1 maggio 2023

Situazioni difficili da giudicare….

 

«Solo chi lava i piatti rischia di romperli» diceva mio padre.

Assieme alla libertà, Dio ci ha dato la curiosità di provare alternative al “così fan tutti” per creare la nostra strada personale. E così alle volte ci capita di imboccare vie che ci risulta difficile classificare: giuste o sbagliate? Per alcuni aspetti giuste, per altri sbagliate…

Un approccio non spirituale ci porta a buttarci completamente dall’una o dall’atra parte:

  • spinto dalla vergogna e dai sensi di colpa dico che è tutto sbagliato. Con un pentimento frettoloso ne esco al più presto e non ci penso più;

  • spinto dall’istintualità dico che va bene tutto e trovo le mie giustificazioni per poter continuare come prima.

Perché dico che non è un approccio spirituale? Perché in entrambi i casi non c’è un colloquio con Dio, ma solo con me stesso, nel tentativo di sentirmi a posto.

Sempre questo bisogno ossessivo di sentirsi a posto… Come, quando se ne esce?

Quando, nel peccato, ci confrontiamo con la nostra umanità piena di fragilità senza scandalizzarcene perché la guardiamo con Lui, con un dispiacere colmo di riconoscente affetto per Lui che ci cammina a fianco, aiutandoci a trasformare il nostro peccato in una lezione di vita.

Da parte nostra, consentire alla misericordia di Dio di manifestarsi significa entrare in colloquio con Lui riguardo al nostro peccato. Senza fretta, senza cercare vie d’uscita, senza cercare giustificazioni.

Nella vita spirituale, il peccato non è un problema da risolvere, ma un luogo in cui capire cos’è la vita per imparare a viverla con Cristo, con lo stesso atteggiamento che, nella nostra fragilità, Egli ha avuto con noi.

E poi… chi mi dice che proprio ciò che imparo dai miei sbagli non sia il luogo in cui Dio vuole rivelarsi attraverso di me, fare del bene agli altri attraverso ciò che ho ricavato dalla mia sofferta esperienza? Questa diventa allora proprio il luogo da cui posso trarre quel particolarissimo bene da fare agli altri che è solo mio, che solo io posso fare. Un bene che, allora, è Dio con la vita a farlo attraverso di me e non sono io a deciderlo. Sono così passato dal fare io al permettere che Dio faccia in me e attraverso di me. Così si esce dal moralismo e si entra nella spiritualità.

Sono considerazioni, queste, che vanno bene quando la frittata è già stata fatta. Ora, se il rapporto con Dio è vero e profondo, non possiamo accettare che la sua misericordia diventi una protesi fissa per andare avanti a camminare. E’ bello che Dio ci aiuti a rialzarci, ma non che si sostituisca al nostro impegno personale. Un impegno, però, che, per non diventare doverismo, deve fondarsi su una motivazione che sentiamo dà senso alla nostra vita; una motivazione che, se viene a cadere, cadiamo anche noi come persone.

Questa motivazione la trovo quando ho capito che cosa la vita mi chiama ad essere, che cosa il mio esserci porta alla vita, con che cosa nutro gli altri, su che cosa poggia l’investimento di fiducia con cui gli altri si rivolgono a me. E’, questa, la mia vocazione, il mio ruolo nel qui e ora del mondo. Se i mie comportamenti lo distruggono, mi distruggo. E la gravità dei miei errori dipende da quanto questi incidono su questo mio personalissimo modo di dare il mio contributo alla vita.

Tutto risolto allora? Sappiamo come fare, perché farlo e lo facciamo? Eh… magari! La nostra vita è una continua lotta tra il bene e il male combattuta nella nebbia. Alla lunga, quale dei due prevarrà? Quello a cui avremo dato più da mangiare. Per questo non è tanto nell’imperversare della battaglia, quando siamo travolti da forze più grandi di noi, che possiamo fare qualcosa, ma nel tempo tranquillo, nutrendo il nostro pensiero del Bene che amiamo.

                                                                                       Michele Bortignon

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