Prima
o poi nella storia di ciascuno arriva un momento in cui si comincia a sentire
che le cose non possono più continuare ad andare avanti così. E, se siamo
sufficientemente maturi, anziché scappare dai problemi che la situazione ci
pone o chiedere solo agli altri di cambiare, siamo disponibili a prendercene la
responsabilità e cercare di fare qualcosa rimettendo in discussione
innanzitutto noi stessi. E’ questo il punto di partenza di qualsiasi percorso
di cambiamento personale ed è a persone in questa situazione che si rivolge san
Paolo annunciando il suo Vangelo. Ed è questa anche la situazione iniziale di
un accompagnamento spirituale con probabilità di riuscita perché motivato da
una speranza e fondato su una disponibilità.
Il
Vangelo si pone dunque come apertura di una prospettiva di fronte a un’esigenza
di cambiamento; ed è appunto Vangelo, ossia “buona notizia”, perché fa una
promessa: seguendo questa strada la tua situazione cambierà in meglio.
Nelle
sue lettere, Paolo evidenzia con particolare forza il contenuto del Vangelo che
egli annuncia, il Vangelo della Grazia, contrapponendolo a quello su cui
precedentemente egli aveva fondato la propria vita e che ha constatato averlo
però portato ad un fallimento esistenziale: il Vangelo della Legge.
Come
evidenziato prima, un Vangelo deve rispondere a questa domanda: «Cosa posso
fare di fronte al disastro che mi trovo a vivere?».
«Recupera
la perfezione!», dice il Vangelo della legge. «Ti do io la ricetta. Segui le
regole che ti prescrivo». Una legge: questa è la soluzione. Una legge a cui
attenersi. Se adempio perfettamente alla legge, la mia situazione sarà
perfetta.
Perché
questo rigido inquadramento del comportamento umano in prima battuta viene
avvertito come Vangelo, ossia come notizia liberante? Perché dà sollievo:
seguire le regole di comportamento che mi dà qualcun altro mi esime dal pensare
e dal prendermi delle responsabilità. Basta solo obbedire a quanto mi viene detto.
Abdico al dovere umanizzante dell’agire morale e mi viene assegnato il premio
di consolazione dell’umiltà.
Rimanendo
nell’orizzonte della legge, alla lunga faccio però esperienza che in esso non
c’è Vita. Anch’io, come Cristo, sconto le conseguenze della legge: vengo
crocifisso, soffocato, annullato in ciò che sono dall’osservanza delle regole
non solo quando queste non si attagliano alle esigenze della situazione che sto
vivendo, ma anche quando questa osservanza è travolta dall’ansia del perfezionismo
nel corrispondere perfettamente al dettato della legge e dagli scrupoli che mi
assalgono nel timore di non avervi perfettamente corrisposto.
Infine,
seguendo il Vangelo della legge perdo l’essenziale: l’occasione di ascoltare
Dio che, attraverso le mozioni dello Spirito, vuole comunicarsi a me per essere
attraverso di me. La relazione di comunione con Dio, infatti, non è importante
solo per me, per il respiro d’infinito che mi dà il rapporto col mistero, per
l’orizzonte di pienezza che mi apre l’essere in relazione con la fonte della
Vita, ma soprattutto per dare anche all’esistenza che si svolge attorno a me la
possibilità di essere Vita: solo se sono in relazione con l’Amore, la mia
giustizia, la mia bontà è vera; altrimenti è qualcosa che costruisco io
deducendone le modalità dal mio limitato angolo di visuale sulla vita.
Questa
relazione con un Dio che è Amore è il Vangelo che Paolo annuncia come salvezza
da lui personalmente sperimentata: non la perfezione dei comportamenti rende
giusti, non aver risolto i problemi della vita dà pace, ma il sentirsi avvolti
dall’amore di un Dio che ti raggiunge dove sei e con Sé ti porta a diventare
quello che puoi essere. Una relazione che non è l’uomo a costruire (ancora una
volta sarebbe lui a definire che cos’è l’Amore sulla base della propria
limitata esperienza della vita), ma può solo accorgersene, scoprirla,
accoglierla.
In
che modo Paolo vede manifestarsi l’amore di Dio nella propria vita?
“Dio,
che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si
compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo
alle genti,…” Gal 1, 15-16):
- Dio
mi ha scelto: ha voluto che io ci fossi
- Dio
mi ha chiamato con la sua grazia: nelle vicende della storia faccio
esperienza dell’amore, ricevuto e donato, e mi accorgo che esso non è
semplicemente un’azione dell’uomo, ma uno Spirito: un qualcosa che mi coinvolge
e mi fa essere Sé.
- Dio
ha rivelato in me il figlio suo: mi ha mostrato che l’amore è anche dentro
di me, come parte costitutiva del mio essere.
La
risposta dell’uomo a questo amore gratuito di Dio è la fede, che si esprime
in
chiave di comprensione della vita (fides quae). Dentro di noi sentiamo che
c’è una connaturalità con l’Amore perché il nostro cuore ne grida il desiderio,
il bisogno, sentiamo che da lì proveniamo e lì vogliamo tornare a vivere. Siamo
fatti della stessa pasta dell’Amore, ce ne riconosciamo figli: “E che voi
siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo
Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma
figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” (Gal 4, 6-7).
Credo
dunque che fondamento del mio essere è l’amore. Oggetto del mio credere è
dunque l’essere figlio di un Dio la cui essenza è l’amore e che si manifesta
come Amore (eminentemente in Cristo). Dal momento che condivido l’essenza di
questo Dio-Amore, io sono suo figlio. E, se sono figlio di questo Padre, niente
e nessuno potrà separarmi dal suo amore, nemmeno io con la mia autocondanna: “Se Dio è per noi, chi sarà contro
di noi? 32 Egli che non ha risparmiato il
proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa
insieme con lui? 33 Chi accuserà gli eletti di Dio?
Dio giustifica. 34 Chi condannerà? Cristo Gesù, che è
morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? 35 Chi ci separerà dunque dall'amore
di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la
nudità, il pericolo, la spada? 37 Ma in tutte queste cose noi siamo
più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38 Io sono infatti persuaso che né
morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39 né potenze, né altezza né
profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in
Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 31-39).
in
atteggiamenti (fides qua): l’amore suscita in me una risposta d’amore. Non
c’è doverismo, non ho bisogno di impormelo valutandone l’opportunità: la
bellezza del vivere l’amore sentendomene oggetto trabocca in me rendendomi
soggetto, protagonista d’amore, con altrettanta gratuità.
A
volte la mia fragilità mi riporterà a cadere (“…noi che cerchiamo la
giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri…” Gal 2, 17):
essere giusto non significa non peccare, ma vivere in relazione con l’Amore,
che mi rende amore: giusto per osmosi di ciò che Egli è, perché sono innamorato
dell’amore. Giustizia non è perfezione, ma relazione. Essere giusti non è,
dunque, uno stato, ma una tendenza: la perseveranza di camminare con Dio
confidando più in ciò che Lui riuscirà a fare in me stando con me che non nelle
mie capacità (“…mediante la Legge io
sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con
Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io
vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha
consegnato se stesso per me” Gal 2, 17-20).
C’è
dunque un Vangelo della Grazia e un Vangelo della legge: due prospettive
assolutamente contrapposte tra le quali l’uomo deve scegliere. Nell’una la mia
salvezza, la pienezza della vita me la costruisco io compiendo le opere che la
legge mi prescrive, nell’altra l’accolgo, semplicemente entrando nella
relazione che Cristo mi propone di vivere con Sé lasciandomi portare dal suo
Spirito, che in questa relazione tra Lui e me si comunica per osmosi affettiva.
Paolo, che ha vissuto entrambe queste prospettive, può concludere: “L'uomo
non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in
Gesù Cristo” (Gal 2, 15).
E
questa fede, questa relazione d’amore con Dio produrrà frutto, il frutto dello
Spirito: “Il frutto
dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà,
fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Le opere le fa l’uomo con il proprio impegno, seguendo un
proprio progetto; i frutti li produce Dio attraverso l’uomo.
A
cosa serve allora la legge? “La Legge è stata per noi un pedagogo, fino a
Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non
siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante
la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in
Cristo vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3, 24-27). Obbedire alla legge
non è obbedire a Dio. Obbedire a Dio è dare ascolto a una voce interiore che è
formata, ma non determinata, dalla legge. Per rivestirsi di Cristo, per
diventare Amore occorre essere stati battezzati in Lui: aver fatto la sua
stessa esperienza di morte e risurrezione, vivendo la situazione che ci uccide
con il suo Spirito: con fede, con speranza, con amore. Solo allora si ama. Solo
allora si conosce per esperienza che amare dà Vita.
Darsi
come prospettiva la gratuità dell’amore anziché l’osservanza delle regole significa
che non ci sono più regole? Non c’è il rischio che la libertà acquisita si
trasformi in arbitrio?
Prescindere
dalle regole non significa non avere regole, ma che queste nascono
dall’interno, come esigenza intrinseca di un amore vissuto in pienezza; non
vengono imposte dall’esterno, con il rischio di non essere adatte alla
situazione che sto vivendo. E così non mi schiavizzano, non mi opprimono, ma me
ne servo, le uso per il mio scopo: vivere sempre meglio il mio mondo di
relazioni. Vale anche per la legge il proverbio “Pecunia, si uti scis ancilla,
si nescis, domina”.
La
libertà “da” è solo il prodromo di una libertà “per”: un’assunzione di
responsabilità per un progetto di vita. Un progetto che Paolo addita in Gesù: “Per
me vivere è Cristo” (Fil 1, 21).
“Vi dico dunque: camminate
secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne”
(Gal 5,16): se rimanete in relazione con Cristo, se vivete nel suo amore, se
vivete il suo amore, non vi verrà il dubbio se siete o no salvati, perché
sarete già nella vita in pienezza, e quindi non cercherete giustificazione
nelle regole né vita nella soddisfazione dell’istintività. Vivete in relazione
con Dio, dove troverete quell’amore, quella stima e quella sicurezza che
soddisfa i vostri bisogni, rendendo inutile cercarli altrove.
Michele Bortignon