Ultimamente, ascoltando una
descrizione degli attributi di Ganesha, il dio elefante degli induisti, mi sono
reso conto che questa raffigurazione del Buddha ne mutua diversi elementi che
lo presentano nella veste di accompagnatore spirituale. Come una caricatura
rende riconoscibile una certa persona modificando le dimensioni di parti
caratteristiche della sua immagine, così troviamo, in questa raffigurazione del
Buddha, certi aspetti che ci sembrano esagerati, ma sono appunto tali in quanto
caricati di simbolismo.
Il capo è grande
rispetto al corpo, simbolo di saggezza, di intelligenza, di capacità di
elaborazione del pensiero nella riflessione e nella preghiera; e calvo, ossia
senza barriere nei confronti delle realtà spirituali oggetto della sua
meditazione.
Gli orecchi sono molto grandi, a
denotare capacità di ascolto, mentre la bocca è piccola, a sottolineare il
silenzio pieno di rispetto che deve accompagnare il comunicarsi dell’altro: si
deve ascoltare molto e parlare poco.
Il Buddha non era affatto grasso:
si può facilmente immaginare come sia arduo accumulare anche un solo filo di
grasso facendo soltanto un pasto frugale al giorno, come richiesto ancor oggi
dalla regola dei monaci buddisti, dettata e osservata prima di tutti dal Buddha
in persona. Durante la strenua lotta che ingaggiò per raggiungere il risveglio,
durata sei anni, si sottopose a tremendi digiuni, con effetti devastanti sul
proprio corpo, come testimoniato nel Canone, la più antica scrittura buddista.
Il ventre obeso rappresenta
allora la capacità di digerire, cioè di assimilare con sereno distacco, senza
scomporsi minimamente, qualsiasi esperienza venga comunicata.
Il piede che poggia a terra e
quello sollevato indicano l'atteggiamento da assumere nell’accompagnamento:
partecipare alla concretezza della vita e, allo stesso tempo, alla realtà di Dio, che addita la
prospettiva corretta per viverla nella verità, ovvero la capacità
di vivere nel mondo senza essere del mondo.
La mano sinistra, corrispondente
al piede sollevato, cioè alla realtà divina, è appoggiata al cuore, in cui
abita il “Deus intimior intimi mei” (Sant’Agostino), luogo di inabitazione
nell’uomo del Dio Amore, luogo di incontro tra l’uomo e Dio nella condivisione
vitale e vitalizzante dell’amore come senso della vita: “Dio è amore; chi
sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4, 16).
La mano destra, atteggiata a
pugno sopra la gamba col piede che poggia a terra, con questi sembra costituire
una colonna ben piantata sulla realtà della vita: simboleggia la capacità di
scegliere, di prendere delle decisioni dopo aver compreso con Dio qual è la via
da seguire.
L’espressione del volto è sorridente.
In oriente si racconta che quando il Buddha raggiunse l’Illuminazione scoppiò
in una grande risata.
Un viandante, vedendo il Buddha
che rideva, gli chiese: «Perché ridi?»
Il Buddha, a fatica, tra le
risate, gli rispose: «Perché ho raggiunto l’Illuminazione»
A quel punto il viandante gli
domandò: «E che cos’è l’Illuminazione?»
E il Buddha: «L’Illuminazione è
aver capito che ciò di cui ho bisogno è già tutto dentro di me».
E’ un caso che la veste sia rosa,
il colore che nella liturgia cattolica è utilizzato nelle domeniche “Gaudete” e
“Laetare” ad indicare la gioia? E, sul rosa, dei ricami coloro oro, che
nell’iconografia è il colore di Dio, riflesso della sua gloria. Quella del
Buddha è dunque una gioia che viene da Dio, appunto attraverso l’illuminazione
raggiunta.
La stessa obesità attribuita al
Buddha è un simbolismo di origine cinese che rappresenta la pienezza della
gioia derivante dal superamento della sofferenza grazie all’illuminazione.
Inoltre, la pancia era
considerata la dimora dell'anima, per cui la sua dimensione rappresentava la
grandezza della bontà di chi la portava.
Al di là della religione da cui
l’immagine è veicolata, è dunque interessante notare come i simbolismi parlano
a tutte le culture, in quanto le realtà raffigurate hanno una valenza di
spessore umano.
Michele Bortignon
Michele Bortignon