Il deserto: per Israele,
quarant’anni di cammino prima di entrare nella terra promessa con qualche
speranza di vincere i popoli che vi erano insediati.
Una storia di guerriglie tra
beduini vecchia di migliaia di anni, che, pure, continuiamo a leggere,
scrutandone il significato.
Perché?
Perché anche la nostra vita è
continuamente in cammino tra una situazione che non sopportiamo più (l’Egitto)
e una che sogniamo (la terra promessa).
Ma quando questa terra promessa
cerchiamo di costruirla a nostra misura, ci scontriamo con la “misura” degli
altri e scoppiano guerre senza esclusione di colpi.
L’aggirarsi per il deserto per quarant’anni diventa allora
metafora di un tempo intermedio, necessario per un cambiamento intelligente.
Innanzitutto, cos’è questa “terra
deserta, arida, senz’acqua”?
E’ la disponibilità a mettere in
discussione le mie soluzioni, quelle prospettive così “giuste” che -guarda
caso!- per gli altri tali non sono.
Dura, ma necessaria, decisione
quella di accantonare quel che mi disseta per cercare qualcosa che non so.
Il deserto diventa, così, tempo
in cui far sbollire la rabbia, calmarsi e mettersi in ascolto, attendendo una
Parola al di là delle piccole guerriglie che intraprendiamo per soddisfare i
nostri piccoli interessi.
Una Parola che ci mette tempo ad
emergere, ma, quando lo fa, si riconosce dalla pace che l’accompagna e che ti
avvolge.
Il deserto è necessario per
allontanarmi da ciò che preme su di me emotivamente, per riacquistare lucidità,
freddezza di pensiero, oggettività. Nel combattere con l’altro sono le mie
paure a guidarmi; con Dio, che mi porta a rifondarmi su ciò che è essenziale,
posso guardare alla situazione con una prospettiva “dall’alto”, considerando
non solo la delusione del presente, ma da quale storia assieme io e l’altro
veniamo e verso dove vogliamo andare.
Con Dio riconosco i “demonietti”
che gettano benzina nel fuoco del litigio: modi inadeguati di gestire la
situazione rinfacciandosi vecchie colpe, ferendo l’altro nei suoi punti di fragilità,
agendo una violenza fisica, verbale, psicologica.
Nel deserto si tace per pensare e
si pensa… a volte per tacere.
Mi ritiro nel deserto per pensare
un diverso modo di essere.
Ci vado con il mio Signore, per
caricarmi di un diverso modo di essere.
Rientro poi nella vita, per
sperimentare un diverso modo di essere.
Senza i due precedenti,
quest’ultimo passaggio è azzardato e velleitario.
E che cosa sono i primi due se
non la preghiera?
E dalla preghiera, che è questa
comunione con Dio, che cosa esce?
Non una soluzione (era una
soluzione al problema quella che cercavo!).
No: dalla preghiera esce una
riconciliazione, perché la relazione viene prima di qualsiasi soluzione. Quando
ci si mette in comunione con Dio, questa comunione diventa comunione con
l’altro. Comunione, non sottomissione, non sopraffazione. Né vincitore né
vinto.
Prima sì, prima volevo vedere
vincere le mie ragioni, anche schiacciando l’altro; e l’altro faceva
altrettanto con me.
Non voglio più giocare questo
gioco.
Si può andare avanti mediando in
modo intelligente.
A volte, però, c’è un muro.
Qui, a volte, Dio può aprirmi gli
occhi su una prospettiva spiazzante: usare questa situazione per crescere
umanamente.
E allora abbasso le armi e lascio
che l’altro spelli vivo il Nemico che vive in me. E’ il mio battesimo: accetto
che venga ucciso il mio uomo vecchio perché ne nasca l’uomo nuovo.
L’uomo vecchio che deve vincere
per sentirsi qualcuno. Prigioniero del proprio io.
Chissà… un giorno riuscirò a
liberarmi del mio io prima che lo faccia la morte?
Michele Bortignon
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