12/24/2018

Il Natale di Giuseppe


Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». (Mt 1,19-21)


In questo Natale ci siamo soffermati sulla figura di Giuseppe: un uomo giusto che non agisce, però, solo secondo la legge, ma che sa guardarsi dentro, interrogarsi e agire con amore fidandosi di ciò che gli dice l’Amore. Ecco che il frutto di questa fiducia è un bambino il cui nome, Gesù, significa “colui che salva”.
Pensando all'esperienza di Giuseppe, ci siamo chiesti: “Quando, invece di fermarmi a fare ciò che sembrava giusto, ho fatto come Giuseppe e ho scelto prima di tutto ciò che sentivo essere un bene, alla fine sperimentando che da questo bene è nato un frutto di salvezza?”

Ecco le nostre riflessioni:
Le scelte che partono dal cuore guardano l’altro dritto negli occhi senza chiedersi chi è o che cosa ha fatto. Ecco che, quel giorno al mare, salvare un “vu cumprà” e le sue poche cianfrusaglie da un paio di vigili, ospitandolo sotto il mio ombrellone, mi è sembrata la cosa più naturale: lo rifarei.  Maria Rosa

Giuseppe, un umile falegname, si fida del suo cuore che è ispirato da Dio e agisce! Come quel giorno a una festa: qualcuno, che era arrivato tardi, si sente escluso; io ho cambiato posto riportando la serenità. La pace che ho avvertito è stata grande, più del rimprovero di qualcun altro. Che bello!  Pasqualina

Davanti alla tomba che racchiudeva i resti di suo figlio di appena diciotto mesi, all'infermiere venuto per cercare un po’ di pace confessando il suo errore fatale tenuto nascosto per più di un anno, mio padre disse: “Nostro figlio nessuno lo può più tirar fuori da lì. Se sei qui è perché te ne sei pentito. Va in pace!”. Rinuncia a qualcosa o gran guadagno? Claudio

Di fronte alla proposta avrei potuto dire di no: chi me lo fa fare di andare a riunioni o in tribunale, firmare documenti, conoscere educatori, famiglie, centri di accoglienza...invece ho accettato di diventare tutore volontario per il tribunale minorile, sapendo che nelle varie realtà in cui sono coinvolta tutti agiscono dietro compenso, tranne il tutore (che è appunto volontario!) Ho scelto ciò che sentivo essere un bene per i bambini affidatimi, ciò che nel mio piccolo posso fare.  Katia

Una voce dentro mi diceva che così non andava; però quella -dicevano gli altri- era la "normalità". E non sarei stato umile -dicevano ancora- cambiando. Non potevo essere me stesso... Non ce l'ho fatta da solo: qualcuno mi ha detto "Non temere di...". Ed è nato il Kaire!  Michele

Da sempre Natale è Dio che si fa uomo, non è la tua festa Giuseppe, tu sei uomo di poche parole, ma il tuo silenzio non è vuoto, è spazio per accogliere e meditare Dio; lo stesso Dio che mi ha chiesto di andare in direzione contraria alle mie certezze per farmi prossimo e portare la Sua presenza all’interno della comunità. Enrico

Oggi è domenica e non sono andato a messa! Il mattino ho lavorato, il pomeriggio ho atteso mio figlio al ritorno dall'università e alla fine abbiamo trascorso alcune ore insieme, forse andando a messa avrei fatto una cosa giusta, ma credo sia stata una cosa buona  rinsaldare il rapporto padre figlio. Germano

Che in questo Natale del Signore nascano anche in voi gesti di giustizia e misericordia: questo è il nostro augurio.  Buon Natale!

12/01/2018

La mistica del quotidiano


In una conferenza a cui ho partecipato ultimamente, il relatore parlava di mistica e ascesi come strettamente correlate: per unirsi a Dio occorre svuotarsi di sé nello sforzo ascetico di farsi come Dio.
Ho ascoltato il mio stomaco che mi diceva «Ma no… non è così!» e ho cercato di capire le sue ragioni.
Intanto intendiamoci su che cos’è la mistica. “Il cristiano del futuro sarà un mistico o non sarà affatto” diceva Karl Rahner; e da gesuita qual era possiamo intravedere nelle sue parole lo spessore di un rapporto di amicizia intima con Cristo. Dunque… se non c’è una relazione personale, fatta cioè di parole, di emozioni, di gesti condivisi, non c’è cristianesimo; tutt’al più moralismo e ideologia, destinati, alle prime serie difficoltà, a soccombere o a svuotarsi dentro, pur mantenendo l’aspetto esterno.
Ma è possibile che quest’amicizia sia a senso unico? Con un Cristo che mi dice «Io ho già dato a suo tempo e ora vediamo se tu riesci a raggiungermi…»?
Una prospettiva del genere mi sembra più un voler dimostrare a se stessi e agli altri il proprio valore. E chi lo fa ha scambiato il santo per un supereroe.
No… Cristo non chiede all’uomo di superare se stesso, ma è Lui che si abbassa al suo livello, ne raccoglie i pezzi e lo fa volare sulle sue ali. Questo è un santo: un uomo in braccio a Dio con tutto lo spessore della sua fragile umanità; unito a Lui per sua grazia; ma che di questa grazia è così compenetrato (la sente, ne vibra, la gusta, la ama, ne gode) che le sue mani, la sua mente, il suo cuore, indegnamente ma fattivamente, diventano le mani, la mente e il cuore di Dio.
L’ascesi scelta, programmata, autoimposta non è via alla mistica perché strumento di un io che vuole farsi Dio… quando è invece Dio che si fa me per farmi Sé (Sant’Ireneo).
Una Kenosis che si ripete per amor mio ogni giorno, ad ogni mia stupidata, con una costanza che mi commuove.
Io non riesco a salire verso Dio svuotandomi di me stesso perché Lui possa riempirmi di Sé. Ma è il mio peccato che mi svuota di me stesso attraverso l’umiliazione, perché Lui possa riempirmi di Sé come misericordia.
Mi svuota di me stesso: della mia supponenza, della mia presunzione, soprattutto -e dolorosamente-  della mia orgogliosa ambizione: vorrei sentirmi conforme a uno standard per il quale essere stimato e stimarmi, santo in compagnia dei santi, esempio di punto d’arrivo del cammino che propongo, valido compagno e aiutante del mio Signore. Insomma, …essere sopra gli altri. Ma se da qui aiuto gli altri, non rischio di far loro capire che salvezza è tirarsi fuori dalla mediocrità?
Noi non possiamo volere quell’abbassamento che Dio ha scelto per stare vicino a chi ha bisogno del suo aiuto. E allora Dio permette il nostro peccato per metterci tutti sullo stesso piano, perché il nostro aiuto sia uno stare l’uno accanto all’altro e non una degnazione di chi è a posto verso chi è sbagliato.
Resta il dubbio: ma io da che parte veramente sto? Non sarò un ipocrita che fa il suo comodo? Il farmi questa domanda è già una risposta. Non è un momento di debolezza a definirmi, ma la tensione di fondo, quello che voglio quando l’impulso non sta agendo su di me; quando io mi possiedo, non quando sono trascinato fuori di me; quando vedo gli altri, non quando sono avvitato nelle mie sensazioni.
Ma non c’è solo amarezza e dispetto per ciò che non riesco a essere. C’è anche -e qui riemerge la dimensione mistica- nostalgia di Lui da cui mi sto allontanando, preso da altre emozioni. Perché è a Lui che appartengo; perché è Lui il senso del mondo in cui voglio vivere; perché Lui sa farmi volare; perché è Lui la Bellezza che mi circonda; perché quando mi riempie siamo uno; perché se qualcosa di buono faccio, è in Lui che lo faccio.
Lui, Lui, Lui: quando, alla fine delle mie peregrinazioni e dei miei sviamenti, lo sguardo torna a Lui, ecco… siamo tornati uno. E Lui è già in me ad amare… come Lui vuole e sa fare attraverso di me.

                                                                                                                   Michele Bortignon

11/01/2018

Che cosa rende autentica la preghiera?


«Torna a metterti dietro di me!» dice Gesù a Pietro che cerca di riportarlo al comune buon senso, per cui la prima cosa è salvare la pelle (Mc 8, 33). Così anche noi, seppur ci diciamo discepoli di Gesù, spesso conduciamo la nostra vita, anche quella religiosa, secondo i nostri criteri, seguendo quel che ci serve e ci piace.
Prendiamo, ad esempio, la nostra preghiera. Mi sembra di individuare tre atteggiamenti con cui la viviamo:

  1. L’atteggiamento pragmatico: preghiamo per ottenere, per cui il nostro pregare è tutto una richiesta, una supplica, un contrattare con Dio; e un lamentarci quando non ci ascolta.
  2. L’atteggiamento emotivo: preghiamo per il gusto di provare emozioni, di sentirci avvolti e mossi da una forza più grande di noi, che ci fa essere superiori a noi stessi e agisce lo straordinario attraverso di noi, ispirandoci e vitalizzandoci.
  3. L’atteggiamento razionalista: preghiamo per comprendere come programmare la nostra vita al seguito di un Dio legislatore e verificatore dei nostri comportamenti.
Ognuno di questi tre atteggiamenti ha del buono, ma, quando è vissuto come l’unico, ha dell’eccessivo. E’ da sempre il problema delle eresie: assolutizzare una parte e viverla come se fosse il tutto.
Ma una preghiera autentica assume in sé tutt’e tre queste dimensioni e si confronta con la forza del sentimento, della ragione e della realtà. Non ci rivolgiamo forse a un Dio trinitario, comunione di persone ciascuna con la propria individualità?
Ecco allora che il Padre, il creatore del mondo, ci aiuta a mantenere la nostra preghiera ancorata alla realtà, alla vita nella sua concretezza, perché attraverso di essa Egli vuol cambiarci il cuore e, attraverso di noi, le relazioni con gli altri, fino alle strutture sociali.
Il Figlio è la via attraverso cui questa volontà del Padre si realizza. Egli ci stimola a usare la nostra ragione per osservare, analizzare, capire, progettare.
Lo Spirito Santo, infine, è Dio nel suo aspetto più concreto, tangibile, sperimentabile: lo sentiamo nel cuore a muovere le nostre decisioni, accarezzandoci con la consolazione quando siamo un tutt’uno con Lui o stringendoci il cuore in un dispiacere aperto alla speranza quando vuol riportarci alla fiducia in Lui, facendoci ritornare indietro da vie sbagliate.
Ragione, sentimento e concretezza assieme, mai l’uno senza l’altro, collaborano a rendere la nostra preghiera vera e capace di continuare l’opera creatrice di Dio, che attraverso di noi vuol trasformare il mondo nel Regno dell’Amore. Ed evitano le derive dell’ideologia, dell’emotività e della superstizione.
Un cuore caldo, una mente fredda e delle mani irrobustite: ecco quel che ci vuole per una preghiera autentica!
                                                                               Michele Bortignon




10/01/2018

La Bellezza: via a un’altra logica d’azione


Qual è il criterio che guida nell’azione la mentalità comune?
E’ piacevole ed è possibile, quindi si fa.
Sembra talmente logico che anche noi ne siamo trascinati.
E’ logico, ma… è vero? Ossia fa crescere il mondo o gli crea problemi?
Vero è ciò che è bene. Bene per tutti.
Il criterio che guida l’azione del cristiano è dunque un altro: si fa se è bene, anche se è impossibile.
Ma che cosa sostiene l’azione, andando contro la manifesta impossibilità? Non diversamente dagli altri, anche noi  siamo tentati dalla via più facile, più appagante, che sembra risposta a bisogni e desideri!
Io credo che sia la Bellezza.
Nella Bellezza avverti il manifestarsi di qualcosa di grande, che suscita in te stupore e ti lascia nella pace se entri a farne parte gustandola, vibrando in armonia con essa e agendo per farla essere in te e attraverso di te.
La Bellezza vissuta è l’amore e l’amore è l’incarnarsi dell’essere di Dio.
Dio è dunque presente e lo si può incontrare in tutto ciò che esprime bellezza, suscitando in noi stupore e lasciandoci nella pace. Anche quando sembra impossibile. Anzi, tanto più quando sembra impossibile, per renderlo possibile. Perché abbiamo bisogno di reagire alle tentazioni e alla sofferenza per rendere la nostra vita vera e quindi autentica.
Un brivido di piacere, un fremito di soddisfazione riempiono l’attimo, ma ci scavano il vuoto attorno.
Il problema è non lasciarci travolgere dall’agire istintivo. Una passione non si vince con il ragionamento, ma con una passione più forte, perché col Nemico si lotta accettando battaglia sul suo terreno. Così fece san Francesco, che proprio nel momento più duro della sua vita riuscì a conservare la sua fedeltà al Signore immergendosi nella Bellezza del creato, per incontrarvi Dio, di cui essa è dono, come ci racconta questa introduzione al Cantico delle Creature.

Verrebbe spontaneo pensare che S. Francesco abbia scritto il cantico delle creature in un periodo felice della sua vita, quando la bellezza del paesaggio umbro gli riempiva gli occhi e il cuore, ma non è così.
Nell’inverno 1225, Francesco dimorò a S. Damiano per più di cinquanta giorni: portava le stigmate, era quasi cieco, aveva atroci dolori agli occhi e non poteva sopportare la luce del sole né quella del fuoco. I frati gli fecero costruire una capanna in un angolo della loro casa; il luogo era infestato dai topi, così che non poteva né mangiare né dormire. Faceva anche molto freddo.
Una notte Francesco pregò: «Vieni, Signore, in soccorso delle mie infermità». E gli fu risposto in spirito: «Rallegrati e vivi sereno come se tu fossi già nel mio regno!».
Alzatosi al mattino disse ai suoi compagni: «Ora dunque devo molto gioire. Voglio perciò comporre una nuova laude al Signore assieme a tutte le creature, senza cui noi, ingrati, non possiamo vivere». E postosi a sedere, si concentrò e disse: «Altissimo, onnipotente, bon Signore…».


Michele Bortignon

9/01/2018

Porgere l’altra guancia?




Quest’anno la neve pesante e il vento forte hanno schiantato diverse piante nei nostri boschi. Ne ho fotografato una, accanto ad un’altra che non ha subito danni.
Riguardando l’immagine, il pensiero è scivolato sullo spirituale e mi sono chiesto: sempre ciò che appare schiantato è davvero schiantato e ciò che appare intero è davvero intero?
Me lo chiedo pensando a certe situazioni, indirettamente vissute, in cui sembra che un proclamato bene conculchi il bene autentico e tanti accettano la situazione per “amor di pace”.
Ecco: questi aggressivi dal volto benevolo, e questi buonisti alieni dallo schierarsi, sono questi i poveri dei nostri giorni, gli schiantati dentro che appaiono tutti d’un pezzo. Avvinghiati al loro io, in adorazione delle loro quattro piacevoli sicurezze, atterriti dalla paura di perderle, affannati per aumentarle o aggiungerne altre seguendo ciò che la moda propone, aggressivi perché insicuri.
Forse, però, questi è meglio chiamarli miseri. Povertà non è miseria. Il povero non ha quel che altri reputa essenziale, ma che, in realtà, è la fonte della sua miseria. Io, povero, per altri manco di…; per me, sono libero da… Il bisogno non mi rende schiavo. Non voglio che per me la vita sia una lotta per vincere o per non essere schiacciato. Agli altri posso apparire schiantato, ma io mi sento intero.
“I cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo”, scrive l’anonimo autore della lettera a Diogneto. Se almeno una volta hai fatto esperienza di sentirti immerso nell’infinito e hai gustato il tuo farne parte, con un colpo di reni puoi strapparti dall’abbraccio mortale della rivalità, dell’invidia, della vendetta, della rivalsa e vedere che sono altrettante piccinerie che ti rendono piccino. C’è differenza tra l’ansimare rabbioso e il calmo respirare a pieni polmoni. Se gli altri sono contenti così, lascia loro vincere questa battaglia. Per te sarà l’occasione di capire che cosa è veramente essenziale. Accettando di essere reso povero, ti scoprirai ricco di ciò che conta davvero: la libertà, la verità, la gratuità…
Scoprirai anche che non sei diverso da loro: anche tu, in fondo, vuoi ciò che vogliono loro, ti dà fastidio ciò che dà fastidio a loro. Il tuo vantaggio è che hai deciso di parlarne con Dio prima di agire. E, parlandogliene, scopri che il male, travestito da vero, da giusto, da bene, tiene anche il tuo cuore avvinghiato con le sue radici. Ora le vedi; sei fortunato: puoi prenderne le distanze. Ma loro? Loro che non hanno conosciuto il Signore della Vita? Quantomeno imponiti di rispettarli nella loro infermità. Chi non conosce il Salvatore cerca di salvarsi da solo, come può. Puoi dargli torto?

Poco prima della sua morte, Francesco scrive a Chiara: “Io, frate Francesco piccolo, voglio seguire la povertà dell’altissimo Signore Nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre e perseverare in essa sino alla fine”. Non sceglie la miseria, ma la profonda libertà da ogni piccineria che chiude in se stessi, per fare invece ciò che crea “pace e bene”. E’ la libertà di Gesù, che lo rende capace di lasciarsi prendere anche la vita per rimanere fedele al suo essere Amore.
Anch’io posso scegliere di lasciarmi schiantare per rimanere intero. Come ha fatto Cristo. E in questa “comunione” Francesco vede la “perfetta letizia”. Sono capace di sopportare per amore di Cristo? Al di sopra di tutte le grazie che Dio concede ai suoi servi c’è la grazia di vincere se stessi e sopportare ogni offesa per amor suo. Come ha fatto Lui. Ed essere con l’amato è, per chi ama, perfetta letizia.

Michele Bortignon

8/01/2018

Monaci nel cuore


«Mi dai una definizione di monaco? Chi è monaco? Tu sei monaco? E io?», mi chiede Maria Rosa in uno stimolante whatsapp. “Monos” in greco significa uno, singolo, indiviso. Il termine è passato poi a definire chi si ritira dal mondo nell’ascesi, ossia osservando i tre voti di castità, povertà e obbedienza. No: io sono orgogliosamente laico, in mezzo alla gente; anche se ho i miei momenti da solo con Lui. Del resto, anche Gesù…!
«Ma no… io intendevo uno con Lui, indivisibile da Lui…», incalza Maria Rosa.
E’ bello sentire vibrare un cuore innamorato, desideroso di darsi completamente a Dio. Ma, pensando a me… e quando non ci riesco? Quando la tentazione ha la meglio su di me? Quando “Video meliora proboque, deteriora sequor”, per cui mi accusano o mi accuso di incoerenza? Questo “vorrei ma non ci riesco” è snervante! Si… non è sempre così, è vero, però ogni tanto qui o là, cado.
Ma ho scoperto una cosa che sento un tesoro prezioso e mi commuove profondamente: sono io a condannarmi… Dio invece si avvicina senza giudizio e mi conferma la sua fiducia; e allora trovo la forza di rialzarmi e riprendere a camminare. Dolorante, vergognoso e… reso un po’ più umile. Nel ricordo, il peccato diventa il contenitore di questa esperienza di Dio, l’occasione in cui Lui si è manifestato e mi ha toccato il cuore. Penso al peccato e ricordo un abbraccio. E’ questo il perdono: non una cancellazione, non un “facciamo finta che non sia successo”, ma la trasfigurazione di una storia, una risurrezione da una morte. Questa è opera di Dio, La dinamica è spirituale, non psicologica.
Certo, non è sempre così: a volte mi difendo, cerco giustificazioni, minimizzo. Ma quando la sua voce mi penetra dentro, a un tempo inquietandomi e acquietandomi, se mi lascio portare, mi fa volare sulle sue ali.
Come potrei scambiare questa esperienza di sentirmi figlio gratuitamente amato perché prezioso ai suoi occhi con una ricerca di perfezione che sono io a costruirmi e in cui, pertanto, posso solo fare esperienza di me stesso? Solo se quest’ultima nasce dalla precedente vale qualcosa, altrimenti è puro pelagianesimo. O l’amore nasce dall’Amore o è doverismo.
Fatta questa premessa, adesso possiamo tornare alla domanda iniziale e rispondervi in verità. Monaco non lo sei per l’abito che indossi (anche se questo può aiutarti a diventarlo). L’essere uno con Dio lo scegli tu nel battesimo (o in una sua successiva coscientizzazione, quando proclami Cristo Signore della tua vita), ma diventarlo è opera della sua Grazia in te, quando il tuo bisogno di essa ti porta a desiderarla, credervi e invocarla.
Michele Bortignon

Tutto ha inizio con un pizzico d’invidia da parte mia per chi riesce a trovare il tempo per staccare e immergersi in Dio totalmente; soprattutto invidia per chi riesce a trovare tempi lunghi e frequenti per farlo.
Io con un lavoro, un marito, due figli, una casa e un cane, riesco a ritagliarmi spazi lunghi solo saltuariamente…molto saltuariamente.
Beati i monaci! Beati loro che della vita hanno fatto motivo di preghiera e lavoro. Beati loro che si possono permettere tempi lenti e dilatati…così è almeno nell’immagine che ho io del monaco.
Ma chi è il monaco? Lo è solo chi si estranea dal mondo e si ritira in monastero? Oppure c’è un monachesimo del cuore, un modo d’essere monaco che va al di la del saio? Io da laica lo posso essere?
La risposta del dizionario su chi è il monaco è poco esaustiva: “monaco è chi si consacra a Dio abbracciando la vita ascetica da eremita o in comunità in monastero”.
No, allora non lo sono e non potrò mai esserlo se si limita a questo.
Mi viene in aiuto Michele, dopo lo scambio di alcuni messaggi, andando al significato etimologico della parola: “Monos” in greco significa uno, singolo, indiviso.
Allora sì, siamo, sono, posso esserlo o diventarlo: uno con Dio, io e Lui, indivisa da Lui perché Lui non mi molla. Ho sicuramente tanto lavoro e tanta strada da fare ancora, ho molto da cercare, ma soprattutto ho molto da lasciarmi trovare. Sì, siamo monaci nel cuore, possiamo esserlo e diventarlo un po’ ogni giorno, la strada è quella che conduce dentro di noi in quello spazio intimo e profondo dove, a piedi nudi, ci troviamo spogli di fronte a Dio e dove non dobbiamo far altro che lasciarci amare.
Maria Rosa Brian

7/01/2018

Un decalogo per il discernimento

Mi sono ritrovata tra le mani gli scritti di due santi vissuti secoli fa, Sant’Ignazio di Loyola e Santa Teresa d’Avila e ho iniziato a leggerli con l’idea di conoscere e approfondire la loro esperienza di fede. Mano a mano che proseguivo con la lettura il mio sguardo è cambiato e lentamente sono passata dal leggere al sentire e vivere. Ed ecco che in me sono sorti questi interrogativi: come possono le parole scritte secoli fa divenire attuali e irrompere nella vita di una persona del XXI secolo? E il discernimento può rappresentare uno strumento per arrivare alla vera felicità, quella che dà serenità all’anima e pace nelle relazioni?
Ho compreso che, se nelle parole umane troviamo l’ispirazione divina, succede che quelle stesse parole possono uscire dalle pagine, attraversare la storia e, soffiate dallo Spirito, entrare nella nostra esistenza.
Sarà così possibile nelle tempeste emotive, nelle delusioni relazionali, di fronte agli schiaffi che la vita ti presenta arrivare a dire “grazie Signore, se non avessi avuto questo dolore non avrei capito e non sarei cresciuto”.


1. Come si affronta la vita: consolazione e desolazione in Sant’Ignazio
Nella prima, l’anima, come un bimbo, “riposa tranquilla tra le braccia di sua madre”. Può avere problemi, preoccupazioni, dolori ma non si sente sola ad affrontarli.
Se deve prendere una decisione si lascia guidare dalla Parola, sente che nelle scritture o nel confronto con una persona illuminata si delinea la soluzione che progressivamente diviene sempre più chiara, lasciando nell’anima pace.
Nella seconda l’anima è avvolta dalle tenebre e si sente oppressa, schiacciata dalle difficoltà, incapace di reagire e di vedere una soluzione. Il desiderio sarebbe quello di fuggire dall’angoscia evitando le difficoltà (fuga dalla situazione) oppure reagire d’impulso con violenza per restituire il dolore (aggressività fisica o verbale) o ancora sentirsi annullata, incapace di qualsiasi reazione (chiusura totale verso l’esterno). Non ci sono soluzioni e il malessere cresce.

2. Come si reagisce agli sbagli: falsa umiltà e vera umiltà in Santa Teresa
La prima si insinua nell’anima come un’inquietudine, un senso di inadeguatezza e di errore. La inaridisce e la riempie di scrupoli che portano a sentirsi incapaci e sbagliati e di conseguenza a non pregare e non agire. La paura dell’errore porta all’inattività. I peccati vengono gonfiati ed è come se l’anima non fosse mai stata degna, mai capace di nulla di buono. Un gigante dallo sguardo arcigno e severo tiene in pugno l’anima, permettendole appena di respirare per sopravvivere, ricordandole in ogni momento la sua indegnità.
La seconda abita l’anima con lievità: la sorregge, la accarezza, la consola. Non nasconde all’anima i suoi errori o le sue mancanze ma, guardandoli assieme, li considera con benevolenza e misericordia, incoraggiando così ad andare oltre e a volgere lo sguardo e l’attenzione verso il buono.

3. Bene reale e bene apparente in Santa Teresa
Nel primo, sempre sono presenti effetti benefici per sé e per gli altri e il bene personale non è in antitesi al bene degli altri. Il bene si moltiplica e cresce
Nel secondo ci si convince che non si può fare tutto per tutti, che è meglio accontentare qualcuno piuttosto che scontentare tutti, che uno ha il diritto di stare bene e se sta bene lui poi potrà far stare bene gli altri. Il bene viene diviso, spartito, conteso.

4. La crescita dell’amore verso Dio si misura dall’amore verso il prossimo per Santa Teresa
Tanto più amiamo gli altri come noi stessi, tanto più siamo sicuri di amare Dio. Preghiera e opere sono le due facce della stessa medaglia, l’una si aggancia all’altra e nessuna delle due ha senso e valore se non c’è l’altra. La preghiera prepara il cuore e la mente all’azione. L’azione dà voce, mani, volto allo Spirito, invocato nella preghiera.

5. Disposizioni al bene o al male dell’anima in Sant’Ignazio
L’anima è sempre soggetta a due sollecitazioni, una conforme al suo agire e una contraria. Una si presenta silenziosa, l’altra rumorosa, pungente o infastidente. L’anima disposta al bene sarà punzecchiata dal male, che potrebbe presentarsi sotto forma di falso bene e farsi aprire la porta con l’inganno.
L’anima disposta al male dà le chiavi di casa al maligno che entra ed esce indisturbato, senza fare rumore. Lo spirito del bene invece “sta alla porta e bussa”

6. Riconoscere gli spiriti in sant’Ignazio
La differenza tra l’agire spinto dallo spirito del male e quello del bene si vede dai frutti. Nel primo caso i frutti sono per me, per la mia soddisfazione e piacere e spesso non contemplano l’altro con i suoi bisogni ma si contrappongono (ho diritto di fare/avere, non posso sempre rinunciare) e creano situazioni in cui una parte deve prevalere sull’altra. Quando l’obiettivo è raggiunto ci si trova più soli perché si sono usati gli altri per i propri fini, desiderosi di trovare presto nuovo soddisfacimento per colmare il vuoto.
Nel caso dello spirito del bene la spinta all’azione comprende anche il bene dell’altro. L’azione perciò, qualunque essa sia, fa stare bene me e gli altri. Quando termina non si esaurisce in me ma posso ritrovarla nel cuore altrui. Qui essa può alleviare, sanare, incoraggiare, alleggerire o semplicemente dialogare; in ogni caso lascia una traccia.
Se con lo spirito del male, come un predatore, svuoto gli altri per riempirmi, con lo spirito del bene c’è un travaso tra i cuori che si ritrovano, alla fine, traboccanti entrambi.

7. Perseveranza nella preghiera
Dopo aver iniziato a “frequentare il regno di Dio” ci si sente un po’ arrivati e ci si rilassa. Questo è il momento in cui, forti di ciò che si è costruito, si diventa più vulnerabili agli attacchi del maligno, il quale non perde occasione di intrufolarsi e creare scompiglio.

8. Ascesi in Santa Teresa
Quando la situazione di sofferenza non è modificabile perché non ci sono i mezzi o dipende dal comportamento altrui, la via da percorrere è quella della libertà interiore: non cerco nella relazione o nella situazione, a tutti i costi, la soddisfazione dei miei bisogni di affetto, stima e sicurezza, ma vado oltre: li cerco in Dio che mi ama e mi vuole risorto accanto a sé.

9. Comportamento di fronte all’errore del prossimo in Santa Teresa
Di fronte alle offese, alle mancanze o ai dispetti, il mio amor proprio mi porta a rispondere “con la stessa moneta”. In me albergheranno tensioni e rancori che non contribuiscono a costruire nulla di buono (né dentro me, né nella relazione). Rispondendo invece con calma e serenità e agendo il comportamento virtuoso contrario, dentro di me cresce la pace (io sto bene con me stesso). Nella relazione io porto una testimonianza di Amore; agisco l’amore meglio che con lunghi discorsi.

10. Persecuzioni in Santa Teresa
La libertà interiore fa tacere anche quando si è accusati ingiustamente.


                                                                            Katia Simonetto

6/01/2018

Perdere vincendo o vincere perdendo?


Perché Gesù muore in croce? Nel tentativo di mostrare all’uomo il vero volto di un Dio che ci è Padre, si lascia uccidere per mantenere fede in ciò a cui crede. Non scende a compromessi con chi lo accusa, non ritratta e non si giustifica. Gesù ama la verità più della propria vita… per questo la perde.
Pur di insegnarci ad amare e a Vivere, accetta di perdere e si lascia sconfiggere. Il valore dell’amore per lui è talmente alto da superare il valore della sua vita: noi valiamo più della sua vita.
Ci sono per noi valori così importanti da essere disposti, pur di non perderli, a sacrificarne altri?
Facciamo un esempio.
Un certo modo di pensare suggerisce di andare d’amore e d’accordo con tutti… proprio con tutti: sopporta, porta pazienza, non rispondere, non alzare la voce, porgi l’altra guancia, capisci, comprendi, sorvola, ecc… Ed è con questo metro che, secondo certe persone, dovremmo misurare il nostro essere cristiani.
Ma… è questo l’atteggiamento giusto? È questo che Gesù chiama amore? Forse nemmeno l’avrebbero ucciso uno così accondiscendente.
“Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt 10,34). E’ proprio perché su certe cose non transige che si fa così tanti nemici.
Quel che mi dice allora è: cerca di capire a che cosa non puoi rinunciare, pena il rinunciare a ciò che sei; rifletti su ciò che per te è importante e che non sei disposto a sacrificare, anche se il prezzo da pagare, purtroppo, è perdere quella stima e quell’affetto di cui senti tanto bisogno.

Ci sono valori come il diritto di pensare in un determinato modo, di decidere e gestire la nostra vita e quella di coloro di cui siamo responsabili, che non possono essere calpestati e sacrificati al quieto vivere. Abbiamo un compito che la vita ci ha assegnato: nessuno ha il diritto di mettersi al nostro posto e noi non possiamo delegare ad altri la nostra responsabilità al riguardo.
Ci sono persone che contestano il nostro modo di essere e con le quali è impossibile dialogare, ragionare ed essere diplomatici; in queste situazioni, l’unico atteggiamento possibile, è ribadire fermamente la nostra opinione mantenendo la calma e senza cercare di scendere in discussioni o entrare in ragionamenti impossibili. Calma, determinazione, autorevolezza sono le tre parole chiave in queste situazioni.

Mi sono chiesta se quella persona dovevo continuare ad assecondarla per un benessere apparente, se essere “cristiana” comportava questo e se questo era il meglio. Forse il mio era un bisogno di sentirmi brava che seguiva certi schemi buonisti… ma davvero portava al bene reale di tutti?  E così mi interrogavo se era arrivato il  momento di rompere gli schemi, di uccidere il mio essere buona e brava per salvaguardare invece ciò che non accettavo di perdere. Era giunto il momento di farle capire che c’era un limite e che lei lo aveva ampiamente superato, a costo di passare io per quella cattiva. Questo mi sono ritrovata a pensare dopo i miei continui tentativi di buonismo estremo.
E in questa occasione ho capito che cosa avrei tenuto e che cosa sacrificato. È stato nel confronto con le scelte e le priorità di Gesù che ho capito che la faccia potevo pure perderla. Qualcos’altro no!

Maria Rosa Brian

5/01/2018

Camminare al di fuori del pensiero unico


Ho avuto modo di ascoltare -e, devo dire, con compiaciuto stupore- una trasmissione radiofonica in cui un rabbino spiegava come gli Ebrei studino le scritture: in accalorate discussioni con un compagno di studi, in cui confrontano la reciproca diversa interpretazione. Il risultato finale non è una convergenza, una mediazione per arrivare a una posizione condivisa, ma un approfondire ancor più la propria idea grazie alle obiezioni con cui l’altro la mette in discussione e alle contro-obiezioni portate per difenderla.
La loro prospettiva è che la realtà è plurale e complessa: non c’è un vero e un falso, un giusto e uno sbagliato, ma molteplici possibili approcci.
Non si tratta di relativismo, dove tutto è uguale e indifferente, ma di fiducia nella capacità dello spirito umano di imparare dalle esperienze, di elaborare soluzioni che tengono conto della complessità delle situazioni, per creare, infine, la propria strada.
La verità non è dunque un punto di arrivo né di partenza, ma il ribollire della realtà accolta nel suo multiforme presentarsi, che chiede di essere affrontato navigandoci dentro con coraggio e creatività, non col paraocchi di chi teme di uscire dalla traccia imposta da altri.
Non dico che tutti debbano e possano ritrovarsi in questa prospettiva (per alcuni è estremamente piacevole e rassicurante avere qualcuno che decide per loro!), ma se senti che della tua via sei chiamato ad essere protagonista, entraci e vivila, senza farti condizionare dall’ideologia del pensiero unico.

Se ripenso alla mia esperienza, il trovare la mia strada nel camminare con Dio non è stato l’apparire di un’idea che mi sembrasse migliore rispetto a quella che animava la strada che fino ad allora stavo seguendo, ma il risultato di un disagio profondo rispetto alle difficoltà frapposte alla mia voglia di esplorare, di seguire spunti, intuizioni e maestri, di provare a cambiare con creatività.

Perché un pensiero vuole essere unico? Perché la persona che lo porta, sentendo messo in discussione ciò che ha creato, si sente attaccata personalmente, teme di essere messa in crisi assieme al pensiero con cui si identifica.
Ma… “lo Spirito soffia dove vuole”, creando quelle diversità di pensiero e di azione che si adattano a mutate esigenze. E lo stesso Spirito, che è spirito d’amore, spinge poi all’unità delle diversità promovendo il rispetto, il riconoscimento e la valorizzazione reciproca. Se non trovi questo rispetto, è inevitabile un allontanamento che però, vissuto con Cristo, diventa a sua volta positivo: il poter essere ora completamente te stesso, senza compromessi, ti permette di lasciarti guidare -ora finalmente libero di poterlo fare!- da quel che senti consonante con ciò che sei, con il Dio “intimior intimi mei” che avverti come Verità che fa verità.

Ecco allora che la nuova strada, non cercata né voluta, si crea mentre la percorri. Il disagio che provavi ti mostra tutti i modi di essere e di fare che -ora ce l’hai ben chiaro!- dovrai accuratamente evitare di fare tuoi; in questo scopri che chi ti è stato maestro lo è stato anche con i suoi sbagli. Le intuizioni che finora hai seguito con ingenuo entusiasmo chiedono di essere chiarite, approfondite, rese vere per diventare le linee portanti del tuo nuovo cammino.
E tutto questo in mezzo a una fitta nebbia che non ti lascia scorgere se non il passo successivo e il pesante timore, ben alimentato da tanti, che il tuo sia stato un colpo di testa, una presunzione, una mancanza di umiltà. Che questa sia veramente la tua strada, la strada su cui Dio ti chiama, non puoi essere tu a dirlo, ma gli altri, i frutti che ti riportano, maturati nel loro camminare con Dio assieme a te. E anche il fatto che la cosa continui, resistendo alle ostilità e alle difficoltà frapposte.

Come poter evitare di entrare a tua volta nelle strettoie del pensiero unico? Lasciando la tua strada nelle mani di Dio. Essa può essere semplicemente un fiore che Dio fa sbocciare in quest’angolo di prato, assieme a tanti altri, per far bella la vita. Non devi legarla a te sperando sia qualcosa di più; se lo è, lo sarà anche senza di te. Non è il tuo fiore a dare senso al prato, né il suo moltiplicarsi o il suo persistere, ma Chi con esso sta dipingendo la vita. L’unica cosa da fare è lasciarti fiorire nella carezza del sole. Ogni altra guida, che ti spinga da dentro o da fuori, non è da Dio.

Michele Bortignon


4/01/2018

Ma Dio c’è o non c’è?



«A volte non sono sicura che Dio esista…» mi confidava un’amica che dedica tutto il proprio tempo libero ad aiutare le persone a incontrarLo. «Ma tu ci credi davvero?».

«Non lo so…», le rispondo. «Chi può dire chi o che cosa è Dio? Io so solo che c’è Qualcosa che mi fa stare profondamente bene quando sono in Lui, che mi porta ad agire contro il mio piacere e il mio interesse immediati per realizzare qualcosa di più grande e di più bello, che mi apre davanti orizzonti impensati in cui la vita è più Vita e io divento più uomo. So che questo c’è perché agisce su di me. E, questo, io lo chiamo “Dio”».

Lei rimane pensierosa e poi dice di essere diventata allergica a chi definisce con troppa sicurezza Dio: «Ieri sera, alla lectio, quattro idee su Dio, che è così, così e così… . Ma Dio con me è sempre così imprevedibile, sorprendente, diverso da come me lo aspettavo…!».
Un Dio “oltre” che ti fa diventare altro da quel te stesso ingessato e limitato in cui ti senti ora tanto comodo e ora troppo stretto.

E’ sano questo ateismo che non si accontenta di un Dio che puoi comprendere e quindi manipolare per soddisfare i tuoi bisogni.
Solo quando resti a bocca aperta e senza parole puoi dire che Dio ti ha sfiorato la schiena con la sua mano aprendo per un attimo davanti a te uno squarcio tra le nubi.

«E’ il tuo credere in Lui che lo fa esistere per te!» potrebbe dirmi un ateo.
O è il Suo credere in te che ti fa esistere e tu non lo vedi perché semplicemente sei parte di Lui?



Spesso i pensieri spaziano e vagano; vanno e s’inoltrano in terre ignote, mai viste. Nel loro girovagare libero capita anche si blocchino spauriti di fronte a ciò che per loro è inesplorato e sconosciuto. Ecco: la domanda “ma Dio esiste?” è uno di questi luoghi.
Cosa devo rispondere io ai miei pensieri spaventati?

Il mio pensiero bambino vorrebbe certezze, vorrebbe sicurezze, vorrebbe risposte esaustive e non vaghe riflessioni. Ma io non ho formule matematiche, prove scientifiche o leggi fisiche: ho solo sensazioni e sentimenti per parlarti di Dio.
Allora il mio pensiero bambino lo circondo in un abbraccio e gli dico: «Ecco, questo è Dio, è un po’ di Dio. Non tutto, solo un pezzettino». Poi lo bacio e gli dico: «Anche questo è un po’ di Dio». E lo prendo in braccio il mio pensiero bambino, lo cullo e gli sussurro: «Pure questo è Dio».

Che basti ricordare che DIO E’ AMORE?


Sensazioni, intuizioni, idee… hanno la forza di muovere un atto di fede, ossia una scelta di vita? Hanno la capacità di sorreggerti quando la vita si fa difficile?
So solo che la concretezza di una presenza può essere ciò che fa la differenza. Una parola e un abbraccio da parte di chi mi ama veramente le sento voce e mani di Chi ho intuito e che ho imparato a conoscere in Cristo. Una presenza… di Dio… ora…: il Risorto!
Una parola e un abbraccio che sento mosse in me da una forza che mi fa superare le mie pigrizie e i miei piccoli egoismi… non sono voce e mani di Chi si fa vicino agli altri dopo essersi fatto intimo a me stesso? Di Chi guarisce gli altri guarendo prima me? Di Chi, riempiendomi di Lui, mi fa tacere o mi fa dire e fare solo ciò che è giusto anziché reagire scompostamente? Risorto, sperimento il Risorto! 

Sì, questo: una persona accanto a me, in me, può muovere una scelta di fede, può darmi la forza di andare avanti.

Ho bisogno di te.
Credo in te.
Signore mio e Dio mio.

Buona Pasqua a tutti!

Gli accompagnatori spirituali Kaire!


3/01/2018

Ma il demonio esiste?


L’altro giorno una persona chiedeva il mio parere sulla realtà e la presenza del demonio, che le sembrava di percepire nella cattiveria con cui la sua capa trattava lei e le sue colleghe. E, ancora, citava fatti inspiegabili che nel passato le avevano creato un forte disagio. Dietro al male di cui facciamo esperienza, fuori e dentro di noi, c’è dunque una realtà personale che lo pensa e lo agisce?
Questa realtà sembra emergere, ad esempio, nel discernimento, in cui analizziamo le mozioni dello Spirito del bene e dello spirito del male. Esiste allora una forza che ispira al bene, che chiamiamo Dio, e una forza che tenta al male, che chiamiamo demonio? Sì, si tratta di forze che promanano da realtà che possono però essere spiegate senza scomodare il soprannaturale. Abbiamo in noi un sano istinto di sopravvivenza con cui cerchiamo di fuggire da situazioni che avvertiamo danneggiarci e dirigerci invece verso situazioni in cui intravediamo un bene. Ma questo istinto può essere miope, quando consideriamo il bene solo nell’immediato, o lungimirante, quando teniamo conto che è bene ciò che ci realizza con gli altri (perché la nostra felicità è nell’essere in relazione) e in quel che saremo domani. Ecco allora che lo spirito del male possiamo identificarlo con la paura di perdere quel piccolo bene che possediamo o di non riuscire ad ottenere quel bene che cerchiamo con ansia; e questo ci rende disposti a tutto, anche a calpestare gli altri. Lo Spirito del bene possiamo invece identificarlo con la Bellezza che ci vuole mettere in sintonia con sé, rendendo tutto meraviglioso, armonico, gustoso, in noi e attorno a noi.
La tenerezza o la volgarità di rapina nell’uso del corpo, la possibilità di aiutare o lo sterile arricchimento nell’uso dei soldi, il cambiare il mondo per il bene di tutti o per il proprio interesse nell’uso del potere sono esempi di come il seguire la Bellezza o la Paura ci portino su strade diametralmente opposte. E con il nostro seguire l’una o l’altra la rendiamo presente e concreta nel nostro mondo, capace di influenzare altri. Siamo dunque noi a creare e ad alimentare gli “spiriti” con i nostri comportamenti. Facendo però un importante distinguo: che il BENE, in quanto crea la vita, esiste, ed è il modo di essere, la sostanza della realtà e, come tale, ciò che le conferisce il sui senso (per cui lo Spirito Santo, che è Dio, preesiste e orienta il nostro fare il bene). Il male, come abbiamo detto, è un’illusione di bene e quindi una mancanza di bene, un vuoto, un Nulla che annulla. Il MALE, dunque, non esiste in sé (cadremmo altrimenti un una visione dualistica in cui a un Dio del bene si contrappone un Dio del male), e ciò che vediamo come tale è una costruzione delle nostre reazioni miopi.
Ma - si potrebbe obiettare – c’è anche un male che viene dalla natura del mondo: un terremoto che distrugge, una malattia che uccide sono errori di percorso di un Dio che vuole il bene e che così si dimostra incapace o impotente?
L’unica risposta sensata è quella che Dio stesso ci ha dato nella Pasqua: la crocifissione di Cristo è stata un errore di percorso? O ciò che ne è seguito dimostra che è meglio tacere e sperare, perché quel che ci appare male, vissuto con Dio, è l’ambito in cui può nascere una Vita che mai avremmo potuto umanamente concepire?
Dio tiene saldamente in mano il mondo e la storia, non però imponendo una dittatura del bene, ma rendendo l’uomo con-creatore di questo bene additandone la via in Cristo e partecipandogli il suo Spirito.
Il demonio, dunque? Sfrattiamolo dai luoghi dei misteri terrorizzanti, su cui presto o tardi farà luce l’umana capacità di comprendere. Teniamolo invece, se ci fa comodo, per indicare tutte quelle realtà che ci distolgono dal fare il bene in comunione con Dio e ci fanno chiudere in noi stessi in una tristezza illusa di potenza.
                                                                              Michele Bortignon

2/01/2018

Riciclare la rabbia?


Una valanga di insulti ti cade addosso, ma invece di sotterrarti ti rafforzano. Un fiume di parole taglienti ti investono, ma invece di colpirti ti scivolano via come acqua. Sguardi di fuoco vorrebbero incenerirti, ma invece muovono in te una brezza leggera. Più nell’altro monta la rabbia, più in te scende la pace profonda. Nessun desiderio di rivincita, di vendetta, di rivalsa, ma solo tanta pace e serenità; ti prende addirittura il senso dell’umorismo, voglia di sdrammatizzare, di riderci sopra e andare avanti. Avanti come? Decidendo di continuare giorno per giorno, capendo solo il prossimo passo da fare, con calma e serenità, dandoti tempo per discernere con Dio come agire e se agisci lo fai senza lasciarti guidare dall’istinto e dall’aggressività del momento. Decidi di aspettare senza reagire istintivamente, decidi di lasciar decantare i fatti: mantenere la calma e il sangue freddo ti portano a trovare l’accaduto (il diverbio, la lite, l’offesa ricevuta) indegno di essere preso in considerazione.
E invece…
Invece dietro all’angolo, dopo il primo momento in cui sei riuscita a gestire la situazione, ti aspetta la rabbia: la tua rabbia. Rabbia per il torto subito, per l’umiliazione provata, per l’ingiustizia di cui sei stata vittima. Rabbia per una situazione che devi subire e non puoi cambiare. Rabbia che credevi di aver allontanato con tanta razionalità. La rabbia invece non è razionale e, in quanto tale, difficile da controllare e trattenere. Anzi trattenendola a lungo aumenta, lievita, cresce fino a esplodere in modo esagerato e inaspettato o, peggio ancora, ad implodere con danni ancora peggiori per la tua salute.
Come trasformarla da qualcosa di negativo, in qualcosa di utile? Come riciclare la rabbia in energia positiva?
Questo mi sono chiesta ogni qualvolta mi rendevo conto che dopo la momentanea calma e tranquillità ero presa da tanta rabbia che difficilmente controllavo e che da qualche parte dovevo sfogare.
Come con i rifiuti che, riciclandoli, diventano qualcosa di utile, così vorrei riuscire a trasformare la mia rabbia.
E allora…
Allora mi permetto di imprecare, di battere i pugni, di urlare, di piangere, mi permetto di sfogarmi, ma non verso chi mi ha ferito o peggio verso chi non centra niente, piuttosto cercando in questo modo di scaricare la tensione accumulata. A volte trovo utile una passeggiata, magari in compagnia di chi ti lascia sfogare e ti sa ascoltare.
E alla fine…
Alla fine la rabbia non si ricicla, semplicemente la si sposta e la si sfoga da un’altra parte dove non può nuocere a nessuno.
Ma concludendo…
Concludendo, sfogata la rabbia, do ascolto a Lui: “Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due.” (Mt 5,39-41).
È la logica di rispondere al male con il bene, trasformando ciò che fai per dovere e costrizione all’inizio, in qualcosa che fai per amore, perché senti che non può essere altrimenti, perché capisci che puoi e con Lui sai volare alto sopra certe meschinità, certe piccolezze, certi ricatti infantili. Ecco, sperimenterai che l’amore ti rende libera…anche dalla tua rabbia.

                                                                                                                        Maria Rosa Brian


Cosa significa rispondere con amore al male che ti viene fatto? Accogliere la ferita come occasione di un bene più grande, come gradino che ti avvicina a Dio, se lo sali senza recriminare, in ascolto della sfida di libertà che lancia al tuo vecchio io malato e prigioniero.   
                                                                                                                        Michele






1/02/2018

E incontrai signora Morte

E incontrai signora Morte… La riconobbi: ha un colore tutto suo… una tristezza che si manifesta con il potere di consumare lentamente, come una candela, il corpo di un essere vivente.

Quando vidi quella bisnonna-nonna-madre-moglie pian piano appassire, mi affezionai a lei, a lei nella sua sofferenza.
Dapprima la malattia le colpì la vista… e lei volle nuovi occhiali per tornare a vedere; e poi le gambe… e lei voleva andare fuori a passeggiare per gustare l’autunno; infine signora Morte se la portò a letto. E lei capì che era giunto il momento di andarsene.
Ma il suo corpo non era ancora pronto: il suo cuore era forte e continuava a battere, facendo intravedere sulla mascherina dell’ossigeno appannata un soffio di vita, un respiro lieve lieve.

Sua figlia era lì, al suo fianco, ad accompagnarla alla morte come lei in passato l’aveva accompagnata alla vita. Lei non voleva pesare sulla figlia, e con il viso mentiva la sua sofferenza. Quale atto d’amore e di coraggio, per la figlia, rinunciare all’accanimento terapeutico che forse avrebbe dato a sua madre qualche settimana in più… ma di pura sofferenza!

Molte volte la mia amica mi ha chiamata, anche di notte, quando il cuore le scoppiava al vedere sua madre soffrire. Per me non c’era posto in cui volessi stare se non accanto alla mia amica. E come avrei voluto prendere su di me il suo dolore! Ma sapevo che era un passaggio che doveva fare e che io, assieme a lei, avrei dovuto solo accettare, comprendere e vivere. Non avevo in mente niente, sentivo solo che volevo starle accanto appena potevo. Abbiamo goduto della compagnia l’una dell’altra, dei nostri infiniti abbracci, dei nostri «Ti voglio bene» sussurrati a cuore aperto.

E guardavo quella donna sul letto di ospedale con la tenerezza di quando si guarda un bimbo; e dalle mani mi uscivano carezze dolci, tutte per lei. Era indifesa, vulnerabile come una bambina.
Sua figlia ed io pregavamo vicino a lei e chiedevamo al Signore di portarla presto con Sé…

Quel giorno che non sembrava mai arrivare… arrivò. E molto presto.
Poi l’ultimo saluto terreno, l’ultimo sguardo reciproco… e, improvviso, il vuoto, la mancanza.

Con il tempo, i ricordi troveranno il loro posto, e la mia amica gioirà perché sentirà vivere ogni giorno dentro di lei quella grande donna che le ha dato la vita e che l’ha accompagnata nell’esistenza come solo una madre sa fare.



Silvia Castellan