12/26/2012

Il simbolismo figurativo dell’accompagnatore spirituale in un’immagine del Buddha

Non voglio fare, in questa sede, un’analisi filologica, ma offrire qualche spunto di riflessione a partire da una statuetta in ceramica del Buddha, che da tanti anni appartiene alla mia famiglia, opera di un ceramista novese.
Ultimamente, ascoltando una descrizione degli attributi di Ganesha, il dio elefante degli induisti, mi sono reso conto che questa raffigurazione del Buddha ne mutua diversi elementi che lo presentano nella veste di accompagnatore spirituale. Come una caricatura rende riconoscibile una certa persona modificando le dimensioni di parti caratteristiche della sua immagine, così troviamo, in questa raffigurazione del Buddha, certi aspetti che ci sembrano esagerati, ma sono appunto tali in quanto caricati di simbolismo.


Il capo è grande rispetto al corpo, simbolo di saggezza, di intelligenza, di capacità di elaborazione del pensiero nella riflessione e nella preghiera; e calvo, ossia senza barriere nei confronti delle realtà spirituali oggetto della sua meditazione.

Gli orecchi sono molto grandi, a denotare capacità di ascolto, mentre la bocca è piccola, a sottolineare il silenzio pieno di rispetto che deve accompagnare il comunicarsi dell’altro: si deve ascoltare molto e parlare poco.

Il Buddha non era affatto grasso: si può facilmente immaginare come sia arduo accumulare anche un solo filo di grasso facendo soltanto un pasto frugale al giorno, come richiesto ancor oggi dalla regola dei monaci buddisti, dettata e osservata prima di tutti dal Buddha in persona. Durante la strenua lotta che ingaggiò per raggiungere il risveglio, durata sei anni, si sottopose a tremendi digiuni, con effetti devastanti sul proprio corpo, come testimoniato nel Canone, la più antica scrittura buddista.
Il ventre obeso rappresenta allora la capacità di digerire, cioè di assimilare con sereno distacco, senza scomporsi minimamente, qualsiasi esperienza venga comunicata.

Il piede che poggia a terra e quello sollevato indicano l'atteggiamento da assumere nell’accompagnamento: partecipare alla concretezza della vita e, allo stesso tempo,  alla realtà di Dio, che addita la prospettiva corretta per viverla nella verità, ovvero la capacità di vivere nel mondo senza essere del mondo.

La mano sinistra, corrispondente al piede sollevato, cioè alla realtà divina, è appoggiata al cuore, in cui abita il “Deus intimior intimi mei” (Sant’Agostino), luogo di inabitazione nell’uomo del Dio Amore, luogo di incontro tra l’uomo e Dio nella condivisione vitale e vitalizzante dell’amore come senso della vita: “Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4, 16).
La mano destra, atteggiata a pugno sopra la gamba col piede che poggia a terra, con questi sembra costituire una colonna ben piantata sulla realtà della vita: simboleggia la capacità di scegliere, di prendere delle decisioni dopo aver compreso con Dio qual è la via da seguire.

L’espressione del volto è sorridente. In oriente si racconta che quando il Buddha raggiunse l’Illuminazione scoppiò in una grande risata.
Un viandante, vedendo il Buddha che rideva, gli chiese: «Perché ridi?»
Il Buddha, a fatica, tra le risate, gli rispose: «Perché ho raggiunto l’Illuminazione»
A quel punto il viandante gli domandò: «E che cos’è l’Illuminazione?»
E il Buddha: «L’Illuminazione è aver capito che ciò di cui ho bisogno è già tutto dentro di me».
E’ un caso che la veste sia rosa, il colore che nella liturgia cattolica è utilizzato nelle domeniche “Gaudete” e “Laetare” ad indicare la gioia? E, sul rosa, dei ricami coloro oro, che nell’iconografia è il colore di Dio, riflesso della sua gloria. Quella del Buddha è dunque una gioia che viene da Dio, appunto attraverso l’illuminazione raggiunta.

La stessa obesità attribuita al Buddha è un simbolismo di origine cinese che rappresenta la pienezza della gioia derivante dal superamento della sofferenza grazie all’illuminazione.
Inoltre, la pancia era considerata la dimora dell'anima, per cui la sua dimensione rappresentava la grandezza della bontà di chi la portava.

Al di là della religione da cui l’immagine è veicolata, è dunque interessante notare come i simbolismi parlano a tutte le culture, in quanto le realtà raffigurate hanno una valenza di spessore umano.

                                                                                                     Michele Bortignon

11/29/2012

La preghiera di intercessione nell'accompagnamento spirituale

A volte, al termine di un colloquio in cui l’emotività della persona è stata dolorosamente sollecitata dall’emersione di sensi di colpa, di inadeguatezza, da sofferenze, tentazioni, paure, angosce, ecc. sento il bisogno di rendere in qualche modo presente quel Dio a cui la persona chiede aiuto, avvertendo essere desiderio stesso di Dio farle sentire la propria vicinanza in questo momento.

Certo, l’essenziale avviene attraverso una Parola che le tocca il cuore e un discernimento che le rischiara la mente, ma a rendere più “palpabile” questa presenza c’è talora bisogno di qualcosa di più.

Nella Bibbia, sono certe azioni simboliche a sottolineare la provenienza da un Oltre di una forza, di un aiuto, di una Presenza che viene affermata a parole. C’è sempre un qualcosa di fisico -un bacio, un abbraccio, un porre le mani sul capo, la consegna di un oggetto- accompagnato da una Parola che mette in relazione Dio e la persona, entrambi presenti nel cuore di chi la pronuncia.
Un gesto simbolico accompagnato da una benedizione è dunque, per i protagonisti delle Scritture, un modo concreto di favorire un’esperienza  di Dio.
Da qui nascono i sacramenti e i sacramentali, che santificano, mediante un rendere presente Dio in gesti e Parole, certe occasioni della vita umana.
Ma, come abbiamo detto, non ci sono solo queste occasioni speciali e richiedere una speciale presenza di Cristo, e Lui stesso, nelle sue ultime parole rivolte agli undici prima di ritornare al Padre (Mc 16, 17-18), ci indica quando e come vuole essere presente attraverso “quelli che credono”: facendosi tramite della sua azione (nel mio nome”), con dei gesti (“imporranno le mani”) diranno le parole necessarie per quella situazione (“parleranno lingue nuove”) senza lasciarsi travolgere dalla negatività presente in essa (“prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno”) e così libereranno le persone dalle paure (“scacceranno i demòni”) che rovinano loro la vita (“guariranno i malati”).
I gesti sono gesti che questi “credenti” hanno visto fare da Lui, le Parole sono quelle che hanno ascoltato dalla sua bocca. Ma, poiché in queste situazioni sono necessarie delle parole “efficaci”, dobbiamo riferirci a quelle a cui Gesù stesso ha attribuito un’efficacia particolare riunendole nella preghiera che il Padre non può non ascoltare rispondendo con il dono del suo Spirito (“il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” Lc 11, 13), che, accompagnando la persona a vivere nell’Amore, la “salva” nella situazione che sta attraversando.
L’invocazione dell’accompagnatore, in questi frangenti, dovrà perciò plasmarsi sulle richieste contenute nella preghiera che Gesù ci ha insegnato.

Le prime tre richieste, riguardanti Dio stesso (“sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”) esprimono l’obiettivo di quel che chiediamo per noi: Dio agirà per noi se lo lasciamo agire in noi e attraverso di noi; se l’amore, che è la sua Vita, diventa la nostra Vita.

Queste richieste vengono rivolte a un Dio rivelato da Gesù come “Padre”.
Chiamandolo “Padre” affermiamo che siamo suoi figli, per cui possiamo chiedere con fiducia, sicuri che Egli, al di là delle nostre richieste, discernerà il nostro bene e verso di esso orienterà il nostro cuore.
Chiamandolo “Padre” esprimiamo il nostro desiderio di essergli pienamente figli e quindi la nostra volontà di trovare in Cristo, suo Figlio, la via per esserlo.
Rivolgendomi, come accompagnatore, al “Padre Nostro” affermo che puoi  contare su Qualcuno che si interessa a te, che vuole il tuo bene e che, essendo anche Padre mio, attraverso di me ora vuol esserti vicino per dirti qual è il suo cuore e quale il suo sguardo su di te.

La parola che, accompagnata da un gesto, rivolgo alla persona è definita “preghiera di intercessione”. In essa chiedo al Padre di trasformare questa situazione dando alla persona lo Spirito di suo Figlio Gesù Cristo, il crocifisso-risorto. Guardando allora alla situazione con lo sguardo e il cuore di Dio, assieme possiamo vederla come punto di partenza verso un bene maggiore. Entrando nel suo amore e nel suo modo di amare, troviamo la chiave per trasformare questa morte in una risurrezione, questo disastro in un bene che non ci sarebbe mai stato se tutto fosse rimasto come prima, senza questa situazione. E’ questo che ci mette in sintonia con Cristo, che ci fa essere Lui: la capacità di trasformare un male in un bene più grande. Con le parole che dico aiuto la persona ad entrare nello Spirito del Cristo e a far proprio il modo in cui Gesù vuol vivere in lei questa situazione.

Come dire questa Parola? Ci sono due passi da fare:
  1. portare la situazione al Padre, come è vissuta dalla Persona;
  2. portare la situazione alla persona, come è vissuta dal Padre.

Quali sono le situazioni da affrontare?
Essenzialmente tre, identificabili nelle tre successive richieste al “Padre nostro”, ciascuna caratterizzata dalla paura o dall’esperienza del fallimento nell’ottenere il soddisfacimento di un bisogno avvertito dalla persona in maniera angosciosa:
 “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”: esprime la paura o l’esperienza del fallimento nel benessere. L’affidarsi all’Amore e diventare amore per gli altri ne è la cura.
 “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”: esprime la paura o l’esperienza del fallimento nelle relazioni. Il perdono ne è la cura.
 “Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male”: esprime la paura o l’esperienza del fallimento nel perseguire il proprio progetto di vita. Il rendersi interiormente liberi, attaccandosi a un bene più grande, ne è la cura.

Perché, come accompagnatore, posso rivolgere queste richieste al Padre?
Posso chiedere, per chi non ne è capace o non è in grado di farlo, quello che tutti assieme chiediamo al Padre per noi stessi. E, pregando alla sua presenza la sua situazione, gli insegno cosa chiedere e come chiederlo.

Le parole che dico nella preghiera di intercessione le accompagno con un gesto. Un gesto che deve essere un contatto fisico per rendere concreta, simbolicamente sperimentabile nella mediazione dell’accompagnatore, la prossimità che Dio le sta promettendo.
Prendere le sue mani tra le mie mani, posarle la mano sulla spalla o sul capo, un abbraccio sono gesti che, attraverso il corpo, parlano direttamente al cuore, provvedono la comprensione della mente, che sta ascoltando la Parola, di quell’emozione che la trascina con sé a posarsi sulle ferite del cuore, portando una promessa di guarigione e suscitando così la speranza che innesca la fede e l’amore.

                                                                                                Michele Bortignon


11/19/2012

Come affrontare il dialogo interno alla Chiesa

Il Concilio Vaticano II° si è dato una parola d’ordine: aggiornamento. Come aiutare l’incarnarsi del Vangelo nella società contemporanea? Il pericolo è che il messaggio che dà salvezza, l’Evangelo, diventi sempre più incomprensibile, e quindi inefficace, perché le strutture che lo veicolano sono troppo distanti dal quotidiano vissuto della gente per linguaggio, comprensione dei problemi, ecc.

Sarebbe dunque tradire lo spirito stesso del Concilio considerarne concluso il compito con l’emanazione dei suoi documenti. L’aggiornamenti ivi iniziato deve diventare lo stile con cui la Chiesa si relaziona col mondo.

In quanto laici, persone dunque pienamente inserite nel mondo, siamo noi a dover portare avanti questa istanza. Nel farlo, ci troveremo a confrontarci con la gerarchia, il cui compito è rendere questi aggiornamenti indicazioni di percorso valide per tutto il popolo di Dio. E’ dunque comprensibile ed auspicabile una certa prudenza, come è parimenti da superare la paura e la chiusura alla novità, in cui questa prudenza può eccedere. In entrambi i casi per assicurare una sostanziale fedeltà allo Spirito di Cristo, per far sì che quel che la Chiesa dice e fa sia incarnazione nell’oggi delle parole e dei gesti di Cristo.

E’ assolutamente naturale, nonché auspicabile per la duplice crescita in fedeltà all’uomo e a Dio, che si verifichino dei contrasti interni alla Chiesa. Da superare tenendo conto che in tutte le sue componenti opera lo stesso Spirito, che è dunque impensabile possa contraddirsi. Esiste la mia verità, esiste la tua verità, esiste La Verità, manifestatasi in Cristo (“Io sono la via, la verità e la vita” Gv 14, 6), in cui dobbiamo riuscire ad incontrarci.
Quel che dobbiamo assolutamente vincere è la resistenza ad entrare in questo conflitto per un malinteso “amor di pace” o per una timidezza che nasce dalla paura di non sapere e quindi di sbagliare.
I conflitti interni alla Chiesa primitiva mostrano come alla verità non si arrivi senza contrasti, incomprensioni, errori, ma anche non senza quella tenacia che fa rimanere nel conflitto finché non si pervenga ad una soluzione in cui tutti riconoscano l’esprimersi dell’essenziale della loro fede, disponibili ad abbandonare opinioni ed abitudini che ne costituiscono solo il rivestimento culturale. E’ di questa tenacia che parla Gesù nella parabola dell’amico importuno.

Poi aggiunse: «Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall'interno gli risponde: Non m'importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza»” (Lc 11, 5-8).

E’ “per la mia anaideia” (διὰ γε τὴν ἀναίδειαν αὐτοῦ) che l’amico a letto mi darà ciò di cui ho bisogno per ospitare l’amico arrivato a casa mia distrutto dal viaggio.
Il termine anaideia, comunemente tradotto con “insistenza” o, meglio, “sfacciataggine”, letteralmente è a (alfa privativo) - eidos (immagine), ossia qualcosa che mi priva dell’immagine che ho agli occhi altrui, che mi fa fare una figuraccia; qualcosa, dunque che mi fa correre il rischio di rovinare, di perdere l’amicizia con quella persona che sono andato ad importunare: non m’interessa cosa può pensare di me che lo vado a importunare quest’amico comodamente a letto fra i suoi cari, quindi soddisfatto in tutti i suoi bisogni; in questo momento per me è più importante il bisogno dell’altro amico, quello sfinito dal viaggio. Non solo, ma, per ospitarlo come sento ha bisogno, sono uscito di notte, al freddo, in cerca di qualcosa con cui sfamarlo: non sto semplicemente importunando l’altro, ma prima di tutto sono io che mi metto in gioco.
Chi è questo amico comodamente installato nella sua comodità e sordo al bisogno del povero, nonostante abbia i mezzi per poterlo aiutare? Attualizzando, non possiamo non pensare a certa parte della Chiesa, impigrita e timorosa di mettere in questione la propria tranquilla ma statica situazione.

Quali sono i tre pani che la Chiesa possiede e di cui ho bisogno per poter aiutare il povero?
  1. la comunione, l’unità in Cristo, il senso di una missione comune, che portiamo avanti assieme, il non sentirsi da soli ad agire, ma nel coinvolgimento di una comunità;
  2. il riconoscimento del carisma a partire dai frutti;
  3. la possibilità di portare la Parola che salva sentendosi alle spalle una Chiesa credibile.
Comunione, carisma, parola. Ossia valorizzazione dell’unità, dell’unicità, dell’annuncio.
Tre doni dello Spirito affidati alla Chiesa, non sua proprietà: essa deve disporne per consolidarne la presenza riconoscendola dove comincia ad abbozzarsi sotto il soffio dello Spirito, non agendo arbitrariamente per salvaguardare la struttura: tradirebbe il suo mandato di essere spazio di incarnazione di Cristo nell’oggi della storia.

Come, dunque, potrà la Chiesa dare ai suoi figli i tre pani con cui sfamare il povero?
Riconoscendo la necessità di un’unità che tenga conto di tutti: comunione, non sopraffazione, non omologazione al modi di essere di chi ha la possibilità di imporsi. Un’unità che afferma la legittimità e la bellezza della diversità.
Riconoscendo l’azione dello Spirito che suscita carismi per aggiornare l’azione della Chiesa ai cambiamenti del mondo e dare così risposte adeguate ai nuovi problemi che sorgono nella società.
Riconoscendo che ogni cristiano è Parola vivente nella sua esperienza di vita nello Spirito del Cristo e che tale esperienza lo rende evangelizzatore.
Tale riconoscimento conferisce ad ogni cristiano un triplice diritto-dovere: di appartenenza, di azione, di parola; e ciascuno dei tre assume la propria verità in tanto in quanto è vissuto non separatamente dagli altri.
Insistere per ottenere questi tre pani significa confronto continuo finché non si sia pervenuti ad un risultato soddisfacente per entrambe le parti, in cui non ci sia un vincitore e un vinto, ma due vincitori. Significa che, se la proposta che mi fai non mi convince del tutto, mi prendo tempo per pensarci e poi ci ritroviamo a parlarne. Se mi accorgo di essere stato manipolato (mi hai fatto proposte basate non su dati reali: ho verificato che non è vero quel che dici), ritorno sulla decisione presa e torno a parlarne. E avanti così, finché non siamo contenti entrambi. Lo esige la comunione e la giustizia. Se non funzioniamo così, non siamo Chiesa, ma un’istituzione religiosa, che va trasformata in Chiesa con pazienza, misericordia e fermezza, nel confronto con il Vangelo e in ascolto dello Spirito.


Ma dove trovare il punto di equilibrio tra le diverse esigenze, cosicché la decisione presa non solo non penda da una parte o dall’altra, ma nemmeno diventi un compromesso tra due posizioni egoistiche?
Ce lo mostra ancora una volta Gesù nell’episodio della guarigione dell’uomo dalla mano inaridita.

“Entrò di nuovo nella sinagoga. C'era un uomo che aveva una mano inaridita, e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita: «Mettiti nel mezzo!». Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?». Ma essi tacevano. E guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata. E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (Mc 3, 1-6).

Gesù mette l’uomo “nel mezzo”. E’ la persona il centro, il suo bene è il riferimento per ogni decisione. Non la salvaguardia di una struttura, non l’autorealizzazione di chi fa il bene, e nemmeno il rispetto di una legge. E’ su ciò che realizza il bene delle persone che si trovano nel bisogno che dobbiamo confrontarci per decidere cosa fare, perché è a loro che è rivolto il Vangelo, è per dar loro la speranza e la via per risorgere dalle loro morti che Gesù ha vissuto la sua Pasqua. Ed è dunque nel far risorgere il Cristo presente nel bisognoso che dobbiamo incontrarci, disponibili a rinunciare a tutto ciò che di inessenziale crea ostacolo a raggiungere questo obiettivo.

                                                                                                       Michele Bortignon