Il Concilio Vaticano II° si è dato una parola d’ordine:
aggiornamento. Come aiutare l’incarnarsi del Vangelo nella società
contemporanea? Il pericolo è che il messaggio che dà salvezza, l’Evangelo,
diventi sempre più incomprensibile, e quindi inefficace, perché le strutture
che lo veicolano sono troppo distanti dal quotidiano vissuto della gente per
linguaggio, comprensione dei problemi, ecc.
Sarebbe dunque tradire lo spirito
stesso del Concilio considerarne concluso il compito con l’emanazione dei suoi
documenti. L’aggiornamenti ivi iniziato deve diventare lo stile con cui la
Chiesa si relaziona col mondo.
In quanto laici, persone dunque
pienamente inserite nel mondo, siamo noi a dover portare avanti questa istanza.
Nel farlo, ci troveremo a confrontarci con la gerarchia, il cui compito è
rendere questi aggiornamenti indicazioni di percorso valide per tutto il popolo
di Dio. E’ dunque comprensibile ed auspicabile una certa prudenza, come è
parimenti da superare la paura e la chiusura alla novità, in cui questa
prudenza può eccedere. In entrambi i casi per assicurare una sostanziale
fedeltà allo Spirito di Cristo, per far sì che quel che la Chiesa dice e fa sia
incarnazione nell’oggi delle parole e dei gesti di Cristo.
E’ assolutamente naturale, nonché
auspicabile per la duplice crescita in fedeltà all’uomo e a Dio, che si
verifichino dei contrasti interni alla Chiesa. Da superare tenendo conto che in
tutte le sue componenti opera lo stesso Spirito, che è dunque impensabile possa
contraddirsi. Esiste la mia verità, esiste la tua verità, esiste La Verità,
manifestatasi in Cristo (“Io sono la via, la verità e la vita” Gv 14,
6), in cui dobbiamo riuscire ad incontrarci.
Quel che dobbiamo assolutamente
vincere è la resistenza ad entrare in questo conflitto per un malinteso “amor
di pace” o per una timidezza che nasce dalla paura di non sapere e quindi di
sbagliare.
I conflitti interni alla Chiesa
primitiva mostrano come alla verità non si arrivi senza contrasti,
incomprensioni, errori, ma anche non senza quella tenacia che fa rimanere nel
conflitto finché non si pervenga ad una soluzione in cui tutti riconoscano
l’esprimersi dell’essenziale della loro fede, disponibili ad abbandonare
opinioni ed abitudini che ne costituiscono solo il rivestimento culturale. E’
di questa tenacia che parla Gesù nella parabola dell’amico importuno.
“Poi aggiunse: «Se uno di voi ha
un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è
giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se
quegli dall'interno gli risponde: Non m'importunare, la porta è già chiusa e i
miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che,
se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti
gliene occorrono almeno per la sua insistenza»” (Lc 11, 5-8).
E’ “per la mia anaideia” (“διὰ γε τὴν
ἀναίδειαν αὐτοῦ”) che l’amico
a letto mi darà ciò di cui ho bisogno per ospitare l’amico arrivato a casa mia
distrutto dal viaggio.
Il termine anaideia, comunemente tradotto con “insistenza”
o, meglio, “sfacciataggine”, letteralmente è a (alfa privativo) - eidos
(immagine), ossia qualcosa che mi priva dell’immagine che ho agli occhi altrui,
che mi fa fare una figuraccia; qualcosa, dunque che mi fa correre il rischio di
rovinare, di perdere l’amicizia con quella persona che sono andato ad importunare:
non m’interessa cosa può pensare di me che lo vado a importunare quest’amico
comodamente a letto fra i suoi cari, quindi soddisfatto in tutti i suoi
bisogni; in questo momento per me è più importante il bisogno dell’altro amico,
quello sfinito dal viaggio. Non solo, ma, per ospitarlo come sento ha bisogno,
sono uscito di notte, al freddo, in cerca di qualcosa con cui sfamarlo: non sto
semplicemente importunando l’altro, ma prima di tutto sono io che mi metto in
gioco.
Chi è questo amico comodamente installato nella sua comodità
e sordo al bisogno del povero, nonostante abbia i mezzi per poterlo aiutare?
Attualizzando, non possiamo non pensare a certa parte della Chiesa, impigrita e
timorosa di mettere in questione la propria tranquilla ma statica situazione.
Quali sono i tre pani che la Chiesa possiede e di cui ho
bisogno per poter aiutare il povero?
- la
comunione, l’unità in Cristo, il senso di una missione comune, che
portiamo avanti assieme, il non sentirsi da soli ad agire, ma nel
coinvolgimento di una comunità;
- il
riconoscimento del carisma a partire dai frutti;
- la
possibilità di portare la Parola che salva sentendosi alle spalle una
Chiesa credibile.
Comunione, carisma, parola. Ossia valorizzazione dell’unità,
dell’unicità, dell’annuncio.
Tre doni dello Spirito affidati alla Chiesa, non sua
proprietà: essa deve disporne per consolidarne la presenza riconoscendola dove
comincia ad abbozzarsi sotto il soffio dello Spirito, non agendo
arbitrariamente per salvaguardare la struttura: tradirebbe il suo mandato di
essere spazio di incarnazione di Cristo nell’oggi della storia.
Come, dunque, potrà la Chiesa dare ai suoi figli i tre pani
con cui sfamare il povero?
Riconoscendo la necessità di un’unità che tenga conto di
tutti: comunione, non sopraffazione, non omologazione al modi di essere di chi
ha la possibilità di imporsi. Un’unità che afferma la legittimità e la bellezza
della diversità.
Riconoscendo l’azione dello Spirito che suscita carismi per
aggiornare l’azione della Chiesa ai cambiamenti del mondo e dare così risposte
adeguate ai nuovi problemi che sorgono nella società.
Riconoscendo che ogni cristiano è Parola vivente nella sua
esperienza di vita nello Spirito del Cristo e che tale esperienza lo rende
evangelizzatore.
Tale riconoscimento conferisce ad ogni cristiano un triplice
diritto-dovere: di appartenenza, di azione, di parola; e ciascuno dei tre
assume la propria verità in tanto in quanto è vissuto non separatamente dagli
altri.
Insistere per ottenere questi tre pani significa confronto
continuo finché non si sia pervenuti ad un risultato soddisfacente per entrambe
le parti, in cui non ci sia un vincitore e un vinto, ma due vincitori.
Significa che, se la proposta che mi fai non mi convince del tutto, mi prendo
tempo per pensarci e poi ci ritroviamo a parlarne. Se mi accorgo di essere
stato manipolato (mi hai fatto proposte basate non su dati reali: ho verificato
che non è vero quel che dici), ritorno sulla decisione presa e torno a
parlarne. E avanti così, finché non siamo contenti entrambi. Lo esige la
comunione e la giustizia. Se non funzioniamo così, non siamo Chiesa, ma
un’istituzione religiosa, che va trasformata in Chiesa con pazienza,
misericordia e fermezza, nel confronto con il Vangelo e in ascolto dello
Spirito.
Ma dove trovare il punto di equilibrio tra le diverse
esigenze, cosicché la decisione presa non solo non penda da una parte o
dall’altra, ma nemmeno diventi un compromesso tra due posizioni egoistiche?
Ce lo mostra ancora una volta Gesù nell’episodio della
guarigione dell’uomo dalla mano inaridita.
“Entrò di nuovo nella sinagoga. C'era un uomo che aveva
una mano inaridita, e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di
sabato per poi accusarlo. Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita:
«Mettiti nel mezzo!». Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare il
bene o il male, salvare una vita o toglierla?». Ma essi tacevano. E guardandoli
tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse
a quell'uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata. E i
farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per
farlo morire” (Mc 3, 1-6).
Gesù mette l’uomo “nel mezzo”. E’ la persona il centro,
il suo bene è il riferimento per ogni decisione. Non la salvaguardia di una
struttura, non l’autorealizzazione di chi fa il bene, e nemmeno il rispetto di
una legge. E’ su ciò che realizza il bene delle persone che si trovano nel
bisogno che dobbiamo confrontarci per decidere cosa fare, perché è a loro che è
rivolto il Vangelo, è per dar loro la speranza e la via per risorgere dalle
loro morti che Gesù ha vissuto la sua Pasqua. Ed è dunque nel far risorgere il
Cristo presente nel bisognoso che dobbiamo incontrarci, disponibili a
rinunciare a tutto ciò che di inessenziale crea ostacolo a raggiungere questo
obiettivo.
Michele Bortignon