In una conferenza a cui ho
partecipato ultimamente, il relatore parlava di mistica e ascesi come
strettamente correlate: per unirsi a Dio occorre svuotarsi di sé nello sforzo
ascetico di farsi come Dio.
Ho ascoltato il mio stomaco che
mi diceva «Ma no… non è così!» e ho cercato di capire le sue ragioni.
Intanto intendiamoci su che cos’è
la mistica. “Il cristiano del futuro sarà un mistico o non sarà affatto”
diceva Karl Rahner; e da gesuita qual era possiamo intravedere nelle sue parole
lo spessore di un rapporto di amicizia intima con Cristo. Dunque… se non c’è
una relazione personale, fatta cioè di parole, di emozioni, di gesti condivisi,
non c’è cristianesimo; tutt’al più moralismo e ideologia, destinati, alle prime
serie difficoltà, a soccombere o a svuotarsi dentro, pur mantenendo l’aspetto
esterno.
Ma è possibile che quest’amicizia
sia a senso unico? Con un Cristo che mi dice «Io ho già dato a suo tempo e ora
vediamo se tu riesci a raggiungermi…»?
Una prospettiva del genere mi
sembra più un voler dimostrare a se stessi e agli altri il proprio valore. E
chi lo fa ha scambiato il santo per un supereroe.
No… Cristo non chiede all’uomo di
superare se stesso, ma è Lui che si abbassa al suo livello, ne raccoglie i
pezzi e lo fa volare sulle sue ali. Questo è un santo: un uomo in braccio a Dio
con tutto lo spessore della sua fragile umanità; unito a Lui per sua grazia; ma
che di questa grazia è così compenetrato (la sente, ne vibra, la gusta, la ama,
ne gode) che le sue mani, la sua mente, il suo cuore, indegnamente ma
fattivamente, diventano le mani, la mente e il cuore di Dio.
L’ascesi scelta, programmata,
autoimposta non è via alla mistica perché strumento di un io che vuole farsi
Dio… quando è invece Dio che si fa me per farmi Sé (Sant’Ireneo).
Una Kenosis che si ripete per
amor mio ogni giorno, ad ogni mia stupidata, con una costanza che mi commuove.
Io non riesco a salire verso Dio
svuotandomi di me stesso perché Lui possa riempirmi di Sé. Ma è il mio peccato
che mi svuota di me stesso attraverso l’umiliazione, perché Lui possa riempirmi
di Sé come misericordia.
Mi svuota di me stesso: della mia
supponenza, della mia presunzione, soprattutto -e dolorosamente- della mia orgogliosa ambizione: vorrei
sentirmi conforme a uno standard per il quale essere stimato e stimarmi, santo
in compagnia dei santi, esempio di punto d’arrivo del cammino che propongo,
valido compagno e aiutante del mio Signore. Insomma, …essere sopra gli altri.
Ma se da qui aiuto gli altri, non rischio di far loro capire che salvezza è
tirarsi fuori dalla mediocrità?
Noi non possiamo volere
quell’abbassamento che Dio ha scelto per stare vicino a chi ha bisogno del suo
aiuto. E allora Dio permette il nostro peccato per metterci tutti sullo stesso
piano, perché il nostro aiuto sia uno stare l’uno accanto all’altro e non una
degnazione di chi è a posto verso chi è sbagliato.
Resta il dubbio: ma io da che
parte veramente sto? Non sarò un ipocrita che fa il suo comodo? Il farmi questa
domanda è già una risposta. Non è un momento di debolezza a definirmi, ma la
tensione di fondo, quello che voglio quando l’impulso non sta agendo su di me;
quando io mi possiedo, non quando sono trascinato fuori di me; quando vedo gli
altri, non quando sono avvitato nelle mie sensazioni.
Ma non c’è solo amarezza e
dispetto per ciò che non riesco a essere. C’è anche -e qui riemerge la
dimensione mistica- nostalgia di Lui da cui mi sto allontanando, preso da altre
emozioni. Perché è a Lui che appartengo; perché è Lui il senso del mondo in cui
voglio vivere; perché Lui sa farmi volare; perché è Lui la Bellezza che mi
circonda; perché quando mi riempie siamo uno; perché se qualcosa di buono
faccio, è in Lui che lo faccio.
Lui, Lui, Lui: quando, alla fine
delle mie peregrinazioni e dei miei sviamenti, lo sguardo torna a Lui, ecco…
siamo tornati uno. E Lui è già in me ad amare… come Lui vuole e sa fare
attraverso di me.
Michele Bortignon
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