6/14/2013

Il fine dell’accompagnamento spirituale: allacciare la relazione con Dio

Ai nostri giorni, per molti il cristianesimo si è ridotto ad a serie di credenze accompagnate da un rigido moralismo. La pastorale addita i comportamenti da assumere, ma ben raramente li accompagna con una pedagogia che consenta di farli propri, che non sia quella del doverismo, del semplice impegno personale. Pochi sono ancora capaci di attivare una dinamica della grazia per suscitare risposte di fede. Ma è proprio quest’ultimo il campo dell’accompagnamento spirituale, la cui funzione specifica è quella di allacciare la relazione tra la persona e Dio, perché proseguano poi a dialogare e a camminare assieme, loro due da soli.
L’accompagnatore può farlo perché lui per primo è una persona in dialogo e in cammino con Dio, per cui apre in se stesso -nel proprio modo di essere e di relazionarsi con Dio- un luogo in cui la persona che accompagna può cominciare a fare altrettanto, sperimentando via via il proprio personale modo di essere e di relazionarsi con Dio.

A partire da alcuni outputs sull’esperienza appena vissuta da alcune persone che ho accompagnato, provo a desumere cosa è stato importante per loro, cosa le ha aiutate ad allacciare una relazione con Dio.

“Mi hai fatto conoscere un Dio  diverso”.
“E’ stato importante poter parlare di Dio senza schemi”.
“Ho capito che posso personalizzare Dio nella misura in cui lo credo amore”.
“E’ stato un percorso che mi ha portata alle radici del mio sentire”.
A quale Dio sto accompagnando la persona? Le uniche dimensioni certe di Dio è che è “mistero” ed è “amore”.
E’ mistero perché tutti lo avvertiamo, ma nessuno sa dire chi o che cos’è. E' un Dio da scoprire personalmente.
E’ amore perché questa è la dimensione costitutiva del nostro essere: se è l’amore a farci Vivere in pienezza, chi ci ha dato la vita dev’essere Amore.

Accompagnare nel rispetto di questa natura di Dio -mistero e amore- è portare la persona ad amare in dialogo con Colui il cui amare l’ha rivelato figlio dell’Amore (“Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” Gv 13, 34); e, in questo accompagnamento, posso aprirle delle prospettive, mai chiedere obbedienza presumendo di conoscere con quale volto Dio vuole incontrarla in questo momento della sua vita.
Accompagnare è avviare e sostenere una ricerca personale che si dipana in un mistero di cui solo Dio è il Signore. Fuori da ogni schema imposto culturalmente, Dio ridiventa il protagonista della propria autorivelazione e la persona della propria ricerca, ricominciando a dar fiducia a quel sesto senso (la coscienza) che le fa sentire che cosa è vero perché in sintonia con l’Amore.

“Prima conoscevo Dio per sentito dire, ora lo sento”.
Da un Dio “concetto”, passando per una deconcettualizzazione (come accompagnatore posso solo dire che non so chi o che cosa sia Dio), la persona arriva a un Dio “sentito” come qualcosa che agisce dentro di lei: è la scoperta e l’esperienza dello Spirito Santo, il Dio “intimior intimi mei”, Colui che ri-cor-da il Cristo e lo attualizza nella vita della persona per renderla pienamente figlia del Padre e trasformarne così l’esistenza in Vita. Non è questa la salvezza?

“Hai saputo esserci quando ne avevo bisogno e non esserci quando avevo bisogno di provare da sola”.
“Mi sono sentita scelta da Dio attraverso di te”.
“Mi hai insegnato l’amore gratuito”.
Accompagnare non è tecnica, ma contemplazione: entrare in Dio e lasciarlo essere attraverso di me. Mi occupo, ma non mi preoccupo, perché so che, con i suoi tempi e nei suoi modi, Dio opera… irresistibilmente su chi si è aperto a Lui.
Come Dio, anche l’accompagnatore spirituale crea ritirandosi; semina, ma rispetta il mistero del germogliare; mostra, indica, illumina, ma sa che poi è la fiducia la più grande spinta in avanti. Insegna con le parole, ma sa che l’altro impara non tanto ciò che ha ascoltato da lui, ma ciò che ha sentito vibrare in lui vedendolo espresso nel suo modio di essere, di agire e di reagire.

“Hai reso semplice un percorso di riscoperta dei Padri della Chiesa”.
Perché la gente va in cerca di religioni orientali o di “americanate” pseudo-psicologiche?
Abbiamo un patrimonio di sapienza umana e spirituale maturata “col sangue” da grandi testimoni della fede, che può aprirci concrete prospettive per la nostra vita se solo sappiamo comprenderla e attualizzarla. Ma abbiamo confinato i tesori della nostra tradizione in scaffali polverosi e ci alimentiamo di banalità che non ci nutrono affatto.
Ridare la parola ai maestri dello Spirito, tornare a comprenderne il messaggio e renderlo nuovamente incisivo per la nostra crescita umana in Cristo: ecco un’altra sfida che attende l’accompagnamento spirituale.

Per concludere, nessuna ricetta, ma una constatazione derivante dall’esperienza: «Per accompagnare a Cristo non preoccuparti di tecniche e di conoscenze. Pensa solo ad essere in Lui e ad amare con Lui: pianterai nel cuore di chi ami il seme di ciò che Lui è».

                                                                                               Michele Bortignon



6/06/2013

Quale pedagogia per l’accompagnamento spirituale? La prospettiva di San Paolo

Prima o poi nella storia di ciascuno arriva un momento in cui si comincia a sentire che le cose non possono più continuare ad andare avanti così. E, se siamo sufficientemente maturi, anziché scappare dai problemi che la situazione ci pone o chiedere solo agli altri di cambiare, siamo disponibili a prendercene la responsabilità e cercare di fare qualcosa rimettendo in discussione innanzitutto noi stessi. E’ questo il punto di partenza di qualsiasi percorso di cambiamento personale ed è a persone in questa situazione che si rivolge san Paolo annunciando il suo Vangelo. Ed è questa anche la situazione iniziale di un accompagnamento spirituale con probabilità di riuscita perché motivato da una speranza e fondato su una disponibilità.
Il Vangelo si pone dunque come apertura di una prospettiva di fronte a un’esigenza di cambiamento; ed è appunto Vangelo, ossia “buona notizia”, perché fa una promessa: seguendo questa strada la tua situazione cambierà in meglio.

Nelle sue lettere, Paolo evidenzia con particolare forza il contenuto del Vangelo che egli annuncia, il Vangelo della Grazia, contrapponendolo a quello su cui precedentemente egli aveva fondato la propria vita e che ha constatato averlo però portato ad un fallimento esistenziale: il Vangelo della Legge.

Come evidenziato prima, un Vangelo deve rispondere a questa domanda: «Cosa posso fare di fronte al disastro che mi trovo a vivere?».
«Recupera la perfezione!», dice il Vangelo della legge. «Ti do io la ricetta. Segui le regole che ti prescrivo». Una legge: questa è la soluzione. Una legge a cui attenersi. Se adempio perfettamente alla legge, la mia situazione sarà perfetta.
Perché questo rigido inquadramento del comportamento umano in prima battuta viene avvertito come Vangelo, ossia come notizia liberante? Perché dà sollievo: seguire le regole di comportamento che mi dà qualcun altro mi esime dal pensare e dal prendermi delle responsabilità. Basta solo obbedire a quanto mi viene detto. Abdico al dovere umanizzante dell’agire morale e mi viene assegnato il premio di consolazione dell’umiltà.
Rimanendo nell’orizzonte della legge, alla lunga faccio però esperienza che in esso non c’è Vita. Anch’io, come Cristo, sconto le conseguenze della legge: vengo crocifisso, soffocato, annullato in ciò che sono dall’osservanza delle regole non solo quando queste non si attagliano alle esigenze della situazione che sto vivendo, ma anche quando questa osservanza è travolta dall’ansia del perfezionismo nel corrispondere perfettamente al dettato della legge e dagli scrupoli che mi assalgono nel timore di non avervi perfettamente corrisposto.
Infine, seguendo il Vangelo della legge perdo l’essenziale: l’occasione di ascoltare Dio che, attraverso le mozioni dello Spirito, vuole comunicarsi a me per essere attraverso di me. La relazione di comunione con Dio, infatti, non è importante solo per me, per il respiro d’infinito che mi dà il rapporto col mistero, per l’orizzonte di pienezza che mi apre l’essere in relazione con la fonte della Vita, ma soprattutto per dare anche all’esistenza che si svolge attorno a me la possibilità di essere Vita: solo se sono in relazione con l’Amore, la mia giustizia, la mia bontà è vera; altrimenti è qualcosa che costruisco io deducendone le modalità dal mio limitato angolo di visuale sulla vita.

Questa relazione con un Dio che è Amore è il Vangelo che Paolo annuncia come salvezza da lui personalmente sperimentata: non la perfezione dei comportamenti rende giusti, non aver risolto i problemi della vita dà pace, ma il sentirsi avvolti dall’amore di un Dio che ti raggiunge dove sei e con Sé ti porta a diventare quello che puoi essere. Una relazione che non è l’uomo a costruire (ancora una volta sarebbe lui a definire che cos’è l’Amore sulla base della propria limitata esperienza della vita), ma può solo accorgersene, scoprirla, accoglierla.
In che modo Paolo vede manifestarsi l’amore di Dio nella propria vita?
“Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti,…” Gal 1, 15-16):

  • Dio mi ha scelto: ha voluto che io ci fossi
  •  Dio mi ha chiamato con la sua grazia: nelle vicende della storia faccio esperienza dell’amore, ricevuto e donato, e mi accorgo che esso non è semplicemente un’azione dell’uomo, ma uno Spirito: un qualcosa che mi coinvolge e mi fa essere Sé.
  • Dio ha rivelato in me il figlio suo: mi ha mostrato che l’amore è anche dentro di me, come parte costitutiva del mio essere.

La risposta dell’uomo a questo amore gratuito di Dio è la fede, che si esprime

in chiave di comprensione della vita (fides quae). Dentro di noi sentiamo che c’è una connaturalità con l’Amore perché il nostro cuore ne grida il desiderio, il bisogno, sentiamo che da lì proveniamo e lì vogliamo tornare a vivere. Siamo fatti della stessa pasta dell’Amore, ce ne riconosciamo figli: “E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” (Gal 4, 6-7).
Credo dunque che fondamento del mio essere è l’amore. Oggetto del mio credere è dunque l’essere figlio di un Dio la cui essenza è l’amore e che si manifesta come Amore (eminentemente in Cristo). Dal momento che condivido l’essenza di questo Dio-Amore, io sono suo figlio. E, se sono figlio di questo Padre, niente e nessuno potrà separarmi dal suo amore, nemmeno io con la mia autocondanna: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32 Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? 33 Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. 34 Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? 35 Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 37 Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38 Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39 né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 31-39).

in atteggiamenti (fides qua): l’amore suscita in me una risposta d’amore. Non c’è doverismo, non ho bisogno di impormelo valutandone l’opportunità: la bellezza del vivere l’amore sentendomene oggetto trabocca in me rendendomi soggetto, protagonista d’amore, con altrettanta gratuità.
A volte la mia fragilità mi riporterà a cadere (“…noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri…” Gal 2, 17): essere giusto non significa non peccare, ma vivere in relazione con l’Amore, che mi rende amore: giusto per osmosi di ciò che Egli è, perché sono innamorato dell’amore. Giustizia non è perfezione, ma relazione. Essere giusti non è, dunque, uno stato, ma una tendenza: la perseveranza di camminare con Dio confidando più in ciò che Lui riuscirà a fare in me stando con me che non nelle mie capacità  (“…mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” Gal 2, 17-20).

C’è dunque un Vangelo della Grazia e un Vangelo della legge: due prospettive assolutamente contrapposte tra le quali l’uomo deve scegliere. Nell’una la mia salvezza, la pienezza della vita me la costruisco io compiendo le opere che la legge mi prescrive, nell’altra l’accolgo, semplicemente entrando nella relazione che Cristo mi propone di vivere con Sé lasciandomi portare dal suo Spirito, che in questa relazione tra Lui e me si comunica per osmosi affettiva. Paolo, che ha vissuto entrambe queste prospettive, può concludere: “L'uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo” (Gal 2, 15).
E questa fede, questa relazione d’amore con Dio produrrà frutto, il frutto dello Spirito: Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Le opere le fa l’uomo con il proprio impegno, seguendo un proprio progetto; i frutti li produce Dio attraverso l’uomo.

A cosa serve allora la legge? “La Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3, 24-27). Obbedire alla legge non è obbedire a Dio. Obbedire a Dio è dare ascolto a una voce interiore che è formata, ma non determinata, dalla legge. Per rivestirsi di Cristo, per diventare Amore occorre essere stati battezzati in Lui: aver fatto la sua stessa esperienza di morte e risurrezione, vivendo la situazione che ci uccide con il suo Spirito: con fede, con speranza, con amore. Solo allora si ama. Solo allora si conosce per esperienza che amare dà Vita.

Darsi come prospettiva la gratuità dell’amore anziché l’osservanza delle regole significa che non ci sono più regole? Non c’è il rischio che la libertà acquisita si trasformi in arbitrio?
Prescindere dalle regole non significa non avere regole, ma che queste nascono dall’interno, come esigenza intrinseca di un amore vissuto in pienezza; non vengono imposte dall’esterno, con il rischio di non essere adatte alla situazione che sto vivendo. E così non mi schiavizzano, non mi opprimono, ma me ne servo, le uso per il mio scopo: vivere sempre meglio il mio mondo di relazioni. Vale anche per la legge il proverbio “Pecunia, si uti scis ancilla, si nescis, domina”.
La libertà “da” è solo il prodromo di una libertà “per”: un’assunzione di responsabilità per un progetto di vita. Un progetto che Paolo addita in Gesù: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1, 21).

“Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,16): se rimanete in relazione con Cristo, se vivete nel suo amore, se vivete il suo amore, non vi verrà il dubbio se siete o no salvati, perché sarete già nella vita in pienezza, e quindi non cercherete giustificazione nelle regole né vita nella soddisfazione dell’istintività. Vivete in relazione con Dio, dove troverete quell’amore, quella stima e quella sicurezza che soddisfa i vostri bisogni, rendendo inutile cercarli altrove.

                                                                                                     Michele Bortignon