Kaire! Rallegrati: c’è sempre una resurrezione che segue ogni
morte, se questa è vissuta nello spirito di Cristo: con fede, speranza e amore.
Potrebbero bastare queste parole per dire che cosa significa
accompagnare trasmettendo ciò che si vive.
Questa è stata ed è la mia esperienza: un Dio che non lascia
l’uomo nella morte, nella solitudine, nel dolore. Ho fatto esperienza di un Dio
vicino, un Dio uomo, un Dio con noi; un Dio che non giudica, non condanna; un
Dio che non chiede di essere amato, riverito, adorato, ma un Dio amante
dell’uomo, un Dio tenerezza, un Dio madre, un Dio misericordia.
Ogni morte non è per sempre: magari non dura i tre giorni
canonici, ma dopo un tempo che è completo, proprio come i tre giorni simbolici
di Gesù (il numero tre nell’antico testamento simboleggia ciò che è completo e
definitivo), con Lui risorgiamo.
È questo ciò che ho sperimentato.
La nostra è una resurrezione se dall’esperienza di morte usciamo
creature nuove, cambiate; in questo caso non si tratta di una vivificazione
come lo è stato per Lazzaro, ma di una rinascita. Perché? Perché l’esperienza
di morte, ma soprattutto il modo con il quale siamo rimasti dentro a quella
situazione -senza fretta di uscirne e senza voler salvare noi stessi ad ogni
costo- ci ha cambiato. Soprattutto, a cambiarci è la certezza di Chi abbiamo
incontrato in quella morte, di Chi è rimasto con noi.
E’ questa esperienza di un Dio vicino, che ci aiuta a
trasformare la morte in risurrezione, che ci abilita ad accompagnare
spiritualmente altre persone. E com’è importante, in questo, la nostra
esperienza della vita, l’essere immersi negli stessi problemi che si trova ad
affrontare chi accompagniamo! Il nostro essere laici diventa così un’unzione
particolare dello Spirito per parlare con autorevolezza di vita vissuta con
Cristo.
Accompagnare non significa, dunque, avere un manuale a
disposizione da imparare a memoria o da sbirciare nei momenti di difficoltà
(quanto ho voluto fosse così!); e nemmeno sapere già tutto, avere tutto sotto
controllo, avere le soluzioni pronte (quanto l’ho desiderato!).
Non c’è nessuna valigetta del dottore o ricetta pronta per
affrontare i problemi, ma solo un legame profondo, un rapporto costante con
Dio, che non ha nulla di mistico o esoterico, ma è semplicemente un
atteggiamento di dialogo interiore e di vita nello Spirito che permette di
mettere davanti a Lui tutta la tua vita e quella di chi accompagni.
Semplicemente si tratta di un grande Amore di cui nutrirsi: prima accolto,
interiorizzato, gustato e poi distribuito, condiviso, moltiplicato.
Proprio perché nasce dall’esperienza della vita, accompagnare è
mostrarsi all’altro spoglio, vestito solo delle proprie ferite, più o meno
rimarginate, da lasciargli toccare e da cui tirar fuori ciò che gli serve. Sì,
proprio come si è presentato Cristo a Tommaso: riconoscibile delle sue ferite.
Mi accorgo con stupore e tremore che, quando mi mostro così,
quella mia ferita diventa balsamo per l’altro. Alla fine, al limite
dell’assurdo, del mio problema e del mio male mi ritrovo a ringraziare Dio
perché esso è stato bagaglio e strumento per aiutare chi accompagno.
Talvolta mi rendo conto che ho appena vissuto quello che sta
sperimentando un mio esercitante o che lo stiamo vivendo contemporaneamente… io
“maestra” che imparo mentre spiego, io che lo dico a loro mentre lo sto capendo
io per prima e lo sto dicendo a me stessa. Sembra quasi che Dio, per preparare
la sua risposta al bisogno dell’altro, non voglia farlo attraverso parole che
non siano state prima vissute nella mia esperienza.
E il bello è che nel momento in cui la mia ferita diventa
esperienza mia per l’altro la stessa cura che dono serve anche a me, per cui
quella che impara e che trae il beneficio più grande sono sempre io. Sembra di
risentire le parole di Gesù: “Ed egli
disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è
simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose
antiche»” (Mt 13,52). Mi sono chiesta: “Come si può tirar fuori dal proprio
tesoro cose nuove?”. L’immagine che ho nella mia mente è quella di un ricco
che, aperto il suo forziere, inizia a tirar fuori tesori. Mi sembra ovvio che
trattandosi del suo tesoro lo conosca molto bene: sono tutte ricchezze che lui
ha messo dentro. Eppure Gesù parla di cose nuove. Come se all’improvviso questo
padrone di casa estraesse una cosa che non sapeva di avere nel suo forziere.
Parole che non sai di avere, esperienze che vedi sotto una prospettiva diversa,
gesti che non sembrano tuoi…eppure…escono da te, dal tuo cuore, dal tuo tesoro,
messi là da un Dio che sa di che cosa c’è bisogno per farsi presente e vicino
attraverso di te.
E se Lui c’è, possono venir meno le preoccupazioni di essere
all’altezza.
Accompagnare per me ha significato abbandonarmi a Lui, accettare
che non dipende tutto e solo da me, lottando contro quella parte di me che si
sentiva inadeguata, incapace, mai all’altezza, che pretendeva di avere tutto
sotto controllo e pianificato: accompagnare è proprio ricominciare e ripartire
sempre facendo davanti a te solo il passo che Lui ti dà di vedere (a volte
neanche quello) e nulla di più. Accompagnare è come la vita: s’impara vivendo.
E così ho imparato che veramente umano e divino si danno la mano
per camminare assieme per le strade di questo mondo, che la storia con Dio la
costruiamo ogni giorno vivendo e amando come Gesù ci ha testimoniato con i
fatti e non solo a parole.
È proprio vero, si è credibili quando si parla per esperienza e non
attraverso belle parole imparate a memoria. Accompagnare è veramente un
camminare con le scarpe di chi accompagno.
Maria Rosa Brian