
Perché
a me? Perché Dio sta permettendo questo? Sono due interrogativi che
in modo personale o in termini generali pongono una questione di
fede: se non capisco il perché del mio dolore e in generale la
sofferenza dell’uomo come posso credere in Dio? Se non capisco Dio,
il suo volere, il suo agire, come posso fidarmi e credere in Lui? La
risposta a questi interrogativi svela la natura che si attribuisce
alla relazione con Dio. Mi viene in mente il primo comandamento “Io
sono il Signore Dio tuo, non avrai altro dio fuori di me”. Così
come viene presentato Dio fin dai primi anni di catechismo, la natura
della relazione ha un carattere formale: si dà grande importanza al
rispetto delle regole (dei comandamenti), alle pratiche (preghiere e
riti), ai formalismi (è lecito/non è lecito), al senso del dovere
(mi devo sforzare a…) con l’idea che, nella relazione, la parte
più difficile spetta a noi che dobbiamo camminare in salita e
migliorarci, rialzarci dalle cadute, magari camminare più svelti per
stare al passo con gli altri. Il metro di giudizio di questo modo di
credere è lo sforzo che si compie (ho rinunciato a, ho dedicato la
vita per, mi sono sacrificato in nome di) e il premio che ci si
attende, consegnato direttamente dalle mani del Padreterno, è la
salvezza. C’è poco o nulla da capire: si tratta di imparare a
memoria e praticare; e alla domanda «Perché credi?», la risposta
potrebbe essere perché sono mi hanno battezzato, perché mi è stato
insegnato, perché potrei finire all’inferno… Poi però ci sono i
fallimenti, le perdite, il dolore, le malattie e i problemi della
vita ordinaria, quella vera di tutti i giorni, e un altro
interrogativo si fa strada: a cosa serve credere in Dio se poi siamo
soli ad affrontare la vita? Il bisogno di avere delle risposte
valide, il desiderio di cambiare e l’apertura a nuove soluzioni
squarciano la corazza delle certezze.
Incontrare
qualcuno a cui brillano gli occhi quando parla di Dio, nonostante
nella sua vita stia lottando contro un male incurabile, sentirsi
riconosciuti dagli altri nonostante noi ci vediamo falliti, ricevere
l’amore di un amico o del coniuge anche quando abbiamo sbagliato
fanno cambiare tutto. Questi eventi “casuali” diventano delle
micce accese che possono innescare il cambiamento. Lo Spirito di Dio,
da sempre presente nell’esistenza umana, si fa strada nell’anima
e piano piano comincia ad abitarla. Quel Dio lontano e
irraggiungibile lo si scopre al proprio fianco sul fondo dell’abisso,
tanto che il proprio dolore è inciso sulla sua carne. Egli mi è
così vicino da essere nella parte più profonda della mia umanità e
non sta a guardare, ma soffre e palpita con me. Questo cambio di
prospettiva trasforma la relazione in personale e intima; e, come per
i discepoli di Emmaus, ciò che conoscevo inizio a sperimentarlo e
ciò che prima era solo regola, comandamento,
ora acquista un sapore che da corpo al sapere. Dio si fa prossimo,
amico, marito, figlio, presente nell’amore umano e i gesti concreti
si trasfigurano diventando manifestazione della presenza divina.
La
fede allora diventa una questione di esperienza e gli schemi
preconfezionati non bastano più. Si può capire l’amore solo
vivendolo all’interno di una relazione che lo definisce e gli da
sostanza; si può capire Dio solamente facendone esperienza,
attraverso la nostra umanità e all’interno della nostra vita; e
alla domanda «Perché credi?», la risposta diventa «Non potrei
farne a meno, Lui ha creduto in me per primo».
Michele
Bortignon
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