4/01/2019

Anche a me serve un deserto?


Il deserto: per Israele, quarant’anni di cammino prima di entrare nella terra promessa con qualche speranza di vincere i popoli che vi erano insediati.
Una storia di guerriglie tra beduini vecchia di migliaia di anni, che, pure, continuiamo a leggere, scrutandone il significato.
Perché?
Perché anche la nostra vita è continuamente in cammino tra una situazione che non sopportiamo più (l’Egitto) e una che sogniamo (la terra promessa).
Ma quando questa terra promessa cerchiamo di costruirla a nostra misura, ci scontriamo con la “misura” degli altri e scoppiano guerre senza esclusione di colpi.

L’aggirarsi per il deserto per quarant’anni diventa allora metafora di un tempo intermedio, necessario per un cambiamento intelligente.
Innanzitutto, cos’è questa “terra deserta, arida, senz’acqua”?
E’ la disponibilità a mettere in discussione le mie soluzioni, quelle prospettive così “giuste” che -guarda caso!- per gli altri tali non sono.
Dura, ma necessaria, decisione quella di accantonare quel che mi disseta per cercare qualcosa che non so.
Il deserto diventa, così, tempo in cui far sbollire la rabbia, calmarsi e mettersi in ascolto, attendendo una Parola al di là delle piccole guerriglie che intraprendiamo per soddisfare i nostri piccoli interessi.
Una Parola che ci mette tempo ad emergere, ma, quando lo fa, si riconosce dalla pace che l’accompagna e che ti avvolge.

Il deserto è necessario per allontanarmi da ciò che preme su di me emotivamente, per riacquistare lucidità, freddezza di pensiero, oggettività. Nel combattere con l’altro sono le mie paure a guidarmi; con Dio, che mi porta a rifondarmi su ciò che è essenziale, posso guardare alla situazione con una prospettiva “dall’alto”, considerando non solo la delusione del presente, ma da quale storia assieme io e l’altro veniamo e verso dove vogliamo andare.

Con Dio riconosco i “demonietti” che gettano benzina nel fuoco del litigio: modi inadeguati di gestire la situazione rinfacciandosi vecchie colpe, ferendo l’altro nei suoi punti di fragilità, agendo una violenza fisica, verbale, psicologica.
Nel deserto si tace per pensare e si pensa… a volte per tacere.

Mi ritiro nel deserto per pensare un diverso modo di essere.
Ci vado con il mio Signore, per caricarmi di un diverso modo di essere.
Rientro poi nella vita, per sperimentare un diverso modo di essere.
Senza i due precedenti, quest’ultimo passaggio è azzardato e velleitario.
E che cosa sono i primi due se non la preghiera?

E dalla preghiera, che è questa comunione con Dio, che cosa esce?
Non una soluzione (era una soluzione al problema quella che cercavo!).
No: dalla preghiera esce una riconciliazione, perché la relazione viene prima di qualsiasi soluzione. Quando ci si mette in comunione con Dio, questa comunione diventa comunione con l’altro. Comunione, non sottomissione, non sopraffazione. Né vincitore né vinto.
Prima sì, prima volevo vedere vincere le mie ragioni, anche schiacciando l’altro; e l’altro faceva altrettanto con me.
Non voglio più giocare questo gioco.
Si può andare avanti mediando in modo intelligente.

A volte, però, c’è un muro.
Qui, a volte, Dio può aprirmi gli occhi su una prospettiva spiazzante: usare questa situazione per crescere umanamente.
E allora abbasso le armi e lascio che l’altro spelli vivo il Nemico che vive in me. E’ il mio battesimo: accetto che venga ucciso il mio uomo vecchio perché ne nasca l’uomo nuovo.
L’uomo vecchio che deve vincere per sentirsi qualcuno. Prigioniero del proprio io.

Chissà… un giorno riuscirò a liberarmi del mio io prima che lo faccia la morte?

Michele Bortignon



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