A metà strada per la cima del Bondone, su una tabella di legno qualcuno ha scritto con
lo spray “At the end, every thing is good. If it's not
good, it's not the end” (Alla fine, tutto è bene. E se non è bene, non è la fine).
Geniale! In una frase, il senso della vita: non un errore scappato alle
mani del Creatore, ma una sfida lanciata con fiducia a chi Egli ha messo nella
vita come occasione per trasformarla, a propria volta, in qualcosa di bello.
Nelle
situazioni disperanti, apparentemente senza uscita, questa sfida è più forte,
ma non senza prospettive. “Se continuerai a fare quel che hai sempre fatto,
continuerai a ottenere quel che hai sempre ottenuto”, dice un proverbio. La
risposta a questa sfida è, dunque, riconoscere che, forse, c'è un altro modo
rispetto a quello che io considero normale, di buon senso. E' la risposta della
fede: non so, quindi mi metto in ascolto, cerco, mi apro a una prospettiva
“altra”. Vivere nello Spirito di Cristo - nella fede, nella speranza,
nell'amore - è via alla risurrezione.
Questo lo sappiamo, lo crediamo, lo sperimentiamo. Ma se la situazione è
talmente complicata che nemmeno sappiamo da che parte cominciare, forse un’apertura
di prospettiva nella direzione giusta può cominciare a orientarci. Proviamo
allora questi tre passi.
Il
primo passo è provare a disseminare la giornata di isole felici. E' possibile.
Non dobbiamo permettere che il nostro male occupi tutto il nostro orizzonte.
C'è
un esercizio per non lasciarsi rubare la speranza: ogni mattina proponiti un
gesto positivo e ottimista (un saluto caloroso, un complimento, un sorriso, un
abbraccio) verso una persona che incontri nella tua giornata; e, alla sera,
accorgiti di qualcosa di bello che hai vissuto durante la giornata (un grazie,
un sorriso, un complimento). I primi sono i semi che getti, i secondi i frutti
che raccogli.
Questo
esercizio permette di recuperare uno sguardo più positivo sulla realtà e, con
esso, quel minimo di serenità indispensabile per provare a guardare la
situazione da un altro punto di vista: come occasione di una novità che,
spontaneamente, non riusciremmo a considerare. Trovarla ci obbliga ad aprirci
agli inputs che possono venirci dagli altri, ai quali chiedere un consiglio,
dalle Scritture lette nella preghiera, dalle strutture sociali deputate a un
aiuto specifico. E’ questo, come si diceva all’inizio, il secondo passo:
accogliere la sfida che la nostra difficile situazione ci porge, per trasformarla,
con la nostra creatività in qualcosa di buono o, perlomeno, di sostenibile.
Fin
qui, però, è sopravvivere, e non ancora dare un senso a ciò che ci sta
succedendo. Forse, ciò che ci è dato di vivere prende senso nel momento in cui
diventa un'esperienza che arricchisce la nostra vita e quella degli altri. Ecco
che, allora, il terzo passo è quello di trasformare la nostra esperienza
dolorosa in un talento da mettere a disposizione degli altri (a cominciare da
chi ci vive accanto): mentre guarisco, aiuto a guarire; mentre mi consolido,
aiuto altri a diventare più solidi.
Mi
accorgerò allora che proprio quelle ferite che odio per il dolore che mi
procurano diventano gloriose, dispensatrici di grazia, aperture attraverso le
quali Dio può passare per incontrare altri nelle loro ferite. E il bene che
faccio agli altri ritorna su di me: mentre aiuto a guarire, guarisco più a
fondo; mentre aiuto altri a diventare più solidi, aumento la mia solidità.
Potremmo
riassumere così i tre passi:
- non c’è solo dolore nella mia
vita;
- il mio dolore è una sfida per una
novità di vita;
- il mio dolore è un talento da
mettere a frutto.
Se
osserviamo bene, questi tre passi hanno un denominatore comune, un atteggiamento
che li accomuna: reagire. Ed effettivamente notiamo che di fronte alle
difficoltà ci sono persone che si impaludano nella lamentela, nel brontolamento
e nella depressione, fino ad arrivare anche alla disperazione, ed altre che -
certo come possono! – reagiscono e si avviano verso una prospettiva diversa.
Perché
non è un atteggiamento normale quello di reagire? Perché bisogna rinunciare
alla piacevolezza del vittimismo: quanto è consolante sentirsi incompresi,
vittime del destino o della cattiveria altrui! Reagire significherebbe
intraprendere la scomoda strada del cambiamento personale, ammettendo che
anch’io ho avuto una parte nel creare questa situazione e che, comunque,
dipende anche da me – e non solo dagli altri – cambiarla.
Come
dice Richard Bach in una frase che mi piace, “Se non è mai colpa nostra, non possiamo assumerci la responsabilità
per qualcosa. Se non possiamo assumerci la responsabilità per qualcosa, saremo
sempre la sua vittima”.
Michele Bortignon