4/25/2025

Il “mio” papa Francesco

Quante volte mi sono trovato a pensare “Se fosse arrivato prima…!”. Ma forse è stato bene così: avrei risparmiato tanta sofferenza, ma non avrei fatto l’esperienza della misericordia nel camminare con questa Chiesa così com’è e del soffio dello Spirito che ti sostiene quando gli altri ti tirano giù.

Una chiesa in uscita: questo era il sogno evangelizzatore di Francesco: “Andate, tutti, senza paura di sbagliare”. Mi ricorda le parole di Gesù: “Non preoccupatevi di ciò che dovrete dire, ma dite ciò che in quell'ora vi sarà dato: poiché non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo” (Mc 13,11). E, dall’altra parte, mi sento ancora addosso lo sguardo di sospetto di qualche parroco quando gli presentavo il percorso del Kaire: “Chi sei? Da chi sei autorizzato?”; per non parlare di quel “Sei fuori dalla Chiesa” di chi non si capacitava che potessi avere un’idea di evangelizzazione diversa da coloro con cui avevo fino ad allora collaborato.

Se non sei nella struttura, non puoi agire: è il clericalismo, contro il cui trasbordare tra i laici Francesco ha spesso messo in guardia. Volendo che ogni iniziativa venga istituzionalizzata, gestita dalla gerarchia incanalandola in un ministero, togliamo il diritto allo Spirito di esprimersi liberamente in chi vuole muovere verso una novità, rinunciamo alla bellezza dei carismi: fuggevoli ma intensi, si posano or qui or lì come un abbraccio che riscalda o uno sprazzo di luce che indica una direzione.

Ancora, ricordo l’attenzione di Francesco alle situazioni “scomode” per la Chiesa, quella delle donne in particolare. Bloccato dalle resistenze dell’istituzione, ha agito con gesti “profetici”, inserendo diverse donne al suo interno. L’azione passa al pensiero: avendo l’opportunità di essere apprezzate, poco alla volta cadranno i pregiudizi maschilisti e diventerà normale quel che ora è guardato con perplessità.

Ma bisogna cominciare. Prendendo posizione.

Anni fa Benedetto XVI° indisse un sinodo per affrontare alcune questioni. Fra queste, i vescovi inserirono l’apertura al diaconato femminile, ma l’indicazione venne stralciata dal papa. A quel tempo avevo iniziato il percorso per diventare diacono. “Se una donna non può essere diacono, non lo sarò neppure io”, decisi. Per il principio di incarnazione, voglio essere con Cristo da laico in mezzo ai laici, senza nessuna distinzione. E’ l’esperienza di vita, non il ministero a dare credibilità.

Tutto questo con Francesco è diventato prima auspicio, poi normalità e speriamo presto ovvietà, spostando il baricentro della Chiesa dal clero al popolo di Dio uno, articolato e protagonista.

Francesco ha spinto in questa direzione, dandoci fiducia. Vogliamo deporre timidezze e sensi di inadeguatezza, credendo che a evangelizzare è la nostra vita vissuta nella bellezza di essere con Cristo?


Michele Bortignon

4/15/2025

L’orma del pellegrino: cap.7 - Desolazione e consolazione

«Ha capito don Manuel?» riprese padre Guillermo al termine del suo racconto, «Iñigo aveva scoperto il requisito fondamentale di ogni cammino spirituale: il decidere di lasciar da parte i propri, pur buoni, progetti, bisogni, desideri, per mettersi in ascolto di Dio, di ciò che Lui ci chiede nella nostra situazione attraverso le esigenze che in essa si presentano.

Questo l’aveva capito. Ma, si sa: una cosa all’inizio la capisci con la testa; però, perché diventi tua, capace di cambiarti la vita, devi capirla anche col cuore. E il cuore impara solo dall’esperienza concreta: quando qualcosa ti mette in crisi, e tu reagisci come al solito, ma, a un certo punto, al colmo dell’amarezza, spunta il ricordo di quel che avevi capito e tu lo cogli come possibilità: chissà… magari…

La vita non aveva ancora messo alla prova quella nuova consapevolezza di Iñigo.

Fu appunto in mezzo alla tempesta di questa prova che lo conobbi “da dentro”. Mi aveva chiesto di confessarlo perché era assalito da tremendi sensi di colpa al pensiero di aver dimenticato di denunciare qualche suo peccato nella precedente confessione generale. Era tornato a confessarsi, e più volte, ma ogni volta l’ombra di qualche atteggiamento che non ammetteva in sé lo faceva sentire imperfetto, indegno dell’amicizia di Cristo, inadeguato a camminare con Lui.

Alla fine, per spezzare quell’ossessione gli ordinai di smetterla di rivangare il passato, a meno che non ne riemergesse chiaramente qualche grave colpa. Sbagliai, perché, come mi venne poi a riferire, tutto era chiaro e tutto era grave.

Non sapeva come porre termine a quella che lui stesso sentiva essere una tentazione, una pazzia, ma che nondimeno lo distruggeva presentandosi come una santa esigenza di purezza, di coerenza, di sensibilità spirituale. L’angoscia giunse a prospettargli l’agognata liberazione nel suicidio, che scartò solo perché sarebbe stato un ulteriore peccato. Le veglie, le preghiere, i digiuni, in cui implorava il soccorso di Dio, a nulla valevano.

Fu il prendere consapevolezza di un sentimento, e della scelta a cui questo lo spingeva, a destarlo dall’incubo: gli era sopravvenuto un gran disgusto della vita che stava conducendo e un insistente impulso ad abbandonarla…

«Ma se questa scelta di vita l’ho fatta in Dio - e di questo non posso dubitare perché ne vedo i frutti di crescita in me e nel bene che faccio agli altri, allora significa che non è Dio a provocare in me questo disgusto per farmene allontanare, ma qualcosa in me che teme questi cambiamenti, qualcosa che vuol mantenermi in un passato rassicurante, piacevole, gratificante, chiudendomi però in me stesso e rubandomi il bene maggiore che è trovare Vita nella relazione con gli altri, in cui Dio mi sta facendo crescere.

E se questa tendenza, questa pulsione, questo “spirito” mi vuol portare al mio male, riconosco che i mezzi che ha usato - gli scrupoli, l’angoscia, la disperazione, il perfezionismo ossessivo - sono suoi, non di Dio: sono segnali caratteristici della presenza del maligno, del suo agire in me».

Fu questa presa di coscienza a liberarlo.

A Montserrat Dio lo aveva chiamato a liberarsi dai suoi sogni di grandezza nella santità, per imparare a camminare con umiltà al suo fianco; qui a Manresa il demonio gli aveva fatto provare un assaggio dell’inferno in cui questi sogni sprofondano chi li segue.

Gli scrupoli non erano altro che l’incapacità di accettare la propria povertà e di rinunciare all’attaccamento al proprio progetto di santità. Se n’era liberato definitivamente quando aveva smascherato la tecnica del demonio: questi era entrato per la via di Dio, proponendogli un fine di bene, ma era uscito per se stesso, angosciandolo per fargli abbandonare la strada intrapresa. Reagire significava fidarsi e affidarsi a Dio, confidando nella sua misericordia per lui povero, limitato, inadeguato: «E’ Dio in me che vuole fare grandi cose, non io per Lui!».

Tornò da me qualche tempo dopo, per confidarmi una grande consolazione che Dio gli aveva donato, a conferma di quanto aveva capito nel discernimento.

Era successo nell’atrio dell’ospizio di Santa Lucia, dove si trovava per il suo servizio agli ammalati: in un rapimento estatico ebbe la visione dello sguardo di Cristo che lo abbracciava. Fu solo la sensazione di un attimo, ma, quando gli chiesi di spiegarmene il significato, me la tradusse con le parole che sentiva Cristo aveva voluto dirgli:

«Guardami negli occhi.

Da sempre io ti sto guardando.

Riposati nel mio sguardo.

Sentiti abbracciato, cullato dal mio sguardo.

Nel mio sguardo trovi

tutto ciò che continui a cercare invano, con ansia.

Nel mio sguardo ti senti restituito

ciò che avverti indebitamente tolto dagli altri.

Nel mio sguardo è custodito

ed è sempre a tua disposizione

ciò che temi gli altri non ti diano più

o non nella misura in cui tu lo vorresti.

Lascia emergere il tuo bisogno,

lascia emergere la tua paura e affidameli.

E nel mio sguardo senti

che il tuo bisogno e la tua paura

si sciolgono, si dissolvono.

Noi due siamo più importanti

dei bisogni e delle paure.

Amarci è tutto ciò che basta.

Un abbraccio è tutto ciò che serve».

Poteva percepire tangibilmente questo amore incondizionato di Cristo che nel suo sguardo gli scendeva in fondo al cuore, lo avvolgeva, lo sollevava e lo chiamava a sé.

E Iñigo aveva goduto di questo sguardo, di questo abbraccio, aveva accolto il suo perdono e in Lui aveva trovato la forza ed il coraggio di abbandonare alla sua misericordia il suo passato e il suo presente per iniziare da subito una nuova vita, che fosse una risposta d'amore all'amore che Cristo nutriva per lui.

Ora veramente quel che aveva intuito a Montserrat gli era sceso nel cuore e lì era diventato suo, capace di improntargli di sé la vita.

Don Manuel era rimasto silenzioso. La commozione con cui padre Guillermo aveva parlato dell’esperienza di Iñigo glielo faceva sentire partecipe della sua stessa sensibilità, quasi l’uno si fosse trasfuso nell’altro, quasi il padre avesse trovato nel figlio se stesso.

Lui, invece, gli scrupoli li aveva sempre sentiti qualcosa di positivo, una spinta al miglioramento, uno sguardo dall’alto che lo controllava per evitargli di prendere decisioni sbagliate… «Non è troppo facile nascondere quello che ci disturba sotto il velo della misericordia, così da poter continuare come prima?» pensò. «Se questa “manica larga” si afferma, c’è il rischio di lasciare il gregge della Chiesa senza punti di riferimento, in balìa alla propria istintualità e, così, esposto al rischio di perdersi!».

«Non mi sembra che lei abbia risposto alla mia domanda, padre Guillermo: come può una persona in preda a questi turbamenti, che non ha ancora risolto i propri problemi spirituali, essere d’aiuto ad altri? Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt'e due in un fosso?1».

«Cosa significa aiutare spiritualmente? Risolvere i problemi di una persona al posto suo? Prepararle nella propria esperienza una strada già tracciata che basta solo percorrere? No, non credo… Dio ha dato alle persone un’intelligenza e una coscienza per orientarsi nella vita: un’intelligenza a cui fornire informazioni con le nostre conoscenze e una coscienza a cui fornire ispirazioni con la nostra esperienza di una vita vissuta in Dio. Una ricerca si affianca a un’altra ricerca per fare un tratto di strada assieme, entrambe sottomesse a una Parola, entrambe tese all’incontro con il loro Signore.

Qual è stata per Iñigo, in questo tratto di vita, la sua esperienza di Dio?

Ha imparato che fondamento del proprio cammino spirituale è mettersi in ascolto di Dio.

Ha imparato che sostegno del proprio cammino spirituale è la misericordia di Dio.

Accogliere Dio e lasciarsi accogliere da Dio: non tutto, ma due buoni atteggiamenti per cominciare a costruire su solide basi.

E poi, aver cominciato a capire le tecniche usate dal demonio per sviarci dal nostro cammino… le sembra poco?

Quel che Iñigo ha capito è che, quando amiamo sinceramente il Signore, lo spirito del male non riesce più a farci cadere proponendoci qualcosa di cattivo. Si traveste allora da spirito buono e cerca di farci abbandonare il cammino intrapreso facendoci sentire indegni di continuarlo: ci accusa di incoerenza, di fiacchezza nell’assolvere gli impegni che ci siamo presi, di debolezza nel resistere alle tentazioni. O, all’opposto, ci spinge a imprese al di sopra delle nostre forze per farci schiattare.

Se fosse Dio a volerci far recedere da una strada sbagliata, non lo farebbe con lo strepito dell’angoscia che ci precipita nelle tenebre, ma con la dolcezza di una nostalgia sottile che ci richiama a Lui e ci suggerisce la via d’uscita, ci mostra il sole oltre la nebbia».

Don Manuel era confuso, ma non convinto.

«Continuerò la mia ricerca» disse. «Una faccenda così delicata merita di non essere trattata con leggerezza!».

«Cerchi i frutti nelle persone, don Manuel: “Dai loro frutti li riconoscerete!”2. Questo è l’unico criterio per distinguere ciò che viene da Dio».

Si abbracciarono. L’uno con trasporto, l’altro con deferenza. Ma in entrambi c’era lo stesso desiderio di arrivare a vedere con chiarezza il volto di Dio.

«E, ricordi…» gridò fra’ Guillermo, in un’ultima battuta, a don Manuel che già si stava allontanando: «Dio è misericordia!».

1 Lc 6, 39

2 Mt 7, 16

4/01/2025

Ma cosa significa che Cristo è morto per noi peccatori?

Pasqua: il Signore muore per me, per tutti noi peccatori -dice Paolo (2 Cor 5, 14).

Ma cosa significa che muore per me? Sì, mi piace pensare che qualcuno mi ami a tal punto, ma subito dopo mi prende un senso di colpa: perché qualcuno dovrebbe morire a causa mia? Guardo alle stupidate che ho fatto nella mia vita, ma, anche mettendole tutte assieme, non mi sembrano poi tanto gravi da causare la morte (sia pure metaforica) di qualcuno, tanto meno di Lui! E poi la cosa mi puzza da ricatto affettivo, quasi mi dicesse: «Con tutto quello che ho fatto per te, come potresti essere meno che buonissimo?». No, non è da Gesù.

Nemmeno mi convince la spiegazione dell’espiazione vicaria: afferma che Gesù avrebbe espiato al posto nostro i nostri peccati, lasciando che la giusta ira di Dio si riversasse su di lui anziché su di noi. Così però il Dio di misericordia annunciato da Gesù si trasformerebbe in un freddo ripianatore di conti!

Mi è presa allora la curiosità di chiarire quel che dice Paolo in quel passo della lettera ai Corinti (ma così anche in tante altre parti) e mi sono ritirato fuori il caro vecchio Rocci, il mio vocabolario di greco del liceo. Nel greco antico, si sa, ogni parola assume sfumature diverse a seconda del contesto, per cui in italiano può essere resa con parole diverse. E allora, spulciando tra i vari significati, trovo che quell’ “ὑπὲρ” può essere tradotto anche con “a favore, a difesa, in sostituzione, al posto di noi peccatori”. Sì, già questo mi convince di più, perché mi apre una prospettiva di significato. Traducendo meglio il versetto, “...l'amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto al posto di tutti e lo ha fatto perché tutti eravamo morti”: nelle situazioni difficili, che esigono una scelta per il bene che però ci mette in contrasto con la mentalità del mondo e, conseguentemente, mette in crisi i nostri bisogni di sicurezza, di stima, di affetto, noi ci nascondiamo o voltiamo bandiera, abbandonando l’amore. Rinunciare alla soddisfazione dei nostri bisogni, seppure in vista di un bene più grande, lo sentiamo una morte. La morte ci spaventa e scappiamo. E così viviamo una vita da morti viventi. Ma in Gesù l’Amore rimane fedele alle sue scelte, affrontandone le conseguenze. Lui ce l’ha fatta, Lui è andato fino in fondo, senza paura, Lui la morte l’ha affrontata. Lui sempre va avanti e ci mostra come si fa. Intanto lo fa Lui al posto nostro, perché possiamo poi farlo anche noi.

E l’esito di questa scelta -la risurrezione- mi mostra che è la scelta giusta. Una risurrezione che è un modo di vivere assolutamente diverso da quello di prima, dominato dalla paura e da voglie senza senso che mi vedono al centro del mondo. Paolo parla così di questo nuovo modo di vivere, impregnato della presenza di Gesù: “Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5, 15. 17). Nelle angosce che mi fanno agire in maniera disperata, se credo al mio desiderio che Dio mi stia vicino per aiutarmi a superare la paura, Cristo si fa accanto con la sua alla mia croce. E così la mia croce si riempie del ricordo della sua grazia che mi sostiene, cosicché la dolcezza di questa esperienza vince l’amarezza della sofferenza. E tutto è diverso, tutto è nuovo. Posso rimanere nella mia croce perché lì ho incontrato Lui e con Lui posso cercare il modo di renderla esperienza di vita nuova. E anche posso affiancarmi alle croci degli altri perché so che vi incontrerò Lui e lì saremo assieme. Posso decidere di seguirlo in quella che -ora l’abbiamo capito- potremmo chiamare la sua morte vicaria, entrando nelle situazioni dove gli altri non hanno il coraggio di entrare, rimanendo dove gli altri fuggono, in una parola, rinunciando al peccato, che è fuga dalla fatica di rimanere a vivere quel che è giusto vivere e come è giusto viverlo. Nella lettera ai Romani, Paolo lo dice così: “Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rm 6, 3-6. 8. 11). Il nostro uomo vecchio, che vuol fuggire dal sacrificio di sé, lo anneghiamo nel battesimo, lo crocifiggiamo con Cristo, ossia lo forziamo in una situazione in cui non vuole entrare, credendo (ed è questa la fede!) che dove pensa di morire troverà invece, come l’ha trovata Cristo, una via per la Vita.

                                                                                              Michele Bortignon