I padri del deserto la chiamavano
accidia. Per le chiese orientali è l’ottavo peccato capitale. Ma perché la
tristezza sarebbe un peccato? Non è semplicemente una sensazione, uno stato
d’animo? Sì, ma con delle cause e delle conseguenze da studiare e di cui tener
conto per non rimanerne vittime. Non possiamo arrenderci e rassegnarci a
rimanere nel pantano in cui la tristezza ci fa affondare, perché siamo chiamati
alla felicità. Lo dobbiamo al nostro essere uomini.
L’accidia è infatti pesantezza,
fatica di vivere, nebbia fredda che ti avvolge, tedio che ti sfinisce,
insignificanza di quel che fai e mancanza di prospettive, senso di inutilità e
fallimento.
Non è depressione, perché non ne ha le basi biologiche;
potremmo definirla il risultato di un inconscio tentativo di autosalvezza che
prende la persona impegnata nel bene in periodi particolarmente stressanti.
Ti invade allora una sottile
insoddisfazione che non ti dà tregua: non sei contento di quel che sei e che
hai; ti senti e lo senti brutto, noioso, vecchio, inutile.
Vuoi qualcosa di diverso, di
nuovo. Nella consapevolezza, che non vuoi ammettere, che non è nell'ottenere ciò che vuoi che puoi trovare la vita.
Non ti accorgi che è la Morte,
nascosta perché tu non ne veda il volto, a suggerirti beffarda: «Ora o mai
più», «Se non ora, quando?», «Aspettare è tempo perso», «Se non cogli ora
l’occasione, poi sarà troppo tardi». E’ come una fame nervosa che non ti fa mai
sazio. Accontentarti lo senti un tarparti le ali, un rassegnarti alla tua
mediocrità. Già, perché tu sei mediocre. Non puoi dire che non sei e non fai
nulla di buono, perché la realtà ti smentirebbe, ma quanto sei distante da ciò
che potresti e dovresti essere?! I tuoi sogni mancati ti accusano e ti
schiacciano. Pretendi di essere felice (come ti sembra sia giusto esserlo e
come ti sembra tutti gli altri lo siano) e non ti basta essere contento. Non
sai abitare la mediocrità come una povertà in cui essere amato.
Il problema è che sei preoccupato
solo e troppo di te stesso.
Ecco allora che possono venirti
in aiuto tre parole: Grazie, Scusa, Permesso.
Grazie. Perché? Guardati attorno:
nel mondo c’è bellezza, armonia, grandiosità, perfezione, varietà, fantasia,
sapienza. Occasioni di lode, di meraviglia, di stupore, di emozioni. Assieme a
tanti disastri e banalità che costruiti dall'uomo, certo, ma che non
cancellano il fatto che viviamo in un
mondo meraviglioso!
Scusa. Perché? Per non esserti
accorto, per non aver posto attenzione alla bellezza della vita, tutto preso
dalle tue insoddisfazioni capricciose, brontolamenti, lamentele, preoccupazioni
partorite da un’ansia esagerata, senso di disastro dimentico di una storia in
cui alla notte segue comunque il giorno, sensi di colpa che non tengono conto
della misericordia e della fiducia in te di Dio. Scusa anche perché nel
lamentarti hai trascurato di guardare alle risorse che hai per affrontare la
situazione: creatività, saggezza, esperienza, autonomia, intelligenza,
conoscenze. E’ quanto Dio ha già posto nella tua vita.
Permesso. Perché? Non tutto ti è
lecito, nulla ti spetta di diritto, anche se la soluzione sembra così facile e
a portata di mano… se tieni conto solo di te. C’è un Altro che è custode dei
diritti di tutti gli altri. E se, perdendo gli altri, perdi Lui, perdi te
stesso. Chiedere permesso è, dunque, verificare, confrontandoti con Lui, se sei
sulla sua strada.
Tutto questo può aiutarti a
reinquadrare la tristezza come malattia dello spirito, ma c’è solo un
atteggiamento che può renderti possibile percorrere questa via: la pazienza. E’
normale entrare in questa situazione e fisiologico a un certo stadio della vita
spirituale. Non aver fretta di uscirne come se stessi vivendo qualcosa di
sbagliato. Come altre tappe, anche questa è una finestra aperta sul tuo mondo
interiore, in cui lottano forze contrapposte, le une che vogliono bloccarti
nella tua mediocrità, le altre che vogliono farti più grande di te stesso,
nello spirito di Chi ti ha voluto vivente per una vita degna di un uomo.
Michele Bortignon