia in corso dentro di me tra un vecchio che strepita perché non vuol morire e un nuovo che avanza calmo ma con decisione. Entrambi rivendicando di essere la verità».

«La mia specialità è curare i corpi» gli rispose Jeronima. «Per le questioni dell’anima è meglio che tu parli con Sança, che, oltre a essere la nostra madre spirituale, ha aiutato anche Iñigo nel suo cammino verso Dio».


L’anziana beghina ormai non si muoveva più dalla casa comune annessa all’ospedale. Tanti anni prima era arrivata dal reclusorio di Santa Margherita a Barcellona, per stabilire un beghinaggio anche a Manresa. All’inizio, l’esperienza intrapresa con alcune compagne del posto che si erano unite a lei era stata vista con diffidenza: che novità era mai questa, di donne che vivevano in comune cercando Dio in “santa conversazione” tra loro e con Lui, al di fuori di ogni celebrazione liturgica e della mediazione del clero? E poi la libertà di interpretare liberamente le Scritture lette nella lingua volgare! Ma presto questa diffidenza lasciò spazio al rispetto e alla simpatia quando si vide che la loro spiritualità si concretizzava nei più umili servizi di assistenza ai bisognosi: la cura dei malati, l’accompagnamento alla morte, l’insegnamento ai bambini poveri. Per la prima volta dei laici vivevano religiosamente, conciliando contemplazione e azione nel sociale: contemplativi nell’azione. Ben presto, con la loro serietà e competenza avevano acquistato una funzione sociale insostituibile, riconosciuta dalle autorità civili con specifiche concessioni di incarichi pubblici.

L’aspetto dell’anziana, quale apparve a don Manuel all’entrare tra i muri della sua stanza, mostrava che non si era certo risparmiata nella sua vita: il suo fisico asciutto parlava di un’incessante correre là dove c’era bisogno di lei. E che quel che le veniva chiesto lo facesse con gioia lo si indovinava dall’orientamento delle sue rughe, incise dal sorriso con cui incoraggiava i suoi malati ad affrontare la loro situazione senza perdersi d’animo.

E con quello stesso sorriso, sottolineato da uno sguardo vivace che i bianchissimi capelli rendevano ancor più luminoso, l’anziana si rivolse a don Manuel, dopo che questi le ebbe confidato il suo problema, «Perché non chiedi a Dio? Perché non parli direttamente con Lui?».

«Io lo prego, invoco il suo aiuto, ma… non ho mai pensato che Lui possa rispondermi!».

«Lui, come del resto anche il suo nemico che ti spinge al male, stanno già parlando in te. Quelle “voci” che si esprimono attraverso i tuoi stessi pensieri, suscitati da sensazioni ed emozioni, creando quella “battaglia” di cui mi hai detto, cosa credi che siano?

Anziché prenderne paura, comincia semplicemente a distinguerle e a capire di chi sono voce. Anche a Iñigo era successo lo stesso e stava vivendo la tua stessa confusione. La prima volta che mi parlò di sé mi confidò di una visione che aveva avuto.

Iñigo aveva un’immaginazione molto viva e gli piaceva tradurre in immagini le proprie sensazioni. Dunque, raccontava che, quando qui all’ospedale aveva cominciato la sua nuova vita di servizio, a volte vedeva accanto a sé, fluttuante nell’aria, una specie di serpente punteggiato di occhi luminosi. Non gli spiegai la sua visione (sapevo che Dio stesso gliel’avrebbe fatta capire quando fosse stato il momento!), ma voglio rivelarne a te il senso, perché mi sembra una profezia che può indicarti ora la strada che cerchi.

Nella Bibbia il serpente è un simbolo ambiguo: dà la morte (ricordi Adamo ed Eva diventati mortali per averlo ascoltato?), ma anche la vita (appeso da Mosé sul legno, guariva quanti avessero alzato a lui lo sguardo). Il serpente visto da Iñigo fluttuava nell’aria: non ti ricorda l’immagine dello Spirito, che scende dal cielo in forma di colomba o di lingue di fuoco? Dunque, qualcosa di spirituale. E’ coperto di occhi: uno sguardo che ti segue controllando tutto ciò che fai. Tutto questo non ti fa pensare alla Chiesa gerarchica, che può dar vita quando ti aiuta ad alzare lo sguardo a Cristo, ma dà morte quando pretende di sostituirsi alla tua coscienza? Dopo la visione che ebbe al Cardoner, in cui Cristo gli si mostrò in trasparenza nel volto del povero da restaurare a propria immagine, Iñigo capì, davanti alla croce del Tort, che questo serpente, nel suo tentare di sovrapporsi al Crocifisso dinnanzi al quale si era inginocchiato, era il demonio».

Don Manuel si sentiva annichilito: la visione di Iñigo, interpretata da Sança, gettava una luce così chiara, ma anche così scomoda, sulla sua situazione, che scegliere era doveroso, ma anche tanto difficile.

E, ancora, le voci tornarono a farsi sentire: «Ma sei matto? Cosa vai a sentire da questa vecchia visionaria?! Pensa alla tua carriera nella Chiesa: lì hai un ruolo, un posto in una struttura che da secoli media la salvezza di Dio. Vuoi ridurti alla nullità che è diventato questo eretico, inutile a se stesso e al mondo?».

L’altra voce non era nemmeno una voce, ma più una sensazione, come di una carezza calda che ti scioglie di commozione, come di una luce che penetra le tenebre dissolvendo il timore.

Don Manuel riuscì a distinguere, ma non a scegliere. La paura, con cui per anni aveva convissuto, imparando a chiamarla sicurezza, lo teneva ben stretto tra le mani. Sarebbe stato come uccidere suo padre. No, non poteva farlo.

Indovinando la lotta che si stava svolgendo dentro di lui, Sança rispettò il suo silenzio.

«Non temere» gli disse, «verrà il giorno in cui le lacrime romperanno i sigilli con i quali la paura ti ha bloccato il cuore. E la libertà ti renderà uno con il tuo Signore».

«A che serve la mia fede se non riesce a darmi la libertà di essere me stesso in ciò che sento fa bene a me e fa star bene gli altri? Dove sto sbagliando? Che cosa non riesco a capire?». Questo si chiedeva don Manuel uscendo sconvolto da quel colloquio. Non c’è fallimento più grande di vedere il bene e sentirsi impotenti a raggiungerlo.

«Dammi un segno, Signore. Così mi sento soffocare! Non so cosa fare, dove andare…». E intanto camminava a testa bassa, immerso in questi pensieri, senza una meta, disorientato nell’andare come lo era dentro di sé. Fu così che si trovò davanti alla cattedrale de La Seu. Alzò gli occhi e restò senza parole, affascinato dalla grandezza e dalla bellezza dell’edificio che si stagliava contro il cielo. Il sesto acuto dell’arco d’ingresso sembrava indicare la direzione, invitandolo a entrare.

L’interno era altrettanto maestoso. L’ampia navata centrale era delimitata da due file di altissime colonne, che in alto si diramavano nelle costolature di sostegno della volta.

Don Manuel chiuse gli occhi e le colonne divennero tronchi di alberi altissimi, ancorati al suolo da robuste radici, i cui rami si immergevano nell’azzurro del cielo.

Come vivevano quelle piante? Come avevano potuto crescere così alte, diritte, imponenti?

La terra su cui erano piantate non era che foglie morte, rami marci, sassi, vermi e formiche; eppure da qui ricavavano la linfa che la chioma, impastandola di luce, trasformava in nutrimento.

Spostandosi nel suo giro, attraverso una vetrata il sole lo colpì con un suo raggio; e la luce che gli penetrò dentro gli sembrò recargli un messaggio: «Tutto ciò che nella tua vita consideri morto, marcio, sterile, tutto quel che ti fa schifo e che ti rode dentro… quando lo innalzi a Dio, nella sua luce si trasforma: l’amore gli ridà senso, la speranza gli apre un avvenire, la fede gli offre una strada su cui camminare.

E’ questo rapporto tra la terra e il cielo a tenere in piedi l’uomo; ed è il rapporto con Dio di tanti uomini, gli uni accanto agli altri, a formare e a sostenere la Chiesa».

Don Manuel lasciò che quella luce gli scaldasse il cuore, a lungo, assaporandone la carezza. E capì che la direzione del cammino non occorre cercarla: nasce da sola in un cuore che ha gustato cosa gli fa bene.

7/01/2025

La capacità maturante dell’amore di coppia

L’amore di coppia a volte è idillio, più spesso lotta, sempre faticosa fedeltà all’essere assieme. Quante volte vorresti scappare, buttare via tutto, dare ragione alla voce che ti dice che così non si può più andare avanti! Ti prende il senso del disastro e subito -ora!- vuoi risolvere il problema con una decisione definitiva.

Ecco, io ho imparato che devo darmi tempo, rispettando i miei tempi e quelli dell’altro; perché ci vuole tempo a digerire il male fatto e ricevuto e lasciare emergere il vero oltre la rabbia. Solo quando senti che è Dio a metterti in cuore le parole, allora puoi parlare. Datti tempo dando fiducia all’Amore: Lui lavora dentro di te e dentro l’altro se gli dai tempo tacendo e pensando.

Io voglio credere nell’amore, a quello che si fa spazio lentamente, senza chiarimenti, patti e proclami, ma, tenendo bassa la voce, dà le ragioni dei propri diritti e ne chiede il rispetto. L’amore sussurra e chiede con gentilezza. L’amore non fa confronti per evidenziare chi è giusto e chi è sbagliato. Per chi crede in Dio, l’amore basta a se stesso, senza aspettarsi nulla, perché è già la bellezza di essere in armonia con l’infinito.

Naturalmente tutto questo non basta capirlo e crederlo vero: occorre deciderlo, decidere che per me l’amore è più importante viverlo che riceverlo.

E’ ingenuo pensare che la passione sia una nota costante tra due che si amano. Lo è all’inizio, per costruire la coppia; poi l’amore assume più il volto della tenerezza, per confermarci che siamo assieme ad affrontare la vita, che ci siamo l’uno per l’altra.

L’essere uno si costruisce giorno per giorno. In primis lavorando a un progetto comune -e qui le esigenze di casa, lavoro, figli ti ci portano naturalmente; ma poi -e questo è il difficile!- riportando a un terreno comune le spinte centrifughe del fare ciascuno come vorrebbe, come a lui sembra giusto, piacevole, realizzante: ognuno ha le sue piccole manie, i suoi puntigli, certi bisogni per lui imprescindibili.

Come affrontare la questione? Forse come proponevano gli antichi Greci: “Katà metron”, con misura. Decidi e agisci tenendo conto di te e dell’altro. Questo implica essere capace di ascoltare te stesso (hai mai prestato attenzione ai sintomi con cui il tuo corpo ti dice che stai sbagliando strada?) e quelle esigenze dell’altro che tu giudichi sciocchezze ma per lui sono importanti.

Qui riuscire ad incontrarsi è l’impresa di una vita. Io non ho soluzioni, se non un consiglio, che ho trovato importante per me: lotta contro lo scoraggiamento, prova e riprova.

Volersi bene è soprattutto non arrendersi.

Michele Bortignon

6/13/2025

L’orma del pellegrino: cap.9 - Il giardino dei semplici

Dirigendosi verso l’ospedale di Santa Lucia, don Manuel aveva ancora negli occhi la scena che il giorno prima l’aveva sconvolto. Non aveva potuto dormire tutta la notte, pensandoci e ripensandoci. Sapeva che eliminare le streghe era un preciso dovere della Chiesa per evitare l’incarnarsi del demonio nel mondo attraverso di loro: la sua azione su uomini e cose, mediata dai “maleficia” delle streghe, andava impedita a ogni costo!

Eppure lo sguardo di quella donna e la violenza con cui era stata trattata gli mettevano un dubbio su chi in realtà fosse manovrato dal demonio.

Scacciò ancora una volta quel pensiero che turbava la sua immagine di una Chiesa in cui Dio operava sempre e comunque e si affrettò verso il fabbricato appena fuori le mura.

«La signora Jeronima?» chiese alla persona che gli era venuta ad aprire.

«E’ nel giardino dei “semplici”1. Sta raccogliendo le piante che ci servono a preparare i medicamenti. Se vuole, l’accompagno…».

«Grazie, gliene sono grato».

Dall’atrio dell’ospedale, una porta dava direttamente accesso a un piccolo orto. Quattro vialetti si incrociavano nel pozzo centrale, delimitando altrettante aiuole: in tre di queste, le erbe dalle preziose virtù terapeutiche, regolarmente annaffiate, crescevano rigogliosamente; la quarta, a ridosso del muro della cappella, era un piccolo prato ombreggiato da una pergola di vite, sotto alla quale un paio di sedie e un tavolino potevano offrire un momento di riposo.

«Bello, eh? Questo è il nostro piccolo angolo di paradiso, la nostra imitazione del giardino di Eden». Jeronima era una di quelle donne a cui il ruolo svolto richiede il polso per dirigere un’intera struttura, ma, lasciate al loro momento magico, sono capaci di perdersi a osservare la differenza di sfumature tra i petali di un fiore. E, all’entrare di don Manuel, stava appunto assaporando l’emozione della bellezza donatale dalle sue piante.

«Ecco, vede: questi che sto raccogliendo sono i gialli fiori dell’Iperico. Adesso li metto in un vaso con del buon olio di oliva; quando l’olio diventerà rosso, sarà pronto per essere usato come lenimento per le scottature. Ma posso anche essiccarli per preparare una tisana che rinfranca nella tristezza: non per niente la chiamano “erba cacciadiavoli”. Questo, con i piccoli fiori rossi profumati, è il Serpillo: lo uso per disinfettare le ferite. Le foglie di Melissa servono invece per calmare e per conciliare il sonno. Ma quella che mi ha dato le maggiori soddisfazioni è questa qui: l’erba della Madonna. Il suo infuso cura le malattie della pelle, perfino il Fuoco di Sant’Antonio, che è così difficile da guarire!

Ma, mi dica… non le ho ancora chiesto il motivo della sua visita…».

«Iñigo, il pellegrino. Angela Seguì, la moglie di Pere Amigant, mi ha indirizzato da lei dicendomi che avrebbe potuto aiutarmi a conoscerlo un po’, visto che, con la sua partenza, è sfumata la speranza di poterlo incontrare personalmente».

«Ah, Iñigo… Ma, venga: andiamo a sederci lì all’ombra!».

Presero posto. Sotto le foglie della vite, una lieve brezza piacevolmente tergeva il sudore e invitava a una sosta.

«Iñigo… Quando arrivò qui era davvero conciato male: la gamba fasciata, ancora convalescente da una brutta frattura, gli si era gonfiata e la sua fronte bruciava di febbre.

L’abbiamo curato con impacchi di argilla e foglie di cavolo… oltre al principe di tutti i medicamenti: il riposo.

Quando si fu rimesso, ci chiese di rimanere a darci una mano. La sua giornata era divisa tra momenti di preghiera e momenti di servizio, in cui si metteva a disposizione dei malati applicando il nostro metodo di cura.

Sa… noi crediamo che corpo e anima sono legati indissolubilmente, per cui ogni malfunzionamento dell’uno si ripercuote negativamente sull’altra, e viceversa. Perciò, qui, con le piante medicinali curiamo quel che possiamo per dar sollievo al corpo e rimetterlo a servizio dell’anima, ma, soprattutto, curiamo l’anima, nella cui malattia spesso risiede la causa dell’infermità del corpo.

E’ Cristo il vero medico, e la terapia è la conversione, il passaggio da un atteggiamento malato, che fa male a me e agli altri, a uno sano nei confronti della vita. La salute non è uno stato che si mantiene da sé, ma la costruiamo e la manteniamo noi stessi con un atteggiamento positivo e costruttivo.

Ecco, vede? Proprio qui dove siamo seduti noi adesso, Iñigo conversava con gli ammalati per completare il loro processo di guarigione, aiutandoli a incontrare l’Unico che, condividendo con loro il suo Spirito, li avrebbe aiutati a non ricadere in quegli atteggiamenti che, assieme all’anima, fanno ammalare anche il corpo».

«Ma com’è che è nato in lui questo desiderio di curare l’anima degli ammalati?».

«L’amore con cui ci siamo presi cura di lui lo ha commosso. Ce lo diceva sempre, come fosse una grande scoperta: non sono le erbe, ma gli sguardi affettuosi, le parole gentili, i tocchi delicati che ci mettete voi a far funzionare le medicine.

E, per contrapposto, si angustiava per come, qualche giorno prima, a Montserrat, aveva trattato un povero: dopo aver a sua volta indossato il sacco del mendicante, gli aveva donato i suoi vestiti sontuosi; ma questi, sospettato di averli rubati, era stato malmenato dalle guardie. «Il bene che gli ho fatto non ha affatto tenuto conto di lui, di ciò che lui aveva bisogno nella sua situazione, ma è stato soltanto un’ostentazione di quanto io ero capace di fare», ci confessò, accusandosi per l’insensibilità dimostrata.

Lavorando assieme nel suo animo, queste due esperienze fecero scoccare la scintilla di un’illuminazione di cui parlava come di una luce che gli aveva fatto vedere ogni cosa in modo assolutamente nuovo. Ricordava ancora il luogo esatto in cui Dio gliel’aveva fatta sbocciare nel cuore: un anfratto, nella scogliera di roccia sovrastante il torrente, in cui era solito fermarsi in preghiera quando si recava alla chiesa di San Paolo.

Fu una nuova visione dell’uomo, che gliene mostrò tutta la grandezza, da restaurare per far apparire in lui la gloria di Dio. In Cristo, Dio si fa uomo non per darci qualcosa che ci manca - non ci tratta da miserabili! -, ma ci fa scoprire che siamo già Dio con quello che abbiamo, se lo viviamo in quello Spirito che ci rende possibile essere nella pace, nella gioia, interiormente liberi: quello Spirito che è Dio vivente in noi quando la fiducia, la speranza, l’amore improntano le nostre azioni.

Resi poveri dalle nostre paure, che ci ossessionano per avere o per non perdere ciò che ci dà sicurezza, stima, affetto, siamo resi ricchi dal trovare Dio presente in ogni dettaglio della vita a cui lasciamo riempirci il cuore. E con Dio nel cuore, luce e forza del nostro essere vivi, possiamo incontrare il povero per renderlo altrettanto ricco della Sua presenza, senza commettere lo sbaglio di farlo diventare il ricco miserabile che prima eravamo noi».

«E comunque bisogna pur mangiare!» stava pensando tra sé don Manuel, scettico di fronte a una prospettiva che riempiva il cuore e non la pancia.

«Vuol fermarsi a pranzo con noi?» gli chiese Jeronima.

«Non vorrei creare problemi con l’essere in più rispetto a quanti avete previsto…».

«Veramente non prevediamo mai nulla. Quello che abbiamo non lo sappiamo neppure noi perché ci viene portato dalla generosità della gente. Non siamo solo noi a dare…».

Non seppe neppure lui come, ma un momento dopo don Manuel si trovò con una pentola e un mestolo in mano a distribuire lui pure la minestra alla mensa degli ospiti. E già si sentiva sazio dei tanti grazie e grato a Dio per quella generosità che da tante parti e in tante forme vedeva arrivare a colmare il bisogno.

Era mai possibile che il dare arricchisse? Era questo che aveva trovato Iñigo? Ed era questo il percorso su cui accompagnava le persone ferite dalla vita per aiutarle a guarire dentro?

Lo chiese a Jeronima che gli si era seduta accanto quando, dopo aver servito tutti, avevano potuto mangiare anche loro.

«Il povero con le sue necessità ci libera dall’ossessione di colmare a tutti i costi i nostri bisogni. Altrimenti non potremmo dargli nulla!» gli rispose l’ospitaliera. «E il vuoto che così creiamo in noi è spazio che attira la generosità della Vita; solo così abbiamo occhi per vedere i beni che essa ci offre».

All’improvviso, un urlo seguito da un pianto disperato risuonò lontano, dalle stanze in cui erano ricoverati i malati terminali. «E’ Maria. Se ne sta andando. Ed è spaventatissima. Vieni con me, Manuel? Se vuoi conoscere Iñigo “da dentro”… ecco: questa è l’occasione per capire cose che, altrimenti, non capiresti mai».

Per un attimo rimase paralizzato. In un flash gli passò per la mente il ricordo di sua madre morente: l’aveva vista andarsene rabbiosamente, disperata, e lui allora non aveva saputo cosa fare. E, altrettanto sconvolto, se n’era tenuto lontano.

Ma, ora, un qualcosa che non sapeva spiegare lo stava prendendo per lo stomaco e gli ripeteva «Vai. Non tirarti indietro!». Si alzò come un automa, terrorizzato, e si avviò con Jeronima in direzione di quel pianto.

Maria stava soffrendo terribilmente, ma ancor più dolorosa era la paura che la stava squassando dentro. «Va’ via, non voglio vedere nessuno!», gridò mentre i due le si accostavano.

In vista, sulla parete della stanza, stava appeso un crocifisso, e Manuel lo guardò: impotenza, dolore, angoscia…, ma anche fede, speranza, amore era quel che vi leggeva.

«Io sono la via…», si sentì dire. E comprese.

Jeronima sedette accanto a Maria e, abbassando il capo, quasi parlando tra sé: «Io non ho nemmeno il coraggio di pensare al male che hai, ma so che, se te lo tieni dentro, si trasforma in rabbia, che fa ancora più male. Ti senti tradita da Dio, da un dio cattivo o distante se sta permettendo questa morte. Dio? Guarda chi è Dio, guarda dov’è Dio», le disse mostrandole il Crocifisso. «In Cristo abbiamo un Dio con cui possiamo piangere, perché, da una sofferenza che sta uccidendo anche Lui, capisce quel che stiamo passando. Un Dio con cui possiamo sperare, perché, se ci è passato pure Lui, tutto questo deve avere un senso!».

E le tenne semplicemente la mano, accarezzandola. Perché Dio non lo puoi sentire se non ti sta vicino in un cuore che ama.

Se ne andò dolcemente, sofferente ma serena. Serena perché non si era sentita sola.

Non lontano da lì, un’altra morte, innervata da un’identica paura, si stava preparando. Ma alla quale la stessa “fede” stava dando tutt’altra risposta: per salvare l’anima alla strega, pietoso, il giudice aveva consegnato quel corpo, che aveva stretto il patto con Satana, a essere purificato col fuoco2.

1 L’orto in cui si coltivavano le piante medicinali.

2 Da una deviante interpretazione di 1Cor 3, 14-15: ”Se l'opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l'opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco”.

6/01/2025

Evitare di pretendere?

Non so a voi, ma a me il comportamento di certe persone mi urta, mi turba, mi crea ansia, mi indispettisce, mi fa saltare i nervi. Come prima reazione è normale, ma non voglio che influenzi i miei comportamenti. Voglio fare ciò che in quella circostanza è giusto fare. Sì, ma cosa?

E’ inevitabile che ciascuno senta giusto il proprio modo di porsi e malato quello dell’altro e cerchi di portare l’altro sulle proprie posizioni. Nutriamo sull’altro aspettative che spesso sfociano in pretese: l’altro deve essere e fare come diciamo noi. Vorremmo che l’altro fosse funzionale ai nostri bisogni.

Ma l’altro guarda prima di tutto ai propri di bisogni. A ragione. Se mi ama terrà poi conto anche dei miei (quando li vede…). Se invece di me non gli interessa più di tanto, magari cercherà di soddisfarli a spese mie.

Nell’un caso come nell’altro potrei con calma far presente cosa mi ferisce e di cosa ho bisogno e comunque tener conto di ciò che ricevo da questa nostra relazione per valutare se proseguirla o meno. Ma a rendermi difficile questo atteggiamento, a farmi arrabbiare è il sentirmi vittima di un’ingiustizia: non sopporto di sentire che l’altro non mi dà quel che dovrebbe, non tiene conto di me, addirittura se ne approfitta. Torno allora a pretendere che lui sia per me, che mi dia ciò di cui ho bisogno adesso, subito, tutto e nel modo in cui voglio io.

Sotto il peso di queste pretese l’altro si sente soffocare. Si rifiuta a ciò che gli chiedo e si dedica a ciò o a chi gli dà ma senza pretese.

Posso dunque tornare a ricevere se do senza pretendere. Ma come evitare di pretendere? Come colmare questo vuoto che grida il bisogno di essere riempito?

Alzando lo sguardo. Distogliendolo dall’oggetto della mia ossessione. Accorgendomi della bellezza che comunque c’è attorno a me e che, in quanto bellezza che si comunica, è un bene che mi raggiunge e dunque è amore.

Se me ne so accorgere, sono immerso nell’Amore.

Se sono riempito d’amore non ho più vuoti d’amore da riempire. Posso non avere pretese. Posso accorgermi che quel -magari poco- che mi viene dato è già molto. E che quel che mi viene negato fa crescere in me quel che ancora non ho: è un digiuno nutriente!

Tutto risolto, dunque? No! Ma vale la pena provarci.


Michele Bortignon

5/15/2025

L’orma del pellegrino: cap.8 - Il corpo negato

«La casa degli Amigant è a cinque minuti da Plaza Mayor, proseguendo per la strada principale» gli aveva spiegato il frate ospitaliere. Lui Iñigo lo conosceva bene, avendolo alloggiato per diversi mesi nella sua foresteria. E sapeva che, quando si era ammalato gravemente, in quella casa era stato ospitato per ricevere l’assistenza costante di cui aveva avuto bisogno.

Era giorno di mercato, e Plaza Mayor era invasa dai contadini delle campagne circostanti; chi su di un carretto, chi in grandi ceste, tutti mettevano in vendita le verdure di stagione frutto del loro lavoro sui campi; e, ancora, gabbie con conigli e galline, burro e formaggi, botti di vino, fiaschi di olio, e le curiose stecche di merluzzo essiccato, con cui si preparava il tipico piatto locale: il baccalà alla manresana.

Era difficile resistere alle tentazioni di tanto ben di Dio, che le grida dei venditori amplificavano magnificandone la freschezza e il sapore.

Don Manuel affrettò il passo, e in breve raggiunse la casa che gli era stata indicata.

Al nome di Iñigo la porta si schiuse immediatamente. «La prego, entri!». Doña Angela in persona era venuta ad aprire e subito lo introdusse in un’ampia sala da pranzo, indicandogli di accomodarsi su una delle sedie accostate al grande tavolo di legno scuro.

Don Manuel credette opportuno rimanere sul vago: «Ho tanto sentito parlare di Iñigo, che mi è venuto il desiderio di conoscerlo. Ma, a quanto ho saputo, si è imbarcato per Gerusalemme. Almeno di riflesso mi piacerebbe sapere chi era, cosa pensava, che vita faceva, per riportarmi a casa qualcosa di edificante. Mi è stato detto che lei lo conosceva bene…».

«Certo! Assieme ad alcune amiche ci intrattenevamo spesso con lui per confrontarci nel rispettivo cammino spirituale. Era una persona profonda, sensibile, seriamente in ricerca di Dio. La cosa che più apprezzavamo in lui era la capacità di leggersi dentro, un’abilità che aveva acquisito “sul campo”, anche prendendo delle belle cantonate. Fu appunto una di queste a condurlo a casa mia.

Un giorno non lo vedemmo venire al consueto incontro del nostro gruppo. Era strano… lui, sempre così puntuale e impegnato! Lì per lì lo attribuimmo a un contrattempo, ma cominciammo a preoccuparci quando nemmeno la volta successiva lo vedemmo arrivare.

I domenicani, presso cui era alloggiato, ci dissero che mancava da alcuni giorni; quando era uscito aveva lasciato detto che andava al santuario di Viladordis.

Ci recammo subito lì e lo trovammo accasciato in un angolo, talmente debole che nemmeno riusciva a camminare. Ci fu bisogno di un carro per portarlo qui da me. Sa, questa è una casa grande e abbiamo delle stanze libere in cui ospitiamo qualche ammalato povero che ci viene inviato dall’ospizio di Santa Lucia quando loro non hanno più posto.

Gli ci vollero diversi giorni per rimettersi, tanto grave era lo stato di prostrazione in cui era caduto. Giorni in cui ci demmo il turno per assisterlo.

Quando si riprese, ci volle tutte attorno a sé per raccontarci quello che era successo e spiegarci cosa aveva ricavato da quell’esperienza.

In un giorno di mercato, proprio come oggi, era passato per Plaza Mayor e si era lasciato tentare dalla gola. Forse per il fatto che normalmente mangiava pochissimo, era stato colto da violenti dolori di stomaco. «Devo fare più astinenza» si era detto. E si era recato alla Madonna della salute, il santuario di Viladordis, per starvi in digiuno e orazione.

Dopo qualche giorno, debilitato dalla fame, aveva creduto di morire. In quel momento gli venne un pensiero che gli diceva «Sei un giusto».

Nel riprendersi della convalescenza, si stava ora rendendo conto che quel pensiero, il desiderio di essere un giusto, l’aveva trascinato in eccessi tali da condurlo presso a morte.

Ancora una volta il suo demonio - ora gli poteva dare un nome: “perfezionismo” - lo aveva imbrogliato travestendosi da angelo inviato da Dio ad indicargli la strada.

Ma lo aveva smascherato quella mattina stessa, lavandosi il viso: versando l’acqua nel catino, questa schizzava dappertutto in mille spruzzi; mentre invece, versata sulla spugna, vi penetrava dolcemente. Allo stesso modo, aveva sperimentato che i pensieri insinuati dal demonio gli creavano agitazione, timore, esaltazione, urgenza, costrizione; quelli, invece, che gli suggeriva Dio, entravano in lui dolcemente, dandogli pace, gioia, facendogli respirare un’aria di libertà.

Ora che era stato scottato l’aveva capito: Dio non è mai negli eccessi che stridono con i bisogni della natura umana. Il nostro “magis”, il nostro bene maggiore non prescinde mai dal bene nostro, oltre che da quello degli altri.

La chiamata a fare qualcosa che, come conseguenza, ci debilita fisicamente o ci rende tristi, non viene da Dio. Dio non ci chiede ciò che non ci ha preparato a dare.

Il “magis” è sempre e solo “Ad maiorem Dei gloriam”, per la maggior gloria di Dio. E «“Gloria Dei homo vivens”» aveva detto citando Sant’Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo Vivente, l’uomo che rivela la grandezza di Dio mostrando in sé cosa significa Vivere in pienezza - sereno, libero e gioioso - e che cos’è un Uomo - appassionato, generoso, responsabile»1.

Gli era diventato così chiaro l’inganno in cui era caduto, che decise di “agere contra”, di contrapporsi con forza alla tentazione facendo l’opposto di ciò a cui essa lo portava: con quel corpo che aveva disprezzato, sentendolo un peso per la sua elevazione a Dio, si riconciliò, prendendosene cura: si tagliò i capelli, gettò il sacco che lo copriva per indossare un normale vestito adatto alla stagione; e da allora cominciò a prendersi i giusti tempi di riposo e a nutrirsi adeguatamente.

«Come ho potuto essere così cieco da non vedere quale gran conto abbia fatto Dio del corpo umano, decidendo di rivestirsene col farsi uomo?!» si chiese.

«Esatto, anche perché se non mi prendo cura del mio corpo, non ho le forze per prendermi cura degli altri, anzi, costringo gli altri a prendersi cura di me!» osservò don Manuel.

«E questo è quel che Iñigo cominciò a fare, prendendosi cura degli ammalati all’ospizio di Santa Lucia. A proposito, perché non va a trovare la mia amica Jeronima Claver, che lavora proprio lì? Lei potrà parlarle di un Iñigo che ha rinunciato all’ossessione di meritare Cristo con le proprie grandi opere, per lasciarsi incontrare da Lui nell’implorazione d’aiuto del povero…».

Alcuni violenti colpi alla porta interruppero bruscamente la conversazione.

«Aprite, in nome della Santa Inquisizione!».

Doña Angela corse all’entrata e, nell’aprire, fu quasi gettata a terra dall’impeto con cui quattro soldati si precipitarono nella stanza.

«Dov’è… Dov’è la strega?».

«Ma quale strega?!»

«Si, ci è stato detto che si trova ospitata in questa casa. L’hanno vista portare qui, scarmigliata e discinta, con in mano una scopa».

Ma già gli sgherri erano corsi nelle stanze dell’ospizio per uscirne quasi subito con una ragazza dallo sguardo smarrito, che non si difendeva dalla violenza con cui veniva trattata.

«Fermatevi! Come potete fare un’accusa del genere?!».

«Noi non accusiamo nessuno: sarà l’inquisizione a provare quanto è stato denunciato; ma la posizione di chi ha sollevato questi sospetti ci dà la certezza che questa è già carne bruciata».

Con una velocità sorprendente i quattro si erano già allontanati, trascinando con sé la malcapitata.

«Ce l’aveva portata ieri un amico che l’aveva sottratta allo scherno e agli insulti della gente. Si sa: chi viene da fuori è sempre guardato con sospetto. In quelle condizioni poi!».

«Condizioni che rivelano perlomeno dei secondi fini, se proprio non si vuole ammettere una possessione diabolica» ipotizzò don Manuel.

Doña Angela lo guardò fisso negli occhi, in un lungo istante di silenzio.

«Come si può giudicare una persona senza nemmeno averla ascoltata? Noi l’abbiamo fatto, calmandola e ripulendola, ieri sera. A parole smozzicate, abbiamo capito che ha perso il figlioletto, l’unico affetto che le restava al mondo. Ed è uscita di senno…».

Don Manuel abbassò lo sguardo, più che per l’imbarazzo, per nascondere una smorfia di dolore che gli stava segnando il volto risalendo da una violenta stretta allo stomaco. Nella giovane donna impazzita dal dolore per la morte del figlio, per un attimo aveva invidiato la madre che lui non aveva avuto: affettivamente assente, l’aveva lasciato soggetto a un padre dispotico e violento. Forse fu il voler superare al più presto l'impaccio in cui si trovava a fargli dire: «Ma… e la scopa? Questo è un chiaro segno di commercio col demonio!».

«Voi maschi…!». Doña Angela crollò sulla sedia, chinando il capo e prendendosi il viso tra le mani. Sapeva che le streghe non erano che i capri espiatori dell’incapacità tutta maschile di gestire le proprie pulsioni sessuali, per cui i sensi di colpa venivano messi a tacere accusando le donne della carnalità, della lascivia, dell’istintualità che in sé i maschi non volevano ammettere2. Bastava, allora, un atteggiamento non inquadrato nella rigida morale del tempo per creare la “strega”.

In un impeto d’orgoglio, alzò lo sguardo con tono di sfida: «Si, la forza bestiale del desiderio riesce perfino a farvi vedere la vostra “scopa” tra le gambe della strega!» gridò.

Raggelato e sconvolto, don Manuel corse fuori. Nemmeno lui era diverso dagli altri.


1 In una lettera agli studenti di Coimbra (7 maggio 1547), così Sant’Ignazio parla del fervore indiscreto: “Il nostro nemico, dice San Bernardo, non ha artificio più efficace per strappare dal cuore la vera carità che quello di manovrare perché si proceda in essa senza prudenza anziché secondo saggezza spirituale. “Niente di troppo”, questo detto del filosofo (Pittaco) deve osservarsi in tutto. Non mantenendo questa moderazione, il bene si converte in male e la virtù in vizio e ne derivano molti inconvenienti, tutti contrari all’intenzione di chi segue questa via. Il primo inconveniente è che non si può così servire Dio a lungo: il cavallo che viene affaticato troppo nelle prime tappe non è capace di giungere al termine della corsa, e anzi bisogna che altri si occupi a servire lui. […] La discrezione è dunque necessaria in questa materia, in quanto modererà gli esercizi virtuosi tra i due estremi. Lo nota molto bene San Bernardo: “Non bisogna sempre fidarsi della buona volontà. Bisogna frenarla, regolarla, specialmente in un principiante”. Se qualcuno vuol fare del bene agli altri non deve fare del male a se stesso. “Chi è cattivo con se stesso, con chi sarà buono?” (Sir 14, 5)”. E, riguardo all’indiscreto uso del corpo, in una lettera a Francesco Borgia del settembre 1548, afferma: “Desidero che imprima nella sua anima che, appartenendo essa insieme con il corpo al suo Creatore e Signore, gliene deve rendere conto e perciò non deve lasciare indebolire il fisico, la cui debolezza non permetterebbe più allo spirito di esercitare le sue attività. [...] Dobbiamo infatti amare il corpo nella misura in cui obbedisce all’anima e l’aiuta. Questa poi con tale aiuto e obbedienza si dispone maggiormente a servire e lodare il nostro Creatore e Signore”.

2 “Foemina deriva da fe-minus, perché ha meno fede e ancor meno la mantiene. La donna, cattiva per sua natura, cade presto nei dubbi della fede, rinnega la fede medesima: da ciò deriva la sua dedizione alla stregoneria, con la quale realizza i suoi malefici. In quanto alla volontà, poi, la donna, quando è presa dall’odio contro qualcuno che prima amava, arde d’ira e di impazienza, e si agita e ribolle come il mare. In conclusione, tutto dipende dalla concupiscenza carnale, che nelle donne è insaziabile, onde si danno da fare con i demoni per soddisfare la loro libidine”. Testo tratto dal “Malleus Maleficarum”, manuale per l’identificazione e il trattamento delle streghe, pubblicato dagli inquisitori Kramer e Sprenger nel 1486.


5/01/2025

Perdonare. Anche a chi non interessa?

«Io vi perdono, ma voi vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare». Così la vedova dell’agente di scorta di Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia, al suo funerale.

A loro interessava essere perdonati? Se il perdono è ridare fiducia a chi ha sbagliato, questa fiducia deve chiederla, deve interessargli riceverla!

Un altro episodio. Un passante, a cui avevo chiesto un’informazione, si sfoga con me della sua rabbia contro gli extracomunitari: uno di questi ha investito suo figlio, uccidendolo. Potrebbe perdonare, almeno per ritrovare la pace dentro di sé? «Impossibile!», mi dice; e se ne va con la sua rabbia.

Gesù, sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!». Ma loro erano ben convinti di star facendo la cosa giusta!

Più vicino a noi… quella persona che continua a farmi del male, vedendo solo le sue ragioni. Per lei sono io, naturalmente, ad avere torto. E non c’è nulla da fare (quanto ci ho provato!): chi la smuove?

In questi casi, perdonare a cosa serve? Percorriamo due strade che non si incontreranno mai!

Non ne vengo fuori, non posso trovare un senso al perdono finché lo considero un problema tra noi due.

In realtà il tuo gesto, le tue parole sono espressione di un atteggiamento che fa girare il mondo attorno a te e, come un vortice, risucchia ciò che gli sta attorno rendendolo uguale a sé. Anch’io rischio di esserci preso dentro e, esasperato, finire col nutrire in me sentimenti di rabbia, di rivalsa, di vendetta. Schiacciato, anziché cercare ciò che è giusto, faccio di tutto per prevalere, per fartela pagare, per ridarti il tuo con gli interessi. E così divento uguale a te.

Perdono è allora prendermi la responsabilità della situazione per darle una direzione diversa. Faccio io, al posto tuo, quello che tu non riesci, non puoi, non vuoi fare; faccio quel che è giusto mentre tu continui a uccidermi; trasformo quel che tu hai rovinato, lo guarisco. Non lo faccio per te: lo faccio per il mondo, perché il mondo non sia condizionato dal tuo atteggiamento. Sblocco la situazione facendo un passo oltre, lasciando lì quel che è successo e guardando avanti. Non voglio farmene distruggere, ma voglio costruire qualcosa di nuovo. Divento ciò che tu avresti dovuto essere. Risorgo la situazione: non sarà mai quella che sarebbe stata senza quello che hai fatto, sarà diversa, ma sarà nella direzione giusta. Faccio come il vasaio di Geremia: “Ora, se si guastava il vaso che egli stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso, come ai suoi occhi pareva giusto” (Ger 18, 4). La creta guastata si può riutilizzare perché è comunque buona, anche se tu ora le hai dato una forma sbagliata.

Non mi lascio bloccare nella situazione che tu hai creato e non me ne lascio distruggere. Perdonare è decidere di costruire un futuro con le macerie, sentendo che questo è compito mio perché tu qui ti sei fermato e non vuoi o non puoi andare avanti.

          Michele Bortignon

Per-dono, il perdono, appunto, è un dono, è qualcosa che io ti regalo (o che l’altro regala a me), qualcosa che tu non mi hai chiesto, ma che io desidero darti. Eppure, tu nella tua libertà, lo puoi rifiutare e rimandare al mittente, perché tu da me non vuoi nulla, hai deciso che tu con me non hai nulla da spartire, che, anzi la causa di tutti i tuoi mali sono io e ti va più che bene così. Che fare? Instaurare una dittatura del bene e insistere per imporre le mie buone ragioni? Oppure perdonarti, rappacificarmi con me stessa e accettare il tuo rifiuto di una riconciliazione? Delle due scelgo la seconda via, lasciando aperta la strada della riconciliazione senza impormi, senza distruggere per costruire: “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra.” (Is 42,2-4).

La libertà dell’altro è sacra, l’altro è libero di uccidermi e anch’io, però, di non lasciarmi morire. Ma come continuare a vivere? Chi è arrabbiato con me perché per lui sono la causa di tutti i suoi mali cercherà di trascinarmi nel vortice del suo malessere, malessere che non vuol risolvere, perché stare male e soffrire comporta il vantaggio di farsi commiserare e consolare, significa attirare l’attenzione di qualcuno su di sé (piuttosto di non esserci per nessuno meglio esserci, anche se in modo negativo). “Soffro, quindi esisto e sono degno di compassione” sembra essere il suo mantra ed è tutto il contrario dal mio: “sei prezioso ai miei occhi sei degno di stima e io ti amo” (Is 43,4).

In definitiva perdonare è anche lasciare libero l’altro di non perdonarti.

          Maria Rosa Brian




4/25/2025

Il “mio” papa Francesco

Quante volte mi sono trovato a pensare “Se fosse arrivato prima…!”. Ma forse è stato bene così: avrei risparmiato tanta sofferenza, ma non avrei fatto l’esperienza della misericordia nel camminare con questa Chiesa così com’è e del soffio dello Spirito che ti sostiene quando gli altri ti tirano giù.

Una chiesa in uscita: questo era il sogno evangelizzatore di Francesco: “Andate, tutti, senza paura di sbagliare”. Mi ricorda le parole di Gesù: “Non preoccupatevi di ciò che dovrete dire, ma dite ciò che in quell'ora vi sarà dato: poiché non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo” (Mc 13,11). E, dall’altra parte, mi sento ancora addosso lo sguardo di sospetto di qualche parroco quando gli presentavo il percorso del Kaire: “Chi sei? Da chi sei autorizzato?”; per non parlare di quel “Sei fuori dalla Chiesa” di chi non si capacitava che potessi avere un’idea di evangelizzazione diversa da coloro con cui avevo fino ad allora collaborato.

Se non sei nella struttura, non puoi agire: è il clericalismo, contro il cui trasbordare tra i laici Francesco ha spesso messo in guardia. Volendo che ogni iniziativa venga istituzionalizzata, gestita dalla gerarchia incanalandola in un ministero, togliamo il diritto allo Spirito di esprimersi liberamente in chi vuole muovere verso una novità, rinunciamo alla bellezza dei carismi: fuggevoli ma intensi, si posano or qui or lì come un abbraccio che riscalda o uno sprazzo di luce che indica una direzione.

Ancora, ricordo l’attenzione di Francesco alle situazioni “scomode” per la Chiesa, quella delle donne in particolare. Bloccato dalle resistenze dell’istituzione, ha agito con gesti “profetici”, inserendo diverse donne al suo interno. L’azione passa al pensiero: avendo l’opportunità di essere apprezzate, poco alla volta cadranno i pregiudizi maschilisti e diventerà normale quel che ora è guardato con perplessità.

Ma bisogna cominciare. Prendendo posizione.

Anni fa Benedetto XVI° indisse un sinodo per affrontare alcune questioni. Fra queste, i vescovi inserirono l’apertura al diaconato femminile, ma l’indicazione venne stralciata dal papa. A quel tempo avevo iniziato il percorso per diventare diacono. “Se una donna non può essere diacono, non lo sarò neppure io”, decisi. Per il principio di incarnazione, voglio essere con Cristo da laico in mezzo ai laici, senza nessuna distinzione. E’ l’esperienza di vita, non il ministero a dare credibilità.

Tutto questo con Francesco è diventato prima auspicio, poi normalità e speriamo presto ovvietà, spostando il baricentro della Chiesa dal clero al popolo di Dio uno, articolato e protagonista.

Francesco ha spinto in questa direzione, dandoci fiducia. Vogliamo deporre timidezze e sensi di inadeguatezza, credendo che a evangelizzare è la nostra vita vissuta nella bellezza di essere con Cristo?


Michele Bortignon