10/09/2013

Lo specifico del Kaire: accompagnare trasmettendo ciò che ho imparato dalla vita vissuta con Cristo, nel suo Spirito

Kaire! Rallegrati: c’è sempre una resurrezione che segue ogni morte, se questa è vissuta nello spirito di Cristo: con fede, speranza e amore.
Potrebbero bastare queste parole per dire che cosa significa accompagnare trasmettendo ciò che si vive.
Questa è stata ed è la mia esperienza: un Dio che non lascia l’uomo nella morte, nella solitudine, nel dolore. Ho fatto esperienza di un Dio vicino, un Dio uomo, un Dio con noi; un Dio che non giudica, non condanna; un Dio che non chiede di essere amato, riverito, adorato, ma un Dio amante dell’uomo, un Dio tenerezza, un Dio madre, un Dio misericordia.
Ogni morte non è per sempre: magari non dura i tre giorni canonici, ma dopo un tempo che è completo, proprio come i tre giorni simbolici di Gesù (il numero tre nell’antico testamento simboleggia ciò che è completo e definitivo), con Lui risorgiamo.
È questo ciò che ho sperimentato.
La nostra è una resurrezione se dall’esperienza di morte usciamo creature nuove, cambiate; in questo caso non si tratta di una vivificazione come lo è stato per Lazzaro, ma di una rinascita. Perché? Perché l’esperienza di morte, ma soprattutto il modo con il quale siamo rimasti dentro a quella situazione -senza fretta di uscirne e senza voler salvare noi stessi ad ogni costo- ci ha cambiato. Soprattutto, a cambiarci è la certezza di Chi abbiamo incontrato in quella morte, di Chi è rimasto con noi.
E’ questa esperienza di un Dio vicino, che ci aiuta a trasformare la morte in risurrezione, che ci abilita ad accompagnare spiritualmente altre persone. E com’è importante, in questo, la nostra esperienza della vita, l’essere immersi negli stessi problemi che si trova ad affrontare chi accompagniamo! Il nostro essere laici diventa così un’unzione particolare dello Spirito per parlare con autorevolezza di vita vissuta con Cristo.
Accompagnare non significa, dunque, avere un manuale a disposizione da imparare a memoria o da sbirciare nei momenti di difficoltà (quanto ho voluto fosse così!); e nemmeno sapere già tutto, avere tutto sotto controllo, avere le soluzioni pronte (quanto l’ho desiderato!).
Non c’è nessuna valigetta del dottore o ricetta pronta per affrontare i problemi, ma solo un legame profondo, un rapporto costante con Dio, che non ha nulla di mistico o esoterico, ma è semplicemente un atteggiamento di dialogo interiore e di vita nello Spirito che permette di mettere davanti a Lui tutta la tua vita e quella di chi accompagni. Semplicemente si tratta di un grande Amore di cui nutrirsi: prima accolto, interiorizzato, gustato e poi distribuito, condiviso, moltiplicato.

Proprio perché nasce dall’esperienza della vita, accompagnare è mostrarsi all’altro spoglio, vestito solo delle proprie ferite, più o meno rimarginate, da lasciargli toccare e da cui tirar fuori ciò che gli serve. Sì, proprio come si è presentato Cristo a Tommaso: riconoscibile delle sue ferite.
Mi accorgo con stupore e tremore che, quando mi mostro così, quella mia ferita diventa balsamo per l’altro. Alla fine, al limite dell’assurdo, del mio problema e del mio male mi ritrovo a ringraziare Dio perché esso è stato bagaglio e strumento per aiutare chi accompagno.
Talvolta mi rendo conto che ho appena vissuto quello che sta sperimentando un mio esercitante o che lo stiamo vivendo contemporaneamente… io “maestra” che imparo mentre spiego, io che lo dico a loro mentre lo sto capendo io per prima e lo sto dicendo a me stessa. Sembra quasi che Dio, per preparare la sua risposta al bisogno dell’altro, non voglia farlo attraverso parole che non siano state prima vissute nella mia esperienza.
E il bello è che nel momento in cui la mia ferita diventa esperienza mia per l’altro la stessa cura che dono serve anche a me, per cui quella che impara e che trae il beneficio più grande sono sempre io. Sembra di risentire le parole di Gesù: “Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche»” (Mt 13,52). Mi sono chiesta: “Come si può tirar fuori dal proprio tesoro cose nuove?”. L’immagine che ho nella mia mente è quella di un ricco che, aperto il suo forziere, inizia a tirar fuori tesori. Mi sembra ovvio che trattandosi del suo tesoro lo conosca molto bene: sono tutte ricchezze che lui ha messo dentro. Eppure Gesù parla di cose nuove. Come se all’improvviso questo padrone di casa estraesse una cosa che non sapeva di avere nel suo forziere. Parole che non sai di avere, esperienze che vedi sotto una prospettiva diversa, gesti che non sembrano tuoi…eppure…escono da te, dal tuo cuore, dal tuo tesoro, messi là da un Dio che sa di che cosa c’è bisogno per farsi presente e vicino attraverso di te.
E se Lui c’è, possono venir meno le preoccupazioni di essere all’altezza.
Accompagnare per me ha significato abbandonarmi a Lui, accettare che non dipende tutto e solo da me, lottando contro quella parte di me che si sentiva inadeguata, incapace, mai all’altezza, che pretendeva di avere tutto sotto controllo e pianificato: accompagnare è proprio ricominciare e ripartire sempre facendo davanti a te solo il passo che Lui ti dà di vedere (a volte neanche quello) e nulla di più. Accompagnare è come la vita: s’impara vivendo.
E così ho imparato che veramente umano e divino si danno la mano per camminare assieme per le strade di questo mondo, che la storia con Dio la costruiamo ogni giorno vivendo e amando come Gesù ci ha testimoniato con i fatti e non solo a parole.
È proprio vero, si è credibili quando si parla per esperienza e non attraverso belle parole imparate a memoria. Accompagnare è veramente un camminare con le scarpe di chi accompagno. 

                                                                                               Maria Rosa Brian