4/16/2023

La religiosità primitiva in Sardegna

Questo viaggio in Sardegna che sto facendo si è rivelato un’inaspettata immersione nel mondo della preistoria. In nessun altro posto ho trovato una così completa serie di reperti sull’epoca in cui l’uomo ha cominciato a lasciare testimonianze del suo modo di essere e di pensare. Da quei tempi remoti, la domanda che turba il cuore dell’uomo è sempre la stessa: “E dopo?”. E sulla risposta che gli antichi sardi hanno dato si è concentrato il mio interesse e la mia curiosità. E’ questo, in fondo, l’inizio della religione: il cercare una risposta agli interrogativi che trascendono la capacità umana di dare una risposta.

La prima raffigurazione di questa religiosità, risalente a 4500 anni prima di Cristo, nell’epoca detta “Neolitico medio”, è la dea madre, colei che dà la vita: una donna prosperosa, fianchi larghi e seni abbondanti. Ma non è solo la donna a dare la vita: anche la terra, producendo il cibo di cui l’uomo si nutre, assume questa valenza. Ecco allora che, abbinando le due sorgenti della vita, la risposta all’angoscia della morte è fabbricare una “macchina per la risurrezione”: nel grembo della terra, sempre nella roccia viva, vengono scavate le “domus de janas”, tombe a forma di grembo materno. A imitazione di questo, da una piccolissima porticina di accesso si interna un breve cunicolo che sfocia nella cella dove il cadavere viene inserito in posizione fetale, pronto per essere partorito a una nuova vita.

All’epoca matriarcale del neolitico medio segue, mille anni più tardi, nel neolitico recente, un’epoca patriarcale: la morte è vinta nel ricordo di chi non c’è più. E’ l’epoca delle “perdas fittas”, più comunemente note come “menhir”: il defunto viene ricordato da una stele che lo rappresenta. In alcuni casi (come, ad esempio, a Pranu Mutteddu) si nota una transizione: dietro al menhir c’è la domus de janas.

Più tardi, nell’età del rame (siamo nel 3000 a.c.), i menhir cominciano a essere scolpiti con sembianze umane stilizzate (cfr. museo di Làconi): due grandi sopracciglia e il cuneo del naso ne rappresentano il volto, mentre, dal luogo in cui si immagina la bocca, scende “il rovesciato”: il busto di un uomo con la testa verso il basso e due lunghe braccia ricurve all’indietro a formare un cerchio perfetto, quasi un gabbiano in picchiata; raffigurazione dell’anima che esce dal corpo al momento della morte, duplice presenza di questa persona nella vita presente e nella futura.

Anche Dio in quest’epoca cambia volto: il dio della vita diventa il dio trascendente che abita nei cieli, verso il quale ci si innalza salendo la scalinata della ziqqurrat di monte d’Accoddi e verso il quale si leva il fumo dei sacrifici degli animali immolati sulla grande pietra d’altare posta a lato del tempio.

Passano altri secoli ed eccoci all’età del bronzo medio, 1700 anni prima di Cristo. Inizia a svilupparsi la civiltà nuragica, caratterizzata da una marcata socialità: sorgono villaggi attorno al nuraghe, il castello che li difende. Il santuario assume le forme di un edificio o di un pozzo sacro, dove ogni offerente depone un bronzetto che lo rappresenta, raccomandandosi alla protezione del dio. Anche le sepolture cambiano: anch’esse sono ora collettive. Dietro al grande portale delle “tombe dei giganti”, la camera sepolcrale ospita decine di individui, mentre sul davanti l’esedra si sviluppa in due bracci, raffigurando le corna di un toro, simbolo di forza, di potenza invincibile, al cui interno si compiono i riti funebri. Quasi a dire: come singoli individui moriremo anche, ma come popolo nulla può vincerci. Lo dice anche la statuetta del nuraghe collocata al centro della capanna delle assemblee come simbolo identitario.

Ma nell’800 a.c. anche questa civiltà scompare, vinta o assimilata (non si sa) da quella dei Fenici, quindi dai Punici e infine dai Romani. Ma anche questi passano, travolti dai Saraceni e poi dagli Spagnoli, infine dai Savoia, che lasciano il loro segno distruggendo i boschi dell’isola per costruire le traversine delle ferrovie del regno.

Intanto come trova ancora espressione la religiosità popolare? Ne troviamo una traccia nelle tradizioni apotropaiche che segnano la fine del vecchio anno e la rinascita primaverile. A Mamoiada (ma in modi e con figure analoghe in altri paesi) i Mamuthones, brutti e neri, e che si rendono ancor più spaventosi con il clangore dei campanacci legati attorno al corpo, muovono la loro danza al ritmo e coi passi che vengono loro imposti dagli Issohadores, belli e dai vestiti colorati: è il bene che comunque vince il male, il nuovo che rimpiazza il vecchio, il ciclo delle stagioni che va avanti nonostante tutto.


4/01/2023

Perché certi… no?

 

Per te, che hai trovato la salvezza nella relazione con Dio, ossia una vita vissuta esternamente in modo pienamente umano e interiormente nella serenità e nella libertà interiore, è doloroso accettare che proprio chi ne avrebbe più bisogno rifiuti l’annuncio che salva.

Che cosa chiude il cuore di queste persone all'ascolto?

Certamente una grossa influenza ce l’ha una serie di situazioni ed esperienze che rende loro difficile sperare, credere, amare:

Non hanno speranza in una prospettiva diversa: la persona o i valori in cui avevano creduto le hanno deluse e ora vivono nella rassegnazione, nell'accontentarsi di ciò che ritengono immutabile.

Non hanno fiducia: non sono aperte al confronto, le loro idee sono assolute e irremovibili; manca loro la consapevolezza che ciascuno è segnato dalla propria storia e quindi condizionato, nella percezione della realtà e nelle scelte, da paure e da bisogni che gli sono propri, per cui non può possedere la Verità, ma soltanto, assieme ad altri, farsene umile cercatore.

Non hanno amore, chiuse nella difesa dei loro beni, mezzi di scambio per comperare quell'affetto, quella stima, quella sicurezza che non riescono a ottenere in altro modo; inoltre sono chiuse nella difesa del loro piacere, che spesso è fuga da una realtà in cui non sanno trovare nulla di positivo.

In loro stenta, e spesso non riesce, a farsi strada

  • la speranza, che li aiuterebbe ad attraversare la sofferenza;

  • la fiducia, che crea relazioni per affrontare le difficoltà;

  • l’amore, nella bellezza di amare e di essere amati.

La storia finora ha fatto loro trovare risposte più accessibili, di cui ancora non hanno sperimentato il basso profilo o l’illusorietà.

Ma potrebbe anche essere, molto più semplicemente, che l’annuncio non è accolto perché non parla il loro linguaggio, non è risposta alla domanda fondamentale che, comunque, ognuno di noi porta nel cuore: come posso essere sereno e interiormente libero? Ma, soprattutto, perché non sa porgere questa risposta senza servirsi di parole: direttamente attraverso una vita che parla al posto nostro. Solo su questa base l’annuncio diventa comprensibile e, anzi, cercato.

Non possiamo però affermare che da parte di nessuno ci sia un’accoglienza o un rifiuto completi di questa prospettiva. In ognuno di noi si agitano desideri e resistenze che portano a un’adesione più o meno completa e che comunque varia nel tempo. Non si può allora giudicare la situazione di una persona confrontandola con uno standard di santità che tutti dovrebbero raggiungere, ma dall’incremento di umanità che il suo cammino produce in lei.

Ciascuno infatti ha il suo gioco, e per vincerlo non è tanto importante il punto d’arrivo, quanto il giocarlo con quella fede nella vita (se non in Dio!), con quella speranza, con quell’amore che gli sono concretamente possibili nel momento e nella situazione che sta vivendo.

Se sapessimo guardare senza aspettative e pregiudizi, talora forse potremmo vedere che proprio chi nega Dio, con il suo essere e agire è talmente UOMO da rassomigliare a Cristo e inconsapevolmente viverlo.

                                                             Michele Bortignon

Ascolta il testo