12/07/2013

2003-2013: dieci anni di "Kaire!"

Questo anniversario voglio sentirlo come l’occasione che il mio Signore mi regala per chiudere la bocca al quel demonietto che, nelle difficoltà, tenta di farmi abbandonare, scoraggiato, quel che Dio sta facendo con me, ripetendomi parole che 10 anni fa mi hanno ferito profondamente: «Sei presuntuoso perché vuoi fare diversamente dagli altri»; «Non sei umile perché non ti sottometti e non obbedisci»; «Quel che fai è sbagliato perché non è controllato da nessuno»; addirittura «Sei fuori dalla Chiesa».
Cosa fare? Ogni volta che me lo vedo davanti mi sconvolge, risento il male che ho sofferto allora. Chi mi ha aiutato ad uscirne, dieci anni fa, è stata Santa Teresa d’Avila, con la sua capacità di discernimento nella persecuzione. Ed ancora, l’altro giorno, in un film in cui chiedeva a San Giovanni della Croce se fosse pronto a soffrire per Cristo, mi ha aiutato a rileggere con uno sguardo diverso la mia situazione. Ho capito allora che il Signore mi ha regalato un’avventura da costruire e tre grandi doni con cui farlo:
  1. il suo guidarmi attraverso le mozioni dello Spirito, lette nel discernimento;
  2. la condivisione di un po’ della sua sofferenza, affrontata per cambiare le cose secondo quanto mi fa capire;
  3. il Kaire: il rallegrarmi come via per cambiare il mio stato d’animo nelle difficoltà.
Grazie, Teresa, per il tuo accompagnarmi a riconciliarmi con la mia storia: non un errore, non un’orgogliosa insubordinazione, ma sofferta fedeltà a una strada diversa che Dio vuol farmi percorrere.
E che questa diversità del Kaire non sia un errore, ma un dono di Dio lo confermano la sua durata nel tempo (dieci anni non sono pochi!) e i frutti buoni che ne sono nati: decine di persone che nella loro vita quotidiana hanno cominciato a vivere con il Signore.
In questi giorni anche il Papa ha sottolineato che pensare giusto non è pensare tutti uguale: «Nella Chiesa non siamo tutti uguali e non dobbiamo essere tutti uguali: siamo diversi e ognuno porta il suo, quello che Dio gli ha dato» (Udienza del 9.10.2013).

In che punto si pone il bivio che ha portato il Kaire a differenziarsi rispetto alla precedente esperienza degli EVO? Nel momento in cui il dare Esercizi richiedeva una prassi standardizzata e sottoposta a controllo. Per obbedienza e umiltà mi veniva chiesto di attenermi al controllo, alla formazione, al modo di accompagnare che tutti dovevano osservare. E questo mentre la mia curiosità e la mia passione mi portavano a cercare anche in altre persone e in altre esperienze formative quella conoscenza profonda di Dio e dell’uomo a cui mi sentivo chiamato; mentre sentivo che non l’osservanza di un metodo, ma la personale esperienza di Dio dell’accompagnatore costituiva la forza dell’aiuto spirituale.
Il Kaire nasce dunque dalla separazione conseguente a questo disagio, nel momento in cui mi fu imposta una scelta.
Poter essere me stesso, lasciandomi essere, anche nell’accompagnamento, come Dio mi stava plasmando nelle mie esperienze con Lui lo sentivo più importante della garanzia offerta al mio operare dall’appartenenza ad un’organizzazione che poteva vantare i Gesuiti alle proprie spalle.
Ne è nato un accompagnare spiritualmente che si fonda più sulla persona che sull’organizzazione. Una persona che vive con Dio la propria storia e la trasforma consapevolmente in esperienza a disposizione di chi accompagna.
C’è, naturalmente, una struttura nel mio dare Esercizi, c’è un metodo, che è quello di Ignazio, ma il contenuto è la Parola di Dio letta e interpretata a partire dalla mia esperienza della vita vissuta con Lui, nel suo Spirito. E’ questo che significa per me accompagnare come laico: mi accosto alla persona con quel che sono, con quel che Dio sta facendo in me.
Sono abilitato ad accompagnare come laico dal mio stesso essere laico, dall’esperienza di una vita analoga a quella di chi accompagno, però vissuta con Dio, nel suo Spirito. Il mio essere laico è un talento che Dio mi ha dato per poter parlare ai laici.

Ma oltre che a livello pastorale, c’è un risvolto importante anche a livello ecclesiale: per la prima volta dei laici danno Esercizi Spirituali senza un vincolo di subordinazione da un ordine religioso o dal clero, per cui la loro autorevolezza e credibilità non dipende da una garanzia data dall’esterno, ma esclusivamente dalla loro capacità di aiutare le persone a fare esperienza di Dio grazie alla propria esperienza di Dio.
In questo senso Il Kaire si ritrova ad essere una sperimentazione di un ruolo attivo dei laici in quella Chiesa ministeriale che il Concilio Vaticano II° aveva sognato.

Ma se tutto questo è come il Kaire è nato, occorre dire anche come il Kaire cresce.
Qualcuno mi ha detto: «Da come parli di quel che stai facendo, si vede che ti diverti!». E’ vero! Quando riesco ad intuire la strada per aiutare una persona, e farla vedere anche a lei come un lampo di luce che rischiara la sua situazione, mi viene da battere le mani per la contentezza: è gioia pura, è sentire il soffio dello Spirito che passa.
Quando vivo il colloquio in preghiera, lasciandomi essere mediatore tra la persona e Dio e tra Dio e la persona, sono io per primo a imparare, a capire qualcosa di più del mistero della vita.
A forza di parlare alle persone attraverso di me, qualcosa Dio dice pure a me, e mi aiuta a essere un po’ più paziente, un po’ meno ansioso, un po’ più buono… che è un gran desiderio per me che sono piuttosto egoista.
Mi sembra di essere un giardiniere che si prende cura di piante belle ma un po’ guastate dal tempo e dal maltempo; un giardiniere che ha capito che, con tanto amore e aiutandole a volgersi verso l’Amore, queste piante tornano a fiorire.
Ed è bellissimo vivere in un giardino fiorito!
Ecco: è l’essere con-creatore di bellezza con Dio che mi riempie il cuore e mi rende prezioso questo strumento che Dio mi ha messo tra le mani per far felice me e gli altri attorno a me.
Poteva il Kaire / Rallegrati non portare me per primo a rallegrarmi?

                                                                                                             Michele Bortignon


Maria Rosa si diploma accompagnatrice spirituale Kaire a SS. Vittore e Corona il 22.10.2013, durante la celebrazione del decennale.


11/04/2013

A quale livello affrontare i problemi personali?

Nel nostro mondo, spasmodicamente teso alla ricerca di un benessere dagli orizzonti strettamente personali, quante psicologie, quante filosofie di vita promettono di risolvere i nostri problemi e di darci la ricetta per un’esistenza realizzata!
I problemi personali, però, nella maggior parte dei casi nascono in ambito relazionale e quindi possono essere guariti solo in ambito relazionale.
La psicologia dà un “perché” a quel che sto vivendo, la filosofia dà un “come”, indica cioè una prospettiva per uscirne, ma solo la spiritualità (che non prescinde comunque dagli apporti della psicologia e della filosofia) dà un “Chi”, ossia la relazione con una Persona che, dove nelle persone c’è limite e chiusura autocentrata, rimanda a un oltre di relazionalità, e in Cristo si svela come principio della completa espansione del Sé in tutto (l’amore!).
Con questo “Chi” che è oltre me, e con cui posso entrare in relazione, posso uscire da me per entrare nell’oltre da me quando quest’oltre non è un valore che io scelgo per uscire dal mio problema, ma quando per quest’oltre mi sento scelto da Chi mi vuole con Lui, come Lui, per essere Lui. E’ la forza di questa relazione, affettivamente importante, che dà ali al cambiamento. Davanti, invece, a un valore che sento giusto assumere, sento che sono io ad averlo scelto e sempre io posso ri-scegliere di abbandonarlo alla prima difficoltà, nell’incapacità di perseverarvi. E’ grande e degno questo atteggiamento prometeico, ma pesante da portare e intriso di doverismo.
Il cambiamento che porta ad uscire dalla malattia è dunque una vocazione: vocazione a condividere una storia che porta alla salvezza, ossia ad una vita in pienezza, in cui la malattia si scioglie o acquista senso.
“Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11, 28-30): ciò che rende leggero il carico non è il suo non essere pesante, ma il fatto che è portato in giogo, cioè in coppia, condiviso con un altro. E il giogo di Gesù è l’essere in coppia col Padre, l’affrontare con Lui, nella preghiera, la situazione che sta vivendo. Per noi, condividere il giogo con Gesù per entrare nella vita in pienezza è fatto di due passi: il primo è di lasciarsi guarire le ferite inferte da relazioni malate, incontrando in Lui Chi ci fa vivere una relazione sana; il secondo quello di aprirsi alla bellezza di vivere con Lui verso gli altri lo stesso amore con cui ci ha guarito e di cui ci riempie; in una parola, essere Lui.

Guardando alle tante promesse di salvezza che il mercato globale ci presenta per sedurci su strade settoriali, riconosciamo che ognuna di queste porta beneficio, ma nessuna è risolutiva dei nostri problemi, nessuna porta alla vita in pienezza se non affronta sul piano relazionale l’origine dei nostri problemi, che è relazionale, e il desiderio profondo che ci abita per entrare nella vita in pienezza, anche questo relazionale.


Di fronte ad ogni psicologia e ad ogni filosofia noi riaffermiamo la nostra fede in Gesù Cristo, crocifisso per mostrarci che cos’è l’Amore e dall’Amore risuscitato ad una vita in pienezza, per nutrire di speranza la nostra fede che “Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6,5).

                                                                                                Michele Bortignon

10/09/2013

Lo specifico del Kaire: accompagnare trasmettendo ciò che ho imparato dalla vita vissuta con Cristo, nel suo Spirito

Kaire! Rallegrati: c’è sempre una resurrezione che segue ogni morte, se questa è vissuta nello spirito di Cristo: con fede, speranza e amore.
Potrebbero bastare queste parole per dire che cosa significa accompagnare trasmettendo ciò che si vive.
Questa è stata ed è la mia esperienza: un Dio che non lascia l’uomo nella morte, nella solitudine, nel dolore. Ho fatto esperienza di un Dio vicino, un Dio uomo, un Dio con noi; un Dio che non giudica, non condanna; un Dio che non chiede di essere amato, riverito, adorato, ma un Dio amante dell’uomo, un Dio tenerezza, un Dio madre, un Dio misericordia.
Ogni morte non è per sempre: magari non dura i tre giorni canonici, ma dopo un tempo che è completo, proprio come i tre giorni simbolici di Gesù (il numero tre nell’antico testamento simboleggia ciò che è completo e definitivo), con Lui risorgiamo.
È questo ciò che ho sperimentato.
La nostra è una resurrezione se dall’esperienza di morte usciamo creature nuove, cambiate; in questo caso non si tratta di una vivificazione come lo è stato per Lazzaro, ma di una rinascita. Perché? Perché l’esperienza di morte, ma soprattutto il modo con il quale siamo rimasti dentro a quella situazione -senza fretta di uscirne e senza voler salvare noi stessi ad ogni costo- ci ha cambiato. Soprattutto, a cambiarci è la certezza di Chi abbiamo incontrato in quella morte, di Chi è rimasto con noi.
E’ questa esperienza di un Dio vicino, che ci aiuta a trasformare la morte in risurrezione, che ci abilita ad accompagnare spiritualmente altre persone. E com’è importante, in questo, la nostra esperienza della vita, l’essere immersi negli stessi problemi che si trova ad affrontare chi accompagniamo! Il nostro essere laici diventa così un’unzione particolare dello Spirito per parlare con autorevolezza di vita vissuta con Cristo.
Accompagnare non significa, dunque, avere un manuale a disposizione da imparare a memoria o da sbirciare nei momenti di difficoltà (quanto ho voluto fosse così!); e nemmeno sapere già tutto, avere tutto sotto controllo, avere le soluzioni pronte (quanto l’ho desiderato!).
Non c’è nessuna valigetta del dottore o ricetta pronta per affrontare i problemi, ma solo un legame profondo, un rapporto costante con Dio, che non ha nulla di mistico o esoterico, ma è semplicemente un atteggiamento di dialogo interiore e di vita nello Spirito che permette di mettere davanti a Lui tutta la tua vita e quella di chi accompagni. Semplicemente si tratta di un grande Amore di cui nutrirsi: prima accolto, interiorizzato, gustato e poi distribuito, condiviso, moltiplicato.

Proprio perché nasce dall’esperienza della vita, accompagnare è mostrarsi all’altro spoglio, vestito solo delle proprie ferite, più o meno rimarginate, da lasciargli toccare e da cui tirar fuori ciò che gli serve. Sì, proprio come si è presentato Cristo a Tommaso: riconoscibile delle sue ferite.
Mi accorgo con stupore e tremore che, quando mi mostro così, quella mia ferita diventa balsamo per l’altro. Alla fine, al limite dell’assurdo, del mio problema e del mio male mi ritrovo a ringraziare Dio perché esso è stato bagaglio e strumento per aiutare chi accompagno.
Talvolta mi rendo conto che ho appena vissuto quello che sta sperimentando un mio esercitante o che lo stiamo vivendo contemporaneamente… io “maestra” che imparo mentre spiego, io che lo dico a loro mentre lo sto capendo io per prima e lo sto dicendo a me stessa. Sembra quasi che Dio, per preparare la sua risposta al bisogno dell’altro, non voglia farlo attraverso parole che non siano state prima vissute nella mia esperienza.
E il bello è che nel momento in cui la mia ferita diventa esperienza mia per l’altro la stessa cura che dono serve anche a me, per cui quella che impara e che trae il beneficio più grande sono sempre io. Sembra di risentire le parole di Gesù: “Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche»” (Mt 13,52). Mi sono chiesta: “Come si può tirar fuori dal proprio tesoro cose nuove?”. L’immagine che ho nella mia mente è quella di un ricco che, aperto il suo forziere, inizia a tirar fuori tesori. Mi sembra ovvio che trattandosi del suo tesoro lo conosca molto bene: sono tutte ricchezze che lui ha messo dentro. Eppure Gesù parla di cose nuove. Come se all’improvviso questo padrone di casa estraesse una cosa che non sapeva di avere nel suo forziere. Parole che non sai di avere, esperienze che vedi sotto una prospettiva diversa, gesti che non sembrano tuoi…eppure…escono da te, dal tuo cuore, dal tuo tesoro, messi là da un Dio che sa di che cosa c’è bisogno per farsi presente e vicino attraverso di te.
E se Lui c’è, possono venir meno le preoccupazioni di essere all’altezza.
Accompagnare per me ha significato abbandonarmi a Lui, accettare che non dipende tutto e solo da me, lottando contro quella parte di me che si sentiva inadeguata, incapace, mai all’altezza, che pretendeva di avere tutto sotto controllo e pianificato: accompagnare è proprio ricominciare e ripartire sempre facendo davanti a te solo il passo che Lui ti dà di vedere (a volte neanche quello) e nulla di più. Accompagnare è come la vita: s’impara vivendo.
E così ho imparato che veramente umano e divino si danno la mano per camminare assieme per le strade di questo mondo, che la storia con Dio la costruiamo ogni giorno vivendo e amando come Gesù ci ha testimoniato con i fatti e non solo a parole.
È proprio vero, si è credibili quando si parla per esperienza e non attraverso belle parole imparate a memoria. Accompagnare è veramente un camminare con le scarpe di chi accompagno. 

                                                                                               Maria Rosa Brian

7/01/2013

Lo specifico della spiritualità Kaire

Il sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione, svoltosi nell’ottobre del 2012, ha affermato che la Chiesa ha bisogno dei laici, in un ruolo non di semplice collaborazione funzionale: la nuova evangelizzazione ha bisogno che i laici diano testimonianza diretta e vissuta della propria vocazione, perché il contatto con persone che compiono scelte vere e profonde è ciò che più può porre agli uomini d’oggi l’interrogativo sulla propria vocazione.

Mentre, dunque, nella nuova evangelizzazione i preti portano la preparazione teologica, per trasmettere il patrimonio della fede, e i religiosi uno stile di vita che rimanda a un Oltre, quello che i laici hanno da offrire è l’esperienza dei problemi della vita concreta, ma vissuti in maniera diversa da quanto propone il mondo: nella fede, nella speranza, nell’amore, ossia nello Spirito del Cristo.

In questa prospettiva, Kaire mette a disposizione un percorso formativo e una spiritualità che aiuta i laici a vivere in Cristo la loro situazione di vita e con Lui trasformarla in esperienza di vita per gli altri. E’ questa la specifica missione di chi vive nella spiritualità Kaire: con la propria storia farsi compagno di strada di chi sta cercando la salvezza che Cristo può portargli, quella salvezza che lui per primo ha trovato nella relazione con Lui.
Abbiamo infatti sperimentato che vivendo il nostro problema con Cristo, nel suo Spirito, la nostra morte si apre ad una risurrezione. E questa è una ricchezza, una lezione di vita a disposizione di quelli che ora stanno vivendo il nostro stesso problema».
E’ proprio in questo modo che Ignazio di Loyola ha composto i suoi “Esercizi Spirituali”: “…io chiesi al pellegrino qualche notizia sugli Esercizi, desiderando conoscere come li aveva composti.  Mi rispose che non li aveva scritti tutti di seguito, ma quello che accadeva nell'anima sua e trovava utile, ritenendo che avrebbe potuto giovare anche ad altri, lo annotava” (S. Ignazio di Loyola, Autobiografia, n.99).

Crediamo dunque che dare Esercizi spirituali non può limitarsi ad applicare un metodo, ma è un camminare con Dio che accosta l’altro nel suo percorso, perché anch’egli impari a camminare con Dio.

Ma la spiritualità Kaire non è solo vivere in Dio la concretezza della nostra storia. Camminare con Dio sarebbe solo un arido impegno se non fosse prima di tutto relazione fatta di dialogo, di tenerezza, di confidenza, di fiducia, ossia di presenza reciproca affettivamente gustata.
In una parola, stiamo vivendo il Kaire quando in tutto e per tutto siamo capaci di rallegrarci (da qui appunto il nome: “Kaire!” = “Rallegrati!”) perché qualsiasi situazione è occasione e opportunità di vivere con Cristo e in Cristo in un’intimità, in una comunione di Spirito che ci fa sempre più uno con Lui.

Nonostante siano caratteristici del Kaire, gli aspetti che abbiamo appena descritto appartengono però anche ad altre esperienze. Non è dunque a livello teologico o pedagogico che si trova ciò che rende il Kaire unico, ma a livello ecclesiologico.
Tornando a quanto citato all’inizio riguardo l’auspicio dei vescovi di vedere il laicato assumere nella Chiesa un ruolo non subordinato, ma coordinato con quello delle altre componenti ecclesiali, in una situazione come l’attuale, in cui l’accompagnamento spirituale è tradizionalmente esercitato dal clero e dai religiosi, o subordinato ad una loro supervisione, Kaire è l’esperimento di renderlo un servizio svolto in autonomia e responsabilità dai laici, validato non da un patrocinio o da un controllo esterno, ma dai risultati ottenuti, seguendo il criterio di discernimento indicato da Gesù: “Dai frutti li riconoscerete” (Mt 7, 16).

Saranno dunque i frutti ottenuti -non solo a livello personale, come la pace, la gioia e la libertà interiore, ma anche a livello ecclesiale, come l’apertura al servizio e la comunione reciproca-  a dichiarare o meno la bontà di questo esperimento e conseguentemente e dimostrare che con il laicato -opportunamente accompagnato a vivere nello Spirito del Cristo e adeguatamente formato- è possibile che la Chiesa possa continuare quella missione che il calo numerico delle vocazioni sacerdotali e religiose sta rendendo problematica.

Un sogno assurdo? Intanto cominciamo. Dal niente, ma cominciamo.

Anche la Trinità, nella visione di Ignazio, ha iniziato la redenzione mandando il Figlio in un villaggio sperduto in un’epoca impossibile!

                                                                                                Michele Bortignon

6/14/2013

Il fine dell’accompagnamento spirituale: allacciare la relazione con Dio

Ai nostri giorni, per molti il cristianesimo si è ridotto ad a serie di credenze accompagnate da un rigido moralismo. La pastorale addita i comportamenti da assumere, ma ben raramente li accompagna con una pedagogia che consenta di farli propri, che non sia quella del doverismo, del semplice impegno personale. Pochi sono ancora capaci di attivare una dinamica della grazia per suscitare risposte di fede. Ma è proprio quest’ultimo il campo dell’accompagnamento spirituale, la cui funzione specifica è quella di allacciare la relazione tra la persona e Dio, perché proseguano poi a dialogare e a camminare assieme, loro due da soli.
L’accompagnatore può farlo perché lui per primo è una persona in dialogo e in cammino con Dio, per cui apre in se stesso -nel proprio modo di essere e di relazionarsi con Dio- un luogo in cui la persona che accompagna può cominciare a fare altrettanto, sperimentando via via il proprio personale modo di essere e di relazionarsi con Dio.

A partire da alcuni outputs sull’esperienza appena vissuta da alcune persone che ho accompagnato, provo a desumere cosa è stato importante per loro, cosa le ha aiutate ad allacciare una relazione con Dio.

“Mi hai fatto conoscere un Dio  diverso”.
“E’ stato importante poter parlare di Dio senza schemi”.
“Ho capito che posso personalizzare Dio nella misura in cui lo credo amore”.
“E’ stato un percorso che mi ha portata alle radici del mio sentire”.
A quale Dio sto accompagnando la persona? Le uniche dimensioni certe di Dio è che è “mistero” ed è “amore”.
E’ mistero perché tutti lo avvertiamo, ma nessuno sa dire chi o che cos’è. E' un Dio da scoprire personalmente.
E’ amore perché questa è la dimensione costitutiva del nostro essere: se è l’amore a farci Vivere in pienezza, chi ci ha dato la vita dev’essere Amore.

Accompagnare nel rispetto di questa natura di Dio -mistero e amore- è portare la persona ad amare in dialogo con Colui il cui amare l’ha rivelato figlio dell’Amore (“Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” Gv 13, 34); e, in questo accompagnamento, posso aprirle delle prospettive, mai chiedere obbedienza presumendo di conoscere con quale volto Dio vuole incontrarla in questo momento della sua vita.
Accompagnare è avviare e sostenere una ricerca personale che si dipana in un mistero di cui solo Dio è il Signore. Fuori da ogni schema imposto culturalmente, Dio ridiventa il protagonista della propria autorivelazione e la persona della propria ricerca, ricominciando a dar fiducia a quel sesto senso (la coscienza) che le fa sentire che cosa è vero perché in sintonia con l’Amore.

“Prima conoscevo Dio per sentito dire, ora lo sento”.
Da un Dio “concetto”, passando per una deconcettualizzazione (come accompagnatore posso solo dire che non so chi o che cosa sia Dio), la persona arriva a un Dio “sentito” come qualcosa che agisce dentro di lei: è la scoperta e l’esperienza dello Spirito Santo, il Dio “intimior intimi mei”, Colui che ri-cor-da il Cristo e lo attualizza nella vita della persona per renderla pienamente figlia del Padre e trasformarne così l’esistenza in Vita. Non è questa la salvezza?

“Hai saputo esserci quando ne avevo bisogno e non esserci quando avevo bisogno di provare da sola”.
“Mi sono sentita scelta da Dio attraverso di te”.
“Mi hai insegnato l’amore gratuito”.
Accompagnare non è tecnica, ma contemplazione: entrare in Dio e lasciarlo essere attraverso di me. Mi occupo, ma non mi preoccupo, perché so che, con i suoi tempi e nei suoi modi, Dio opera… irresistibilmente su chi si è aperto a Lui.
Come Dio, anche l’accompagnatore spirituale crea ritirandosi; semina, ma rispetta il mistero del germogliare; mostra, indica, illumina, ma sa che poi è la fiducia la più grande spinta in avanti. Insegna con le parole, ma sa che l’altro impara non tanto ciò che ha ascoltato da lui, ma ciò che ha sentito vibrare in lui vedendolo espresso nel suo modio di essere, di agire e di reagire.

“Hai reso semplice un percorso di riscoperta dei Padri della Chiesa”.
Perché la gente va in cerca di religioni orientali o di “americanate” pseudo-psicologiche?
Abbiamo un patrimonio di sapienza umana e spirituale maturata “col sangue” da grandi testimoni della fede, che può aprirci concrete prospettive per la nostra vita se solo sappiamo comprenderla e attualizzarla. Ma abbiamo confinato i tesori della nostra tradizione in scaffali polverosi e ci alimentiamo di banalità che non ci nutrono affatto.
Ridare la parola ai maestri dello Spirito, tornare a comprenderne il messaggio e renderlo nuovamente incisivo per la nostra crescita umana in Cristo: ecco un’altra sfida che attende l’accompagnamento spirituale.

Per concludere, nessuna ricetta, ma una constatazione derivante dall’esperienza: «Per accompagnare a Cristo non preoccuparti di tecniche e di conoscenze. Pensa solo ad essere in Lui e ad amare con Lui: pianterai nel cuore di chi ami il seme di ciò che Lui è».

                                                                                               Michele Bortignon



6/06/2013

Quale pedagogia per l’accompagnamento spirituale? La prospettiva di San Paolo

Prima o poi nella storia di ciascuno arriva un momento in cui si comincia a sentire che le cose non possono più continuare ad andare avanti così. E, se siamo sufficientemente maturi, anziché scappare dai problemi che la situazione ci pone o chiedere solo agli altri di cambiare, siamo disponibili a prendercene la responsabilità e cercare di fare qualcosa rimettendo in discussione innanzitutto noi stessi. E’ questo il punto di partenza di qualsiasi percorso di cambiamento personale ed è a persone in questa situazione che si rivolge san Paolo annunciando il suo Vangelo. Ed è questa anche la situazione iniziale di un accompagnamento spirituale con probabilità di riuscita perché motivato da una speranza e fondato su una disponibilità.
Il Vangelo si pone dunque come apertura di una prospettiva di fronte a un’esigenza di cambiamento; ed è appunto Vangelo, ossia “buona notizia”, perché fa una promessa: seguendo questa strada la tua situazione cambierà in meglio.

Nelle sue lettere, Paolo evidenzia con particolare forza il contenuto del Vangelo che egli annuncia, il Vangelo della Grazia, contrapponendolo a quello su cui precedentemente egli aveva fondato la propria vita e che ha constatato averlo però portato ad un fallimento esistenziale: il Vangelo della Legge.

Come evidenziato prima, un Vangelo deve rispondere a questa domanda: «Cosa posso fare di fronte al disastro che mi trovo a vivere?».
«Recupera la perfezione!», dice il Vangelo della legge. «Ti do io la ricetta. Segui le regole che ti prescrivo». Una legge: questa è la soluzione. Una legge a cui attenersi. Se adempio perfettamente alla legge, la mia situazione sarà perfetta.
Perché questo rigido inquadramento del comportamento umano in prima battuta viene avvertito come Vangelo, ossia come notizia liberante? Perché dà sollievo: seguire le regole di comportamento che mi dà qualcun altro mi esime dal pensare e dal prendermi delle responsabilità. Basta solo obbedire a quanto mi viene detto. Abdico al dovere umanizzante dell’agire morale e mi viene assegnato il premio di consolazione dell’umiltà.
Rimanendo nell’orizzonte della legge, alla lunga faccio però esperienza che in esso non c’è Vita. Anch’io, come Cristo, sconto le conseguenze della legge: vengo crocifisso, soffocato, annullato in ciò che sono dall’osservanza delle regole non solo quando queste non si attagliano alle esigenze della situazione che sto vivendo, ma anche quando questa osservanza è travolta dall’ansia del perfezionismo nel corrispondere perfettamente al dettato della legge e dagli scrupoli che mi assalgono nel timore di non avervi perfettamente corrisposto.
Infine, seguendo il Vangelo della legge perdo l’essenziale: l’occasione di ascoltare Dio che, attraverso le mozioni dello Spirito, vuole comunicarsi a me per essere attraverso di me. La relazione di comunione con Dio, infatti, non è importante solo per me, per il respiro d’infinito che mi dà il rapporto col mistero, per l’orizzonte di pienezza che mi apre l’essere in relazione con la fonte della Vita, ma soprattutto per dare anche all’esistenza che si svolge attorno a me la possibilità di essere Vita: solo se sono in relazione con l’Amore, la mia giustizia, la mia bontà è vera; altrimenti è qualcosa che costruisco io deducendone le modalità dal mio limitato angolo di visuale sulla vita.

Questa relazione con un Dio che è Amore è il Vangelo che Paolo annuncia come salvezza da lui personalmente sperimentata: non la perfezione dei comportamenti rende giusti, non aver risolto i problemi della vita dà pace, ma il sentirsi avvolti dall’amore di un Dio che ti raggiunge dove sei e con Sé ti porta a diventare quello che puoi essere. Una relazione che non è l’uomo a costruire (ancora una volta sarebbe lui a definire che cos’è l’Amore sulla base della propria limitata esperienza della vita), ma può solo accorgersene, scoprirla, accoglierla.
In che modo Paolo vede manifestarsi l’amore di Dio nella propria vita?
“Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti,…” Gal 1, 15-16):

  • Dio mi ha scelto: ha voluto che io ci fossi
  •  Dio mi ha chiamato con la sua grazia: nelle vicende della storia faccio esperienza dell’amore, ricevuto e donato, e mi accorgo che esso non è semplicemente un’azione dell’uomo, ma uno Spirito: un qualcosa che mi coinvolge e mi fa essere Sé.
  • Dio ha rivelato in me il figlio suo: mi ha mostrato che l’amore è anche dentro di me, come parte costitutiva del mio essere.

La risposta dell’uomo a questo amore gratuito di Dio è la fede, che si esprime

in chiave di comprensione della vita (fides quae). Dentro di noi sentiamo che c’è una connaturalità con l’Amore perché il nostro cuore ne grida il desiderio, il bisogno, sentiamo che da lì proveniamo e lì vogliamo tornare a vivere. Siamo fatti della stessa pasta dell’Amore, ce ne riconosciamo figli: “E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” (Gal 4, 6-7).
Credo dunque che fondamento del mio essere è l’amore. Oggetto del mio credere è dunque l’essere figlio di un Dio la cui essenza è l’amore e che si manifesta come Amore (eminentemente in Cristo). Dal momento che condivido l’essenza di questo Dio-Amore, io sono suo figlio. E, se sono figlio di questo Padre, niente e nessuno potrà separarmi dal suo amore, nemmeno io con la mia autocondanna: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32 Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? 33 Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. 34 Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? 35 Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 37 Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38 Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39 né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 31-39).

in atteggiamenti (fides qua): l’amore suscita in me una risposta d’amore. Non c’è doverismo, non ho bisogno di impormelo valutandone l’opportunità: la bellezza del vivere l’amore sentendomene oggetto trabocca in me rendendomi soggetto, protagonista d’amore, con altrettanta gratuità.
A volte la mia fragilità mi riporterà a cadere (“…noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri…” Gal 2, 17): essere giusto non significa non peccare, ma vivere in relazione con l’Amore, che mi rende amore: giusto per osmosi di ciò che Egli è, perché sono innamorato dell’amore. Giustizia non è perfezione, ma relazione. Essere giusti non è, dunque, uno stato, ma una tendenza: la perseveranza di camminare con Dio confidando più in ciò che Lui riuscirà a fare in me stando con me che non nelle mie capacità  (“…mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” Gal 2, 17-20).

C’è dunque un Vangelo della Grazia e un Vangelo della legge: due prospettive assolutamente contrapposte tra le quali l’uomo deve scegliere. Nell’una la mia salvezza, la pienezza della vita me la costruisco io compiendo le opere che la legge mi prescrive, nell’altra l’accolgo, semplicemente entrando nella relazione che Cristo mi propone di vivere con Sé lasciandomi portare dal suo Spirito, che in questa relazione tra Lui e me si comunica per osmosi affettiva. Paolo, che ha vissuto entrambe queste prospettive, può concludere: “L'uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo” (Gal 2, 15).
E questa fede, questa relazione d’amore con Dio produrrà frutto, il frutto dello Spirito: Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Le opere le fa l’uomo con il proprio impegno, seguendo un proprio progetto; i frutti li produce Dio attraverso l’uomo.

A cosa serve allora la legge? “La Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3, 24-27). Obbedire alla legge non è obbedire a Dio. Obbedire a Dio è dare ascolto a una voce interiore che è formata, ma non determinata, dalla legge. Per rivestirsi di Cristo, per diventare Amore occorre essere stati battezzati in Lui: aver fatto la sua stessa esperienza di morte e risurrezione, vivendo la situazione che ci uccide con il suo Spirito: con fede, con speranza, con amore. Solo allora si ama. Solo allora si conosce per esperienza che amare dà Vita.

Darsi come prospettiva la gratuità dell’amore anziché l’osservanza delle regole significa che non ci sono più regole? Non c’è il rischio che la libertà acquisita si trasformi in arbitrio?
Prescindere dalle regole non significa non avere regole, ma che queste nascono dall’interno, come esigenza intrinseca di un amore vissuto in pienezza; non vengono imposte dall’esterno, con il rischio di non essere adatte alla situazione che sto vivendo. E così non mi schiavizzano, non mi opprimono, ma me ne servo, le uso per il mio scopo: vivere sempre meglio il mio mondo di relazioni. Vale anche per la legge il proverbio “Pecunia, si uti scis ancilla, si nescis, domina”.
La libertà “da” è solo il prodromo di una libertà “per”: un’assunzione di responsabilità per un progetto di vita. Un progetto che Paolo addita in Gesù: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1, 21).

“Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,16): se rimanete in relazione con Cristo, se vivete nel suo amore, se vivete il suo amore, non vi verrà il dubbio se siete o no salvati, perché sarete già nella vita in pienezza, e quindi non cercherete giustificazione nelle regole né vita nella soddisfazione dell’istintività. Vivete in relazione con Dio, dove troverete quell’amore, quella stima e quella sicurezza che soddisfa i vostri bisogni, rendendo inutile cercarli altrove.

                                                                                                     Michele Bortignon



4/18/2013

Gestire ansie e paure

Secondo una psicologia che attualmente si sta facendo strada, le emozioni che fanno male a te e a gli altri (invidia, avarizia, superbia, tristezza, lussuria, ira, ecc.; tutte sempre accompagnate da ansia e paura) sono una parte di te, da accettare e di cui capire il messaggio.
Ora, se qualcosa fa parte di te, è ineliminabile, per cui, logicamente, devi accettarlo, far pace con la sua presenza in te; ma, per riuscirci, devi capirne il senso, il significato costruttivo nell’ambito della tua vita individuale e sociale.
Si tratta senz’altro di una visione immediatamente tranquillizzante: «Allora non sono sbagliato!», ti dici, «Semplicemente non mi sono ancora capito». E provi allora a capirti. Naturalmente lo farai applicando i tuoi schemi interpretativi della realtà, quelli che si sono formati a partire dalla tua esperienza della vita.
Sulla base di questi, emerge che è assolutamente giusto che tu faccia quel che stai facendo: sono gli altri a sbagliarsi, per cui il problema si risolverà quando saranno loro a cambiare. «Sono una vittima del sistema!».
Oppure i tuoi limiti sono talmente grandi che nulla potrà mai assolutamente cambiare nella tua situazione. «Sono una vittima del destino!».
La tua pacificazione assume allora il volto della rassegnazione: poiché gli altri non intendono cambiare e la storia non può essere cambiata, vorrà dire che va bene così!
La tua vita assume allora un tono basso, a tratti lacerato da lampi di insofferenza e di ribellione. Oppure ti immergi nel lato piacevole di queste emozioni, senza pensare a cosa sarà di te domani o alle conseguenze sugli altri.

Considerati gli esiti, questa psicologia non può certo costituire una prospettiva appetibile  per il cristiano, che nella Pasqua di Cristo trova un’alternativa ben più vitalizzante: guardando alla propria vita in sovrapposizione alla vicenda di Gesù, vede che c’è una morte attuale, creata per l’appunto da queste emozioni devastanti; c’è una strada per vivere in modo diverso la situazione che gli crea problema (nello Spirito del Cristo: nella fede, nella speranza, nell’amore; rivestendo un ruolo attivo, non di vittima!); e c’è infine una risurrezione: la situazione viene trasformata da questo suo modo di viverla, perché interiormente -anche se fuori potrebbe non essere cambiato nulla!- egli vive nella gioia, nella serenità, nella libertà interiore.

Qual è, dunque, l’approccio cristiano alla gestione delle emozioni negative, per poterle vivere nella dinamica pasquale?

Da un punto di vista ontologico, innanzitutto, devi renderti conto che queste emozioni non sono parte di te. Sono una reazione formatasi nell’ambito di una storia di relazioni affettivamente importanti, in cui sei stato però ferito da comportamenti manipolatori (seppure a volte anche a fin di bene!). Situazioni attuali che te le ricordano fanno risorgere i fantasmi di queste situazioni dolorose già vissute.
Se entri in dialogo con l’ansia e la paura che connotano tutte le tue emozioni negative, esse ti convinceranno che la situazione non è cambiata, semplicemente ti si ripresenta in forme diverse, per cui devi continuare a comportarti come allora hai imparato. Ma così continuerai a rimanere immerso nell’ansia e nella paura.

Quello che devi ascoltare non è, dunque, l’ansia e la paura, ma la parte più viva di te stesso, che ti dice che non è umano continuare a star male, non è un destino immodificabile, e che vivere è essere nella gioia e nella serenità.
Devi dunque ascoltare, prima di tutto, la voce di Dio, che ti parla di ciò che dà questa gioia e questa serenità: l’amare e l’essere amato, il credere che l’Amore fa ordine nell’esistenza creando Vita, per cui puoi sperare in un futuro diverso.
Solo dopo aver sperimentato che cosa dà vita, puoi tornare a guardare -questa volta con il Dio della Vita!- i problemi che suscitano le tue ansie e le tue paure, per capire con Lui come viverli.

Dalle emozioni che ti travolgono puoi imparare solo se ne esci: mentre ci sei dentro, la tua mente ne è devastata e ti impedisce di vedere qual è il bene per te e per gli altri.
E puoi uscirne, puoi distanziartene se chiami ad esserti accanto Colui che ti dice: «Non temere: io sono con te!»
Con Lui accanto puoi guardare senza paura alla tua paura: “Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché Tu sei con me” (Sal 8, 4).
Non sono allora le tue ansie e le tue paure che devi ascoltare, ma Dio che, dalla prospettiva della Vita, ti porta a scoprirne il significato: da dove vengono, dove ti portano e, quindi, cosa fare con quello che ti suggeriscono. E soprattutto che ti dice che ora Lui ti è vicino per aiutarti a ricominciare in maniera diversa.
Allora le paure non fanno più paura, ma diventano occasione di crescita.

Per uscirne completamente, è bene che “giudichi” le tue emozioni negative, osservando e comprendendo la morte interiore -e spesso anche il male fisico!- che esse ti provocano, ed arrivi a emanare la loro condanna: «Sono un male per me e non voglio più esserne travolto, non voglio più farmene condizionare». Ora puoi farlo perché l’aver scoperto che cosa dà Vita ti permette di capire come vivere ciò che ti fa problema in una prospettiva diversa, che scopri darti gioia, serenità, libertà da ciò che prima ti gettava nell’ansia e nella paura.

Quando dunque il malessere interiore -e spesso anche fisico!- ti dice che sei preda di ansie e di paure, evita di lasciarti parlare da queste, che ti portano ad avvitarti sempre più in te stesso, sprofondando nella palude della tristezza fino ad arrivare alla disperazione; quello che devi fare è invece dare spazio a quella piccola luce che ti dice che non è qui la vita, che devi cercarla altrove. Come? Dove? Non è da solo che puoi affrontare questi problemi -la tua esperienza malata non sa trovare altre soluzioni che quelle che già applichi!- ma aprendoti a un’altra esperienza, all’esperienza che altri hanno della Vita, e che ti può essere confermata dalle tue piccole ma concrete esperienze di vita che le rispecchiano.

Queste esperienze di Vita un cristiano sa di poterle trovare nella Bibbia, storia di un’umanità alla ricerca di una risurrezione all’interno delle proprie morti, e nella Chiesa, comunità di uomini come tutti feriti dall’esistenza, messi in cammino dalla fiducia di trovare Vita nell’Amore.

L’assunto teologico si scopre qui corollario psicologico: Non ci si può salvare da soli! La via per affrontare un problema è quella di aprirti all’ascolto degli inputs esterni oltre che di quelli interni, facendoli interagire tra loro, in modo che si rispondano l’un l’altro, fino a che non emerga una prospettiva che ti lasci nella pace, realizzando il bene tuo e, contemporaneamente, delle altre persone implicate nella questione.
Fa’ dunque emergere entrambe le voci che ti parlano di come affrontare la situazione che ti crea problema. Se, in un doverismo fondamentalista, ascolti solo la voce di Dio, senza far emergere le obiezioni dell’altra, più tardi queste emergeranno, mettendoti in crisi. Se ascolti solo le tue ansie e le tue paure, che ti paralizzano o ti sparano su vie di fuga, continuerai a rimanere nella nebbia e a star male, senza riuscire ad emergere dal problema.

Nella visione cristiana, l’esito finale è una situazione pacificata non dall’accettazione dello status quo, ma da una sintonizzazione interiore sui valori più vitalizzanti dell’essere umano, che, in prospettiva, riescono ad incidere anche nella situazione esterna, avviandola ad un cambiamento nello stesso loro senso.

                                                                                             Michele Bortignon

3/24/2013

L'aridità spirituale

Ci sono momenti, talora periodi, in cui senti una sorta di aridità interiore, una sensazione di deserto, un’oppressione quasi fisica che non sai da dove venga.

La prima possibile causa è la desolazione: non hai fatto nulla di male, ma proprio perché sei orientato verso il bene, lo spirito del male cerca di spaventarti con le sue esagerazioni («Dove vai a farti del male?!») o di scoraggiarti con scrupoli («In quel che stai facendo, qualcosa di sbagliato comunque c’è!») e sensi di inadeguatezza («Non puoi farcela!»).
Il risultato è che continui a rigirarti nella paura, nell’angoscia e sprofondi sempre più nella palude della tristezza.
L’aridità, in questo caso, è uno strumento dello spirito del male per bloccarti e tenerti con sé, da cui puoi uscire accorgendoti del tranello in cui sei caduto e rialzando lo sguardo verso quel Dio che hai perso di vista, che ti porta a guardare con realismo la situazione in cui ti trovi e ad affrontarla nel suo Spirito.

Se il disagio ti raggiunge quando col peccato ti sei allontanato da Dio, e il disgusto per quel che hai fatto, unito alla nostalgia di essere con Lui, ti chiama a tornare a camminargli accanto, si parla di compunzione. Può però anche, più semplicemente, nascere da una situazione che, pur senza peccato, va comunque corretta perché la stai vivendo in una modalità che non è risposta adeguata alla realtà: è il caso di tante reazioni istintive, che riproducono nel presente reazioni di difesa a ferite del passato, ma che ora fanno inutilmente male a te e agli altri.
Nella compunzione, l’aridità è allora uno strumento di Dio per aiutarti ad accorgerti della strada sbagliata che stai percorrendo e richiamarti con Sé a fare ciò che è giusto.

Una terza situazione di aridità può semplicemente derivare da problemi di salute: quando stai male, anche l’umore ne è influenzato e tendi a vedere tutto nero, ad essere irritabile, a sentire tutto come un peso. Il problema si presenta soprattutto nei malesseri dovuti a sbalzi ormonali, ad esempio, per le donne, in certi giorni del ciclo.

L’ultima possibile causa possiamo illustrarla con la metafora del bambino a cui il padre sta insegnando a camminare. Si sente sicuro nel sostegno della sua mano, ma, ad un tratto, lo perde: non perché il padre l’abbia abbandonato -è lì accanto che continua a seguirlo con premura!-, ma perché è giunto il momento che provi a muovere da solo i primi passi.
Così anche tu ad un certo punto devi imparare a camminare da solo nella situazione che stai vivendo, imparando a fare ciò che è bene anche senza necessariamente sentirti confermato dal suo appoggio affettivo, andando comunque avanti a fare ciò che è giusto.
A differenza delle situazioni precedenti, non sei angosciato come nella desolazione, non stai facendo qualcosa di sbagliato come nella compunzione, non sei ammalato, ma, anzi, stai facendo tranquillamente ciò che è bene, ciò che è giusto, e quanto fai dà frutti positivi per te e per gli altri. Affrontala dunque, senza spaventarti, per quel che è: un’occasione di crescita, in cui sviluppare la virtù della fortezza, fatta di pazienza, di coraggio, di perseveranza nelle avversità, per continuare nel bene senza scoraggiarti, opponendoti alla pusillanimità, che, come insegna san Tommaso, è il difetto di chi non raggiunge l'altezza delle proprie possibilità, cioè non si esprime nella pienezza delle sue potenzialità, fermandosi davanti agli ostacoli o accontentandosi di condurre un'esistenza mediocre.

                                                                                                     Michele Bortignon

2/14/2013

Il segreto dell’accompagnamento spirituale: far spazio allo Spirito Santo


“Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita”

“Se si vuole possedere veramente un’arte, le conoscenze tecniche non bastano: 
occorre andare oltre la tecnica, in modo tale che l’arte diventi un’arte senza artificio, 
che abbia le sue radici nell’incosciente…
Possiamo raggiungere la padronanza completa utilizzando il legame fondamentale 
che unisce la nostra Essenza all’essenza della nostra arte”
Bernard Amy

Lo Spirito Santo è il modo in cui Dio più concretamente si manifesta nella vita dell’accompagnatore spirituale. E ciò principalmente nell’esperienza del colloquio. Direi anzi che, senza la sua presenza nel colloquio, non si può parlare di accompagnamento, ma di counseling.
Il protagonista dell’accompagnamento, infatti, è sempre e comunque Dio, di cui come accompagnatore mi faccio tramite. Per questo l’ascolto è sempre duplice: della persona che ho davanti e di Dio, a cui presento, nella preghiera, quel che essa mi sta dicendo. Un ascolto che non si limita al colloquio: è nel mio cuore, in cui abita Dio e in cui ospito la persona, che si innesca e va maturando una relazione tra loro, di cui io mi faccio ascoltatore e poi interprete nel corso del colloquio.

L’azione dello Spirito si manifesta in alcune modalità che desumo dalla mia esperienza concreta.

Durante il colloquio, soprattutto se si tratta di qualche problema “pesante”, Dio vuol essere sicuro di poter parlare senza interferenze da parte mia. Per questo all’inizio agisce per lasciarmi senza parole. Da principianti può essere angosciante trovarsi di fronte a una richiesta d’aiuto e sentirsi assolutamente impotenti, incapaci di dire alcunché: emerge la propria inadeguatezza, prendono evidenza i propri limiti.
Ma per me proprio questo è necessario per accettare che la mia parte è fare silenzio, presentarGli nella preghiera la situazione che sto accogliendo, e lasciarmi essere tramite di una Parola che Lui fa sgorgare dal cuore inaspettata, autonoma, fluida, nel momento in cui serve.
Se tento di tirare fuori qualcosa da me anziché lasciar passare, avverto chiaramente la fatica del costruire un ragionamento, che comunque lascia insoddisfatto me e perplessa la persona. Può essere, a volte, un modo per cominciare, ma alla fine bisogna lasciare a Lui le redini, rilassarsi, non cercare per forza di dire qualcosa, affidare e confidare, tacere e aspettare in preghiera la sua Parola.
Quando il mio io non si interpone più, Lui scende in campo alla grande, prende la parola ed io ho quasi la sensazione di starmi ad ascoltare mentre parlo, dicendo cose non mie. La pace interiore mi fa da guida nel sentire quando è Lui a guidare, per evitare di fare meno o più di quanto Lui vuole.
La prova del suo agire si vede nella Vita che fluisce in chi ho davanti, come un’onda che scava, ripulisce e poi irriga e disseta, dando pace, gioia, libertà interiore. Non solo, ma anche in me stesso: dopo un colloquio posso essere stanco, ma mai svuotato; il cuore è pieno di dolcezza e di gratitudine per questa esperienza di profonda comunione con Dio nel suo volto più bello: quello di Salvatore dell’uomo.

Che la Grazia -ovvero l’Amore che si fa prossimo- sia il nome di Dio e la non interferenza attiva -ossia il rendersi disponibili a Lui, ma aspettando la sua iniziativa- sia il compito di chi accompagna, lo dimostra quest’altra modalità in cui lo Spirito si manifesta nell’accompagnamento.
A volte, in piena notte mi sveglia con un pensiero di una chiarezza estrema, che illumina la situazione della persona che in quel momento ho nel cuore, mostrandomi il seguito del cammino su cui accompagnarla. E mi è impossibile non trascrivere questa Parola, che, non colta, svanisce.
E’ un’esperienza piena di dolcezza: è commovente sentire che Dio non dorme (“Non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d'Israele” Sal 120,4) per cercare il modo di giungere al cuore di chi vuol salvare.
E’ un’esperienza piena di stupore: come Dio addormenta Adamo per dar vita a Eva con ciò che della sua carne è più vicino al suo cuore (“Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo” Gen 2, 21-22), così, quando non sono nelle condizioni di costruire con la mia mente, Dio plasma la sua Parola con le mie esperienze più intrise della Vita che Lui mi ha dato, rielaborandole in forme adatte a dare Vita ad altri.
“Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo»” (Gen 28,16). In quanto esperienza di Dio, piena di mistero e, allo stesso tempo, di vicinanza, questo è quanto di più simile posso pensare a quello che Ignazio chiama “consolazione senza causa”, donata da Dio all’uomo quando Egli vuol comunicarsi senza alcuna interferenza da parte sua (“Solo Dio nostro Signore può dare all'anima una consolazione senza una causa precedente; infatti è proprio del Creatore entrare nell'anima, uscire, agire in essa, attirandola tutta all'amore della sua divina Maestà. Dicendo senza una causa, si intende senza che l'anima senta o conosca in precedenza alcun oggetto, da cui possa venire quella consolazione mediante i propri atti dell'intelletto e della volontà” EE.SS. 330).

Non è detto che questa sia una modalità comune, ma più comune senz’altro è l’improvviso e inaspettato emergere di una comprensione da un cuore impegnato in sottofondo nel problema della persona che sta accompagnando.

L’ultima modalità di comunicazione di cui faccio esperienza nel colloquio è quella dell’intuizione spirituale. Qui non si tratta di lasciarLo parlare, coscientemente come nel primo caso o senza causa previa come nel secondo. E’ un suo lampo che attraversa la coscienza in risposta a quello che la persona sta dicendo. Serafim di Sarov la spiega così: 

Dissero a Serafim di Sarov «Si sente che leggi nei cuori!». «Oh», disse, «Si sente molto male allora. Si, perché io non leggo i cuori. Io semplicemente cerco di essere nello Spirito Santo che scruta le profondità; e il primo pensiero che mi viene in mente quando la persona finisce di parlare è di Dio, e lo dico. Se comincio a pensare cosa dovrei dire, distruggo tutto».

In questo caso la non interferenza è semplicemente consegnare questa luce alla persona nella sua purezza, evitando di filtrarla, elaborarla, censurarla, adattarla, modificarla, integrarla. Eventualmente la si può contemplare assieme, comunque evitando di farla propria: i pensieri che si aggiungono ad essa sono infatti tutti nostri, come spiega Ignazio parlando della coda della consolazione senza causa:

“Quando la consolazione è senza una causa, in essa non c'è inganno, perché, come si è detto, proviene da Dio nostro Signore; tuttavia la persona spirituale, a cui Dio dà questa consolazione, deve considerare e distinguere con molta cura e attenzione il tempo proprio di questa consolazione da quello successivo, nel quale l'anima rimane fervorosa e favorita dal dono e dalle risonanze della consolazione passata. Spesso infatti, in questo secondo tempo, sia con un proprio ragionamento, cioè con associazioni e deduzioni di concetti e di giudizi, sia per l'azione dello spirito buono o di quello cattivo, la persona formula propositi o pensieri che non sono ispirati direttamente da Dio nostro Signore; perciò bisogna esaminarli molto accuratamente, prima di dar loro pieno credito e di metterli in atto” EE.SS. 336).

Il farsi presente di Dio nel colloquio come Spirito che agisce nell’accompagnatore per comunicarsi all’esercitante è reso possibile dal vivere i tre pilastri che abbiamo appena visto. Dio fa la sua parte quando l’accompagnatore ha fatto la propria.
E quando gli si lascia fare la sua parte! Proprio perché l’iniziativa appartiene allo Spirito, a differenza del counseling o della terapia psicologica, nell’accompagnamento spirituale non può esserci supervisione intesa come controllo e correzione di quanto accade nel colloquio: alla preghiera si sostituirebbe, in questo caso, il confronto con un metodo, che di fatto sostituirebbe la spontaneità della relazione tra Spirito Santo e accompagnatore.
Chi ti insegna ad accompagnare, come ha fatto accompagnandoti, deve guidarti fino alle soglie della “cella del vino”, dove puoi incontrare lo Sposo (CC 2, 4), deve insegnarti il linguaggio dell’Amore, può condividere con te la sua esperienza di Lui e di educazione dei suoi figli con Lui, ma non può osservare e giudicare la vostra intimità né guidare il concepimento dei tuoi figli.
Come afferma il famoso aforisma latino per il denaro, anche la psicologia “si uti scis ancilla, si nescis domina”. E non è proprio il caso di barattare la potenza di Dio per la povera sicurezza offertaci da un metodo!

                                                                                                    Michele Bortignon


1/06/2013

I tre pilastri dell'accompagnamento spirituale "Kaire!"

Il primo pilastro:
vivere nell’Amore

“L'esperienza è il tipo di insegnante più difficile:
prima ti fa l'esame, poi ti spiega la lezione”
Oscar Wilde

Kaire intende valorizzare, accanto al metodo ignaziano, l’esperienza di vita in Cristo dell’accompagnatore come aiuto al cammino spirituale dell’esercitante.
Questo modo di accompagnare si rifà alla redazione degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola: “Dopo che ebbe narrato queste vicende, il 20 di ottobre io chiesi al pellegrino qualche notizia sugli Esercizi e sulle Costituzioni, desiderando conoscere come li aveva composti.  Mi rispose che gli Esercizi non li aveva scritti tutti di seguito, ma quello che accadeva nell'anima sua e trovava utile, ritenendo che avrebbe potuto giovare anche ad altri, lo annotava” (Ignazio di Loyola, Autobiografia, 99). 
Con quello che abbiamo imparato dal vivere con Dio le situazioni del nostro quotidiano ci facciamo allora compagni di strada delle persone a cui Lui ci mette accanto. Per poter accompagnare occorre dunque un bagaglio, continuamente rinnovato, di esperienze vissute con Dio, perché accompagnare è lasciare che lo Spirito parli alla persona che abbiamo davanti anche e soprattutto a partire da ciò che abbiamo vissuto con Dio.

In che modo possiamo far diventare le nostre esperienze un aiuto per gli altri?
Santa Teresa d’Avila, riflettendo sulle proprie e riportandole nei suoi scritti, la fa diventare un messaggio a disposizione di chi sta vivendo una situazione analoga alla sua.
Vivere, pregare, capire, scrivere; e, a distanza di tempo, ritornare sul proprio vissuto, comprenderlo più a fondo con una visione fattasi ora globale, infine oggettivarlo in un testo metodologico per farlo diventare un contenuto, uno strumento del nostro accompagnare. In questo percorso, l’esperienza entra a far parte del proprio essere come lezione di vita e da qui emerge come aiuto nell’ambito dell’accompagnamento.
E’ un percorso che ogni accompagnatore Kaire è chiamato a fare e rifare con le proprie esperienze. L’accompagnamento non è soltanto applicazione di un metodo, ma relazione viva di un’esperienza che vive con Dio con un’altra che lo sta cercando. E in questa relazione Dio si fa presente prendendo dall’una per donare all’altra.
Al di là della competenza nel metodo (comunque necessaria), egli è dunque in grado di accompagnare in proporzione alla profondità della propria vita spirituale.
L’accompagnatore può allora aver bisogno di essere aiutato a discernere, per poter trasformare le situazioni che sta vivendo in esperienze di vita con Cristo, più che di essere supervisionato nel suo accompagnare, come richiesto da altri percorsi. Nel Kaire, è la consapevolezza e la profondità della vita spirituale dell’accompagnatore a dare la garanzia che il suo accompagnamento sarà improntato dallo stesso Spirito che egli sta vivendo. Se lo Spirito di Cristo è presente nella sua vita, certamente si esprimerà anche nel suo accompagnare. Un consiglio sul modo di accompagnare gli esercitanti gli potrà certamente essere dato su sua richiesta, ma in nessun caso gli verrà imposto un controllo.

Come la legge per il cristiano, così il metodo per l’accompagnatore è un pedagogo, a cui la maturazione spirituale fa seguire una spontaneità nello Spirito Santo che gli deriva dal suo vivere in Cristo. Un metodo è dunque indispensabile per fare i primi passi, ma poi l’accompagnatore deve muoversi in ascolto dello Spirito.

“Quell’eccezionale comunicatore che fu l’apostolo Paolo ci offre una lezione che va proprio al centro del problema “come parlare di Dio” con grande semplicità. Nella Prima Lettera ai Corinzi scrive: «Quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (2, 1-2). Paolo non parla di una filosofia che lui ha sviluppato, non parla di idee che ha trovato altrove o inventato, ma parla di una realtà della sua vita, parla del Dio che è entrato nella sua vita, parla di un Dio reale che vive, ha parlato con lui e parlerà con noi, parla del Cristo crocifisso e risorto. Comunicare la fede, per san Paolo, significa dire apertamente e pubblicamente quello che ha visto e sentito nell’incontro con Cristo, quanto ha sperimentato nella sua esistenza ormai trasformata da quell’incontro: è portare quel Gesù che sente presente in sé ed è diventato il vero orientamento della sua vita, per far capire a tutti che Egli è necessario per il mondo ed è decisivo per la libertà di ogni uomo” (Benedetto XVI°, udienza 28.11.2012).

Settembre 2004. Nei miei esercizi a Capiago emerge con forza la necessità che quel che trasmetto agli altri nasca dalla mia esperienza di Dio vissuta nel quotidiano della mia realtà di laico: “Il dono che il Signore mi ha dato -di aiutare le persone ad incontrarlo- mi sento chiamato a viverlo a partire dalle esperienze che Lui mi fa fare. E, in quanto laico, soprattutto a partire dal mio vivere con Lui le mie esperienze in famiglia, nel lavoro, nella società. E’ come se mi dicesse: «Sii per gli altri a partire da quel che tu vivi con me. Non un ripetitore, ma uno che vive con me; e da qui  aiuta gli altri a vivere con me»”.


Il secondo pilastro:
aiutare a vivere nell’Amore

“Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa”
Is 43, 19

Il coinvolgermi fino in fondo nella vita delle persone che accompagno ha significato l’affrontare problemi che vedevo bloccarne il cammino spirituale, che causavano in loro difficoltà di relazione non superabili con una semplice scelta di adesione ai criteri di Cristo, in cui il semplice impegno non era cioè sufficiente. In questo, la psicologia mi è d’aiuto nel capire dove si colloca il problema. Ne è nato un modo di accompagnare spiritualmente che aiuta le persone ad entrare con Cristo nei propri “inferi” perché Egli possa guarire le ferite che continuano a condizionare i loro comportamenti.

25.1.2002. Mentre io pregavo per la ragazza bulimica che sto accompagnando, il Signore agiva in lei: ha vissuto queste due settimane come un canto d’amore che Dio le rivolgeva attraverso tutte le cose, le relazioni, se stessa, che riscopriva come un dono per sé, di cui solo ora si accorgeva. Questo le ha dato una serenità interiore tale che il suo problema non si è più presentato. Ripensandoci, mi ha detto: «Hai proprio ragione: i problemi non si risolvono, ma si dissolvono». Nel sentirsi profondamente amata da Dio, al problema sono state tolte le radici.
Mentre l’ascoltavo, si faceva largo dentro di me la gioia per la conferma di vedere che Dio guarisce: valeva ben la pena di attendere nella fede la sua manifestazione, di accogliere la malattia come luogo in cui questa manifestazione si preparava. Ricorrendo allo psicologo, come mi suggeriva chi considera psicologia e spiritualità come ambiti strettamente separati, e questo in una situazione in cui Dio stava operando (una situazione in crescita, non una situazione bloccata, in cui quindi lo psicologo sarebbe stato necessario, anzi strumento di Dio), l’avrei privata di quell’esperienza di Dio liberatore che sarà d’ora in poi fondamento della sua fede, un’esperienza a cui potrà ritornare quando in futuro il problema si ripresentasse. La guarigione interiore: non l'unico, ma certo un passo importantissimo in un cammino di salvezza.

Qual è l’approccio integrato proposto dal Kaire? Quello che passa attraverso il “rifare il look agli archetipi”, ovvero aiutare la persona a vivere con Dio (madre e padre, appartenente dunque allo stesso archetipo dei genitori carnali) un’esperienza di amore gratuito, per diventare capace di amare, che va a sostituire quella di amore malato che l’ha portata a modi di agire e reagire malati.

Vivere nello Spirito di Cristo è il percorso su cui far camminare l’esercitante, perché in Cristo troviamo vissuto in pienezza quell’amore che la nostra anima desidera per vivere in pienezza. Ma il nostro punto di  partenza, l’esperienza delle relazioni in cui siamo cresciuti e viviamo è spesso ben lontana da un amore vissuto così. E’ evidente che non possiamo darci ciò che non conosciamo. Non possiamo guarire dalle ferite che ci portiamo dentro rimanendo all’interno del sistema di riferimento che ci ha fatto ammalare, utilizzando le soluzioni che esso ci offre; se avessimo potuto farlo, l’avremmo già fatto! C’è bisogno di Altro e di Oltre. C’è bisogno di un’esperienza di amore gratuito, incondizionato.
Il problema nato nell’ambito di una relazione malata può essere superato solo con l’esperienza di una relazione sana, che coinvolga tutte le dimensioni dell’uomo: intelligenza, affettività, corporeità. Un’esperienza che nella sua misura più completa possiamo trovare soltanto nell’Amore stesso, in Dio. Al centro, dunque, va messo Dio: l’Amore che ci dà la possibilità di essere amati e la capacità di amare. Tutto il resto, tutto ciò che aumenta il nostro benessere e che altre esperienze propongono, può essere positivo contributo a questo, ma mai il centro: solo nell’amore troviamo salvezza.
Nell'uomo, sofferenze devastanti e gioie profonde, problemi che si trascinano nell'oggi e realizzazioni che durano nel tempo trovano tutte origine nella sua possibilità di essere amato e nella sua capacità di amare. L'Amore è origine e senso della Vita. E in Gesù Cristo è diventato vita vissuta. IncontrarLo, vivere nel suo Spirito è via a quella vita in pienezza -nella gioia, nella pace, nella libertà interiore- che solo possiamo trovare nell'Amore.
Vivere in Lui è dunque la salvezza e il frutto di ogni accompagnamento spirituale.

Ottobre 2001. Durante una cena col gruppo con cui abbiamo terminato gli esercizi tre anni fa, chiedo cosa è rimasto loro di questa esperienza. Tutti mi rispondono: il senso di una Presenza che mi dà luce e forza nell’affrontare la vita.

“La vita dello Spirito non si sovrappone mai alla nostra psicologia, ma fa interamente corpo con essa. Questo dato di fatto scaturisce anche, a un livello ancora più profondo, dall’unione sostanziale tra il Verbo e la natura umana, unione che si è verificata nell’incarnazione. E’ l’uomo tutt’intero, nella totalità della sua umanità e quindi della sua psicologia, che è stato assunto dal Verbo. Conseguenza di tale principio teologico è che la vita divina, di cui siamo partecipi in forza della nostra incorporazione a Cristo nel nostro battesimo, non può essere isolata dalla nostra psicologia” (André Louf in “Generati dallo Spirito).


Il terzo pilastro:
attivare la potenza della speranza attraverso la fede nella Risurrezione

“Tutto quel che domandate nella preghiera,
abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato”

Mc 11, 24


Potrebbe sembrare che aiutare a vivere nell’Amore, partendo dalla propria esperienza di vita nell’Amore, sia già tutto! Eppure non basta. Ci sono delle situazioni che ci sconvolgono, noi e le persone che accompagniamo, in cui tutto il nostro essere e fare ci sembrano assolutamente impotenti rispetto a ciò che ci sta succedendo. Possiamo però ancora fare una cosa: essere gli amici della speranza. Se l’amore è il senso della vita, anche ciò che stiamo vivendo nasconde un senso in una prospettiva che dobbiamo scoprire e costruire per continuare a Vivere. E il passo che possiamo e siamo chiamati a fare per camminare in questa direzione è semplicemente e impossibilmente vivere con fede la nostra speranza, quella che sentiamo che l’Amore ci mette nel cuore. Credi nel tuo desiderio e comincia a viverlo. D’accordo, forse è incredibile, assurdo, ma tu vivi come se il tuo desiderio fosse già realizzato e gusta la gioia di averlo ottenuto. Il tuo cambiamento scelto cambierà le cose dentro di te e attorno a te, come la Vita deciderà essere meglio per te e per gli altri. Cambia il tuo atteggiamento nei confronti della vita per darle un senso nell’Amore e la vita cambierà. Vivi allora la disgrazia, la difficoltà, il problema come un’occasione nella tua vita perché tutto possa cambiare, per passare dalla croce alla risurrezione. Attraverso il tuo “Kaire!” trasforma il problema in un “kairòs”. Scegli di essere protagonista del cambiamento e rallegratene (Kaire!) con Dio: diventerai il creatore della tua vita. Accompagnare significa allora rendere la persona protagonista con Dio del cambiamento nella propria vita.

Teologicamente, lo specifico del Kaire è quello di assumere come salvifica la dimensione pasquale dell’esistenza umana. A partire dall’ultima beatitudine (“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” Mt 5, 11-12), desumiamo una promessa: ogni morte sfocia in una risurrezione quando vissuta nello Spirito del Cristo (nella fede, nella speranza, nell’amore). Rallegrarsi è un atto di fede radicale in questa promessa. E’ esprimere, in qualsiasi situazione, la fede che Dio è con noi e ci dà il suo Spirito per trasformarla in un bene. E’ vivere portando lo sguardo alla risurrezione quando ancora siamo immersi nella morte. Una risurrezione che è trasformazione radicale e inattesa del vivere quotidiano.

                                                                                                            Michele Bortignon