7/01/2019

Accompagnamento spirituale e accompagnamento psicologico

Nell’accompagnare le persone c’è una meta e c’è un modo, diversi tra chi accompagna spiritualmente e chi accompagna psicologicamente. Proviamo allora a capire come si differenziano accompagnamento spirituale e psicologico relativamente al cammino che propongono alle persone.
Che la persona inizi una psicoterapia, un counseling o un cammino spirituale, indipendentemente dalle motivazioni che ve la portano, il punto di partenza è probabilmente il medesimo: non sta bene con se stessa, desidera essere qualcosa che adesso non è. E qui incontriamo subito la prima differenza.
La psicologia cerca di capire con la persona qual è il suo orizzonte di riferimento per condurvela, per farla abitare in esso con una certa serenità. Classico è l’esempio della patata di Karl Rogers, che, nel buio, cresce verso la luce percepita. Ma ciascuno vede la propria luce, sulla base di quanto sente bene per sé.
Nella spiritualità, invece, l’orizzonte di riferimento è dato e unico: Gesù Cristo, che in sé mostra cosa significa essere persona, realizzando l’istanza più originaria dell’uomo: l’amore.
Anche nell’accompagnare verso la meta, psicologia e spiritualità si differenziano, ed è  importante tener presenti queste distinzioni in modo da non scivolare in linguaggi differenti dal proprio.
La psicologia fa leva sul binomio comprensione-volontà: che sia il capire come fare e farlo, come suggerito dalla psicologia comportamentista, o il coscientizzare i condizionamenti dei meccanismi inconsci per liberarsene, com’è l’operare della psicanalisi, in entrambi i casi la persona ha a che fare con delle idee e viene ricondotta alla propria esclusiva responsabilità nel gestirle. Anche in campo religioso questo approccio è comune e, anzi, finora il più utilizzato: c’è una legge, devi impegnarti a rispettarla.
Tra questo approccio e la spiritualità c’è la caduta da cavallo di San Paolo, in cui l’esperienza centrale è quella di un Dio che parla e muove l’agire dell’uomo relazionandosi con lui. Il suo non è un semplice dirti cosa fare, ma un fartelo sentire tuo: quel che Lui dice e opera fa vibrare la parte di te che senti più vera, la mette in risonanza con Sé e la eccita a diventare più grande di se stessa entrando in comunione con Lui. In una parola, è il suo Spirito che danza col tuo arrivando a un abbraccio che li fa uno.
Spiritualità è dunque questo dialogo fra persone, in cui le idee ci sono, certo, ma assieme ad emozioni, sentimenti, affetti, sensi; com’è in qualsiasi relazione umana tra persone concrete.
Nell’accompagnare spiritualmente, è bene dunque usare un linguaggio che inserisca la persona in questa dinamica e la faccia crescere in essa.
A questo scopo, la prima cosa da fare è eliminare il verbo “dovere”. Le cose non si fanno per dovere, ma perché affascinati, coinvolti, attirati a fare; a volte anche spinti con forza, quasi senza via di scampo: senti che Dio ti prende per lo stomaco e non ti lascia; qui sì devi scegliere, ma sempre nell’ambito di una relazione, non di fronte a un imperativo categorico. E’ Dio l’ispiratore e il motore delle nostre azioni, mostrandoci in Sé e facendoci vivere con Lui qualcosa di così bello e liberante che non possiamo non riviverlo spontaneamente nelle nostre relazioni con gli altri.Ecco allora che il dovere è sostituito dall’accorgerci di quanto Dio già fa per noi e con noi, gustarlo intimamente e lasciarlo emergere in ciò che facciamo. E’, questo, l’opposto della supponenza di chi crede di poter fare da solo. Il primo tranello, appena visto, era il credere che la volontà guidata dalle idee sopperisce alla motivazione; il secondo, che incontriamo subito dopo, è credere che la volontà può tutto. No: possiamo fare quando ci rendiamo “capaci” di Dio aprendogli le nostre incapacità, cosicché sia Lui a fare, in noi e attraverso di noi. Entrano perciò nel linguaggio altri verbi di relazione: chiedere, implorare, affidare, confidare, ringraziare, lodare. “Per grazia di Dio sono quello che sono” dice San Paolo (1 Cor 15, 10), “e la sua grazia in me non è stata vana”: il mio agire è frutto del suo agire in me.
Chi accompagna tesse dunque con pazienza la trama dell’agire della persona nell’ordito della relazione con Dio, cosicché l’uno nell’altra si motivi e sia reso vero, fino a che l’uomo si divinizzi lasciandosi muovere dallo Spirito di Dio e Dio si incarni nell’agire dell’uomo.

                                                                           Michele Bortignon