Le forti reazioni che si scatenano in te in certe situazioni rivelano
la tua angoscia di perdere o di non riuscire ad ottenere qualcosa che
soddisfa un bisogno fondamentale di cui nel passato hai subito
dolorosamente la deprivazione.
Possiamo pensare, come esempio, a un conflitto personale sul modo di
gestire una certa attività, nello svolgimento della quale sei è
particolarmente stimato, proprio tu che un tempo ti sentivi
considerato una frana; oppure al distacco imposto dalle tappe della
crescita dei figli, dal cui affetto ti eri sentito colmato, proprio
tu che non ti eri mai sentito amato fino in fondo.
Questi
bisogni negati, che costituiscono il nucleo della tua fragilità, la
ferita non ancora rimarginata che sanguina quando toccata, sono
essenzialmente tre:
-
la stima: il bisogno di validità personale
-
l’affetto: il bisogno di essere amato e di amare
-
la sicurezza: il bisogno di integrità del tuo essere
La sofferenza che provi in queste situazioni la scarichi poi su te
stesso attraverso le somatizzazioni oppure sugli altri mediante
un’aggressività che, più o meno controllata, ma comunque evidente
dal disagio reciproco, rivendica i tuoi diritti, ritenuti
ingiustamente calpestati, e si esprime in quelli che sono stati
definiti “peccati capitali”, tipici atteggiamenti di autodifesa
(ira, disordini alimentari, disfattismo, invidia, lussuria, avarizia,
superbia).
Un’alternativa all’aggressività, a torto ritenuta soluzione
cristiana, è l’abnegazione ascetica, quando decidi di accettare,
senza reagire, la situazione che ti fa soffrire, ritenendola
espressione di un disegno divino.
In fondo l’abnegazione ascetica è un rinunciare a qualcosa per
ottenere qualcos’altro: il “paradiso”, dei meriti con Dio, una
certa sensazione di santità, la realizzazione del proprio essere
cristiani. C’è molta ricerca di te stesso in questa rinuncia a te
stesso: sei tu che rinunci, perché sei capace di rinunciare. E’ un
atto di eroismo. Questa ardua sublimazione rischia però più tardi
di far scoppiare con violenza il tuo bisogno represso, e con esso
un’acrimoniosa delusione nei confronti di Dio, che accusi di non
ripagare il sacrificio che gli hai offerto.
Sia nella ribellione rivendicativa che nell’abnegazione ascetica il
protagonista sei pur sempre tu, che ti muovi con una logica puramente
umana. E questo finché, bene o male, riesci ancora ad avere un
qualche controllo della situazione, finché riesci a mantenere un
equilibrio che, seppure fragile e malato, regge. E’ forse un bene,
a questo punto, se, un litigio più forte degli altri o un crollo
psico-fisico fanno collassare questa tua struttura difensiva: se può
essere il momento in cui finalmente trovi il coraggio di guardarti in
verità e ammettere di aver costruito un sistema di relazioni in cui
tanti secondi fini, tesi per l’appunto a soddisfare i tuoi bisogni,
sono causa di sofferenza a te stesso e agli altri. Ti vedrai schiavo
dei tuoi bisogni, condizionato a comportamenti ripetitivi da cui non
riesci a uscire, preda di timori che non hanno riscontro nella realtà
ma che pure ti angosciano; se sei impegnato nel bene, scoprirai in
esso venature di egoismo, di manipolazione degli altri ai tuoi fini.
Ma è proprio al fondo di questa verità, in cui provi orrore di te
stesso, che Dio ti aspetta per rinnovarti la sua fiducia. E’ questo
il momento decisivo, in cui puoi porre l’atto che può risollevarti
dalla dannazione dello scoraggiamento e portarti alla salvezza della
risurrezione: l’alzare lo sguardo per lasciarti accogliere,
accarezzare, sollevare dallo sguardo di Dio.
E’ uno spostare il tuo punto d’equilibrio da te stesso a Lui,
accettare di passare dalla sicurezza dell’autogestione
all’incertezza della fiducia, forte soltanto dell’intuizione di
un amore colmo di promesse, di una speranza che si fonda sulla
riscoperta di un passato segnato da una vicinanza discreta ma
efficace.
E’ l’esperienza di una presenza che colma ogni bisogno, per cui
cessa ogni ricerca, ogni affanno, ogni reazione di difesa.
Davanti a Dio ti presenti ora così come sei: la maschera che
indossavi si è frantumata in mille pezzi. Provi la strana e
inebriante sensazione di essere nudo, ma non te ne vergogni; ti senti
libero, leggero, …felice!
Riguardo alla situazione a cui sei attaccato puoi dire di star
passando dal “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!” al “Tu,
Signore, me l’hai data e io a te la ridono: aiutami a viverla come
a te piace”.
Scoprirai allora di esserti reso vittima del meccanismo della
proiezione, interpretando come mancanza di stima o di affetto nei
tuoi confronti quel che probabilmente è soltanto una pigrizia, un
egoismo, una disattenzione dell’altro: l’altro non ti fa male
apposta, ma il suo comportamento egocentrato o superficiale scarica
sulla vostra relazione effetti negativi, che tu risenti con
particolare sofferenza.
Non c’è dunque un problema nella vostra relazione, ma c’è un
problema tuo e c’è un problema suo. Ciascuno però può agire solo
sul proprio problema. Innanzitutto identificandolo come tale, per poi
evitare di scansarlo chiedendo solo all’altro di cambiare.
Vivere questa situazione nello Spirito del Cristo significa dunque
guardare in faccia il male che senti e dirgli «Tu sei figlio del mio
demonio e vuoi spacciarti per figlio del demonio altrui per fare due
morti al prezzo di uno. Ti ucciderò in me. Non per mia capacità, ma
per grazia: mi metterò in relazione con Dio così che il suo amore e
la sua stima per me si espandano nel mio cuore fino a farti
sloggiare».
Porta la lotta dentro te stesso, tra il tuo Dio e il tuo demonio. Non
lasciare che trabocchi all’esterno, nella relazione con l’altro,
in brontolamenti, pretese, arrabbiature, oppure scoppi in
comportamenti compulsivi che fanno male ad entrambi. Continuando ad
amare. Continuando a sperare. Continuando ad aver fiducia in Dio. E,
in questo clima pacificato, potrai, più tardi, richiamare anche
l’altro ad affrontare il proprio problema.
Michele Bortignon
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