
Il papa fa dei poveri e di una
chiesa povera il centro del suo pontificato.
“Per la Chiesa l’opzione per i
poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o
filosofica” [EG 198].
Partiamo da qualche punto dell’
Evangelii Gaudium:
“Rimanere sordi a quel grido [dei poveri], quando noi siamo gli
strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre
e dal suo progetto...” [EG 187].
“Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in
necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?”
(1 Gv 3,17) [EG187].
“Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che
Egli stesso «si fece povero»” (2 Cor 8,9) [EG 197].
“…desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da
insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei*, con le proprie sofferenze
conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo
evangelizzare da loro” [EG 189]. (*Sensus
fidei è quella capacità, infusa dallo Spirito Santo, che
abilita ad abbracciare la realtà della fede con l’umiltà del cuore e della
mente).
“Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra
voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a
comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci
attraverso di loro” [EG 189].
Il papa sottolinea dunque che i
poveri non sono solo i destinatari del nostro aiuto, ma Dio vuole comunicarci
qualcosa attraverso di loro.
Da brava cristiana avevo sempre
pensato di dover dare per dovere… forse più che per amore. Dare io all’altro,
magari in modo distratto, magari per liberarmene, per non entrare in relazione
con lui: il lontano da me. Per me il dare era materiale, il di più, il mio
superfluo, …a volte un po’ di più del superfluo. Spesso mi accompagnava quel
senso di frustrazione dovuto alla sensazione che il mio dare era sempre un
nulla in confronto del gran bisogno che c’era e c’è nel mondo. E a questo punto
il diavolo ci andava a nozze, sibilandomi nell’orecchio: «Nel mare di miseria
che affligge il mondo, la tua gocciolina evapora prima ancora di toccare la
superficie. O tutto o nulla, o fai tanto o non fai». Questa era la conclusione
a cui mi portava.
Ma Dio ci prende per mano e ci
indica la terza via: «Da’ ciò che sei, non solo ciò che hai». Ho iniziato così
ad offrire ciò che sono e ciò che la mia storia con Dio poteva dare agli altri.
Mi sono ritrovata con una ricchezza che si rivalutava giorno per giorno grazie
a chi cercavo di aiutare: proprio accompagnando le persone, camminando con loro
tra mille difficoltà e mille problemi, stavo imparando da chi cercavo di
aiutare.
Ho imparato da chi è povero,
perché ammalato, il valore di una visita, di una carezza, della vicinanza. Ho
imparato da chi è povero di pazienza, perché arrabbiato con Dio, l’importanza
di saper contenere e raccogliere il suo sfogo. Ho imparato da chi è povero di
relazioni l’importanza di un abbraccio, di un “ci sono per te quando ne hai
bisogno”. Ho imparato da chi è povero di stima l’importanza di valorizzare e
apprezzare le persone. Ho imparato da chi è povero di fiducia, perché deluso
dalla vita, l’importanza di darsi coraggio, alzare lo sguardo e ripartire.
Pensavo di dare e invece
ricevevo; mi accorgevo che il povero, qualunque povero, mi aiutava a
migliorarmi, a crescere, a mettermi in crisi, a interrogarmi su tante cose e a
cercare risposte che altrimenti nella mia tranquilla vita ovattata non avrei
trovato.
Mi sono anche resa conto che le
povertà dell’altro sono, o possono diventare, le mie stesse povertà. Ci sono
infatti delle occasioni in cui anche a noi “non poveri” è data la sorte di
esserlo per un periodo: una malattia che ci rende sofferenti e inabili, una
difficoltà economica, un problema di relazione con una persona che amiamo… La
differenza sostanziale è che quella che per noi è una caduta, per i poveri veri
è una costante.
Abbiamo detto che il problema non
è cosa fare per i poveri, ma essere con i poveri da poveri. Essere poveri con i
poveri significa allora, in questa situazione per noi momentanea, non limitarsi
a fare il possibile per uscirne, ma cogliere l’opportunità di comprendere “dal
di dentro” cosa significhi povertà; comprendere: non per trovare e poi porgere
soluzioni, ma per poter ascoltare senza giudicare, sentendo nel cuore ciò che
il povero prova sulla propria pelle, offrendogli una presenza, spesso unico
conforto possibile e comunque base per ogni ulteriore aiuto. E questo
con-prendere, questo “essere con” ti fa più grande delle tante piccolezze della
vita, regalandoti una “vastità” che ti dà pace.
A volte, a te “normale”, non è
nemmeno la vita che ti fa lo sgambetto a renderti povero, ma puoi sentirti
chiamato a farti povero potendo non esserlo. C’è un di più, un meglio, una
bellezza che la vita ti offre, che è buono e piacevole per te, ma va a
discapito di un di più, un meglio, una bellezza di vita con gli altri. Allora
ti dici: «Posso, ma non voglio; magari cado, ma torno indietro; non è questa la
mia strada…». Follia per il mondo, ma sapienza secondo Dio. Rinuncia a
quell’isola felice in cui fuggire le difficoltà del quotidiano per rispondere
invece alle esigenze di una realtà spesso difficile ma che, con le sue
esigenze, ti fa crescere umanamente.
E’ questa povertà, fatta di fedeltà a ciò che sei chiamato
ad essere -con impegno e misericordia!- che ti rende riferimento per chi si è
reso o è stato reso povero da una fuga dalla realtà alla ricerca di un
attraente “meglio” rivelatosi poi illusione, e che ora guarda con nostalgia
alla tua “normalità”, banale ma felice.
Mariarosa Brian e Michele Bortignon