9/25/2014

Tre passi per dare senso alle situazioni impossibili

A metà strada per la cima del Bondone, su una tabella di legno qualcuno ha scritto con lo spray “At the end, every thing is good.
If it's not good, it's not the end” (Alla fine, tutto è bene. E se non è bene, non è la fine).  Geniale! In una frase, il senso della vita: non un errore scappato alle mani del Creatore, ma una sfida lanciata con fiducia a chi Egli ha messo nella vita come occasione per trasformarla, a propria volta, in qualcosa di bello.
Nelle situazioni disperanti, apparentemente senza uscita, questa sfida è più forte, ma non senza prospettive. “Se continuerai a fare quel che hai sempre fatto, continuerai a ottenere quel che hai sempre ottenuto”, dice un proverbio. La risposta a questa sfida è, dunque, riconoscere che, forse, c'è un altro modo rispetto a quello che io considero normale, di buon senso. E' la risposta della fede: non so, quindi mi metto in ascolto, cerco, mi apro a una prospettiva “altra”. Vivere nello Spirito di Cristo - nella fede, nella speranza, nell'amore -  è via alla risurrezione. Questo lo sappiamo, lo crediamo, lo sperimentiamo. Ma se la situazione è talmente complicata che nemmeno sappiamo da che parte cominciare, forse un’apertura di prospettiva nella direzione giusta può cominciare a orientarci. Proviamo allora questi tre passi.

Il primo passo è provare a disseminare la giornata di isole felici. E' possibile. Non dobbiamo permettere che il nostro male occupi tutto il nostro orizzonte.
C'è un esercizio per non lasciarsi rubare la speranza: ogni mattina proponiti un gesto positivo e ottimista (un saluto caloroso, un complimento, un sorriso, un abbraccio) verso una persona che incontri nella tua giornata; e, alla sera, accorgiti di qualcosa di bello che hai vissuto durante la giornata (un grazie, un sorriso, un complimento). I primi sono i semi che getti, i secondi i frutti che raccogli.

Questo esercizio permette di recuperare uno sguardo più positivo sulla realtà e, con esso, quel minimo di serenità indispensabile per provare a guardare la situazione da un altro punto di vista: come occasione di una novità che, spontaneamente, non riusciremmo a considerare. Trovarla ci obbliga ad aprirci agli inputs che possono venirci dagli altri, ai quali chiedere un consiglio, dalle Scritture lette nella preghiera, dalle strutture sociali deputate a un aiuto specifico. E’ questo, come si diceva all’inizio, il secondo passo: accogliere la sfida che la nostra difficile situazione ci porge, per trasformarla, con la nostra creatività in qualcosa di buono o, perlomeno, di sostenibile.

Fin qui, però, è sopravvivere, e non ancora dare un senso a ciò che ci sta succedendo. Forse, ciò che ci è dato di vivere prende senso nel momento in cui diventa un'esperienza che arricchisce la nostra vita e quella degli altri. Ecco che, allora, il terzo passo è quello di trasformare la nostra esperienza dolorosa in un talento da mettere a disposizione degli altri (a cominciare da chi ci vive accanto): mentre guarisco, aiuto a guarire; mentre mi consolido, aiuto altri a diventare più solidi.
Mi accorgerò allora che proprio quelle ferite che odio per il dolore che mi procurano diventano gloriose, dispensatrici di grazia, aperture attraverso le quali Dio può passare per incontrare altri nelle loro ferite. E il bene che faccio agli altri ritorna su di me: mentre aiuto a guarire, guarisco più a fondo; mentre aiuto altri a diventare più solidi, aumento la mia solidità.

Potremmo riassumere così i tre passi:
  1. non c’è solo dolore nella mia vita;
  2. il mio dolore è una sfida per una novità di vita;
  3. il mio dolore è un talento da mettere a frutto.
 Se osserviamo bene, questi tre passi hanno un denominatore comune, un atteggiamento che li accomuna: reagire. Ed effettivamente notiamo che di fronte alle difficoltà ci sono persone che si impaludano nella lamentela, nel brontolamento e nella depressione, fino ad arrivare anche alla disperazione, ed altre che - certo come possono! – reagiscono e si avviano verso una prospettiva diversa.
Perché non è un atteggiamento normale quello di reagire? Perché bisogna rinunciare alla piacevolezza del vittimismo: quanto è consolante sentirsi incompresi, vittime del destino o della cattiveria altrui! Reagire significherebbe intraprendere la scomoda strada del cambiamento personale, ammettendo che anch’io ho avuto una parte nel creare questa situazione e che, comunque, dipende anche da me – e non solo dagli altri – cambiarla.
Come dice Richard Bach in una frase che mi piace, “Se non è mai colpa nostra, non possiamo assumerci la responsabilità per qualcosa. Se non possiamo assumerci la responsabilità per qualcosa, saremo sempre la sua vittima”.
                                                                        Michele Bortignon

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