Ecco, è lo stesso
nell’accompagnamento spirituale: non sei tu che scegli chi accompagnare, ti
vengono affidate delle persone; dal caso? Dalla vita? Da Qualcuno?
Quando ho saputo che quella
persona che iniziava gli esercizi Kaire con me era ammalata di cancro, ammetto
che il primo pensiero che ho avuto e stato: «Oddio, e se muore? Se la devo
accompagnare fino alla fine? Io non lo so fare, non l’ho mai fatto, non so come
si fa, non ne ho la forza e tanto meno il coraggio, non ho neanche la capacità
e la preparazione».
Ho capito solo più tardi che è
come con i figli: si diventa genitori grazie a loro, si cresce e si impara con
loro e il maestro si chiama Amore.
Così è stato, lei ha saputo
sviluppare in me risorse che non sapevo di avere, ha tirato fuori dal mio cuore
e dalla mia fantasia ciò che serviva a lei e a me. Ho capito che, alla fine, a
fare è appunto l’Amore, e che questo è effettivamente una forza che muove le
montagne.
Mi sono trovata a percorrere
corridoi d’ospedale e mi dicevo: «Ma che ci faccio io qui? Non sono neppure
parente e la conosco da così poco!». Eppure mi rendevo conto che per me era ed è
come una figlia e che non avrei voluto né tanto meno potuto essere altrove: il
mio posto era là con lei quando potevo e appena potevo. E, proprio come un
figlio plasma il genitore, lei ha fatto crescere me. Mi trovavo vicino a lei, chi
avevo accompagnata, riversa in un letto di ospedale. Non servivano più né schede,
né esercizi: era l’Amore, la sua stanchezza o capacità di attenzione, o il suo
stato del momento, più o meno presente, a dettare il dialogo giusto, quello che
si doveva fare o dire, ciò di cui c’era bisogno. E le parole spesso erano il
modo di comunicare meno importante e necessario. Ogni volta me ne andavo con il
cuore gonfio, mi sembrava di infliggermi un dolore difficile da sopportare, ma
nello stesso tempo il mio cuore era anche colmo di dolcezza, di pace e della
certezza che l’amore di cui ci facevamo dono reciproco era importante,
necessario. Come l’ossigeno la aiutava a respirare, io potevo essere un po’ di
ossigeno per la sua anima, potevo essere colei che portava speranza. E intanto
cercavo di capire, oppure rinunciavo a capire; cercavo risposte, ma trovavo
solo domande. Interrogavo un Dio che mi rispondeva a modo Suo: non come io
avrei voluto, ma come a me serviva in quel momento.
Ma tutto quello che ho raccontato
sin ora è solo il finale del mio accompagnarla, è solo la soglia della porta
che lei ha aperto per passare oltre. Prima c’è tutto un cammino fatto insieme
quando ancora era a casa, ci sono stati tanti passi verso una consapevolezza
piena e serena di ciò che stava accadendo e che non è mai rassegnazione, ma
lotta e voglia di vivere sino alla fine. C’è stato un “pianificare”, un
preparare insieme che ha contribuito a darle un po’ più di serenità. E anche
allora il mio andare da lei era come dice Gesù “Non procuratevi oro né
argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né
sandali, né bastone.”
(Mt 10,9.10): non c’era bisogno di preparare il dialogo, di portare parole, di sfoderare
frasi fatte, no, nulla di tutto ciò: era l’amore a suggerire, a
costruire il colloquio: si coglieva ciò di cui c’era bisogno.
Dentro di me, allora e fino alla
fine, un dolore a chiudermi lo stomaco, una rabbia che pretendeva di capire il
perché; e poi un affidarmi e un fidarmi di ciò che non capivo. Per me era tutto
insignificante e assurdo… eppure… eppure, ora che è morta, ancora non capisco e
mai troverò risposta a certe domande. Ma ora so e mi sembra di aver capito che alla
fine ciò che resta è solo l’amore: amore dato e amore ricevuto. Non siamo noi
il centro del mondo: facciamo qualche passo nel palcoscenico della vita,
abbiamo la nostra parte che può essere più o meno lunga, più o meno importante.
Ci viene chiesto di fare quei passi danzando con gusto, con passione, con gioia
e con amore. Ci viene data la possibilità di muovere i nostri passi tenendoci
per mano gli uni con gli altri e in quell’intreccio di mani sentire il calore
della mano di Dio.
Ecco, questo è che mi auguro il
Kaire sia riuscito a darti, carissima “figlia” mia.
Giorni in prestito
Vorrei…vorrei
una banca del tempo
che
presti giorni.
Ipotecherei
i miei,
per
darli a te: figlia amica sorella.
Me
li restituirai quando di giorni sarai sazia,
e
non saprai più che fartene di tanta grazia.
Ora
quei giorni li useresti bene,
garantisco io per te: figlia amica sorella.
Li
sapresti spremere come limoni maturi,
li
sapresti gustare e assaporare.
Del
tempo una banca vorrei che presti giorni,
per
te che li sai vivere: figlia amica sorella.
Un
assegno in bianco per te staccherei,
scrivi
tu l’importo: preleva pure tanti giorni miei.
Una
banca vorrei che presti giorni,
ma
non solo a te: figlia amica sorella.
Che
presti giorni a chi, come te, ha voglia di usarli,
di
viverli bene e consumarli.
Vorrei…
vorrei darti giorni miei.
Ma riesco solo a tenerti per mano.
Maria Rosa Brian