7/03/2017

Chi sono i poveri per gli accompagnatori Kaire?

La domanda è rimbalzata nella mia mente dopo una riflessione e un approfondimento sull’esortazione apostolica Evangelii Gaudium di papa Francesco.
Il papa fa dei poveri e di una chiesa povera il centro del suo pontificato.  “Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica” [EG 198].

Partiamo da qualche punto dell’ Evangelii Gaudium:
“Rimanere sordi a quel grido [dei poveri], quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto...” [EG 187].
“Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17) [EG187].
Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso «si fece povero»” (2 Cor 8,9) [EG 197].
“…desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei*, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro” [EG 189]. (*Sensus fidei è quella capacità, infusa dallo Spirito Santo, che abilita ad abbracciare la realtà della fede con l’umiltà del cuore e della mente).
“Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro” [EG 189].


Il papa sottolinea dunque che i poveri non sono solo i destinatari del nostro aiuto, ma Dio vuole comunicarci qualcosa attraverso di loro.
Da brava cristiana avevo sempre pensato di dover dare per dovere… forse più che per amore. Dare io all’altro, magari in modo distratto, magari per liberarmene, per non entrare in relazione con lui: il lontano da me. Per me il dare era materiale, il di più, il mio superfluo, …a volte un po’ di più del superfluo. Spesso mi accompagnava quel senso di frustrazione dovuto alla sensazione che il mio dare era sempre un nulla in confronto del gran bisogno che c’era e c’è nel mondo. E a questo punto il diavolo ci andava a nozze, sibilandomi nell’orecchio: «Nel mare di miseria che affligge il mondo, la tua gocciolina evapora prima ancora di toccare la superficie. O tutto o nulla, o fai tanto o non fai». Questa era la conclusione a cui mi portava.

Ma Dio ci prende per mano e ci indica la terza via: «Da’ ciò che sei, non solo ciò che hai». Ho iniziato così ad offrire ciò che sono e ciò che la mia storia con Dio poteva dare agli altri. Mi sono ritrovata con una ricchezza che si rivalutava giorno per giorno grazie a chi cercavo di aiutare: proprio accompagnando le persone, camminando con loro tra mille difficoltà e mille problemi, stavo imparando da chi cercavo di aiutare.
Ho imparato da chi è povero, perché ammalato, il valore di una visita, di una carezza, della vicinanza. Ho imparato da chi è povero di pazienza, perché arrabbiato con Dio, l’importanza di saper contenere e raccogliere il suo sfogo. Ho imparato da chi è povero di relazioni l’importanza di un abbraccio, di un “ci sono per te quando ne hai bisogno”. Ho imparato da chi è povero di stima l’importanza di valorizzare e apprezzare le persone. Ho imparato da chi è povero di fiducia, perché deluso dalla vita, l’importanza di darsi coraggio, alzare lo sguardo e ripartire.
Pensavo di dare e invece ricevevo; mi accorgevo che il povero, qualunque povero, mi aiutava a migliorarmi, a crescere, a mettermi in crisi, a interrogarmi su tante cose e a cercare risposte che altrimenti nella mia tranquilla vita ovattata non avrei trovato.
Mi sono anche resa conto che le povertà dell’altro sono, o possono diventare, le mie stesse povertà. Ci sono infatti delle occasioni in cui anche a noi “non poveri” è data la sorte di esserlo per un periodo: una malattia che ci rende sofferenti e inabili, una difficoltà economica, un problema di relazione con una persona che amiamo… La differenza sostanziale è che quella che per noi è una caduta, per i poveri veri è una costante.
Abbiamo detto che il problema non è cosa fare per i poveri, ma essere con i poveri da poveri. Essere poveri con i poveri significa allora, in questa situazione per noi momentanea, non limitarsi a fare il possibile per uscirne, ma cogliere l’opportunità di comprendere “dal di dentro” cosa significhi povertà; comprendere: non per trovare e poi porgere soluzioni, ma per poter ascoltare senza giudicare, sentendo nel cuore ciò che il povero prova sulla propria pelle, offrendogli una presenza, spesso unico conforto possibile e comunque base per ogni ulteriore aiuto. E questo con-prendere, questo “essere con” ti fa più grande delle tante piccolezze della vita, regalandoti una “vastità” che ti dà pace.

A volte, a te “normale”, non è nemmeno la vita che ti fa lo sgambetto a renderti povero, ma puoi sentirti chiamato a farti povero potendo non esserlo. C’è un di più, un meglio, una bellezza che la vita ti offre, che è buono e piacevole per te, ma va a discapito di un di più, un meglio, una bellezza di vita con gli altri. Allora ti dici: «Posso, ma non voglio; magari cado, ma torno indietro; non è questa la mia strada…». Follia per il mondo, ma sapienza secondo Dio. Rinuncia a quell’isola felice in cui fuggire le difficoltà del quotidiano per rispondere invece alle esigenze di una realtà spesso difficile ma che, con le sue esigenze, ti fa crescere umanamente.
E’ questa povertà, fatta di fedeltà a ciò che sei chiamato ad essere -con impegno e misericordia!- che ti rende riferimento per chi si è reso o è stato reso povero da una fuga dalla realtà alla ricerca di un attraente “meglio” rivelatosi poi illusione, e che ora guarda con nostalgia alla tua “normalità”, banale ma felice.


Mariarosa Brian e Michele Bortignon