Durante le mie ultime vacanze ho
passato qualche giorno in Val di Funes. Nel centro visite del parco Odle Puez
una delle installazioni mostrava un’intervista a Reinhold Messner, nativo di
quella valle, in cui questi parlava, tra le altre cose, di filosofia
dell’alpinismo.
La cosa ha subito attirato la mia
attenzione: l’alpinista che sono stato si è messo in dialogo con
l’accompagnatore spirituale che sono ora, trovando nessi e parallelismi tra
alpinismo e spiritualità.
Uno pensa che arrampicare sia semplicemente salire una
parete; o che avere una vita spirituale sia semplicemente avere una relazione
con Dio. Ma perché, e, conseguentemente, come lo si fa?
Iniziamo dall’alpinismo.
Nel secolo scorso si
susseguirono, e parzialmente si sovrapposero, due forme di alpinismo:
l’alpinismo eroico e l’alpinismo sportivo.
Per l’alpinismo eroico
l’obiettivo era la conquista della cima, anche a costo della vita. In
quest’ottica, la montagna era solo un supporto della cima e dell’affermazione
di chi la saliva.
Per l’alpinismo sportivo (penso
soprattutto al suo rappresentante più puro che fu Paul Preuss) arrampicare non
è una “lotta con l’alpe”, ma una danza sulla roccia, in cui voglio riempire di
bellezza ogni mio gesto all’interno della bellezza che mi circonda. Per questo,
rischiare fino alla morte non ha senso, ma si cerca la sicurezza (Preuss diceva
che si può salire solo dove si è poi in grado di scendere). La montagna è una
controparte non da vincere, ma da rispettare, per cui passo unicamente dove mi
lascia passare, senza forzarla con mezzi artificiali. L’obiettivo non è più la
conquista della cima ma la bellezza dell’esperienza che vivo in montagna.
La modalità “eroica” di vivere
l’alpinismo mi richiama tanto la spiritualità in cui tutti siamo stati educati
nel secolo scorso, dove modelli erano santi dagli inarrivabili esempi, martiri,
asceti o comunque estremisti dello Spirito. E, più laicamente, gli eroi che si
sacrificarono per la patria (ho ancora in mente le storie di Muzio Scevola,
Orazio Coclite e Pietro Micca).
Il sacrificio era via alla
perfezione, gratificato dall’approvazione sociale e religiosa.
Oggi la situazione è
completamente diversa: chi si lascerebbe entusiasmare da una buona novella
annunciata al modo eroico? E come si può presentare questo stesso messaggio a
una coscienza frantumata dal relativismo, inconsciamente schiava della
mentalità veicolata dai media, incapace di instaurare relazioni che non siano
virtuali, che cerca il proprio piacere nell’attimo fuggente senza minimamente
preoccuparsi del futuro, nemmeno del proprio?
Sarò cinico, ma bisogna saper
aspettare che la vita dimostri l’inconsistenza delle sicurezze a cui questa
persona si era appoggiata, avviando, nel conseguente disorientamento, una
ricerca. In quel momento è importante che essa incontri un orizzonte di senso
alternativo, ma che lo incontri vissuto, non solo proclamato. E vissuto come
risposta a questi tempi, inculturato nel qui e oggi della storia.
In che modo? Qui forse ci viene
in aiuto il parallelo con l’alpinismo sportivo.
L’uomo d’oggi non è più
interessato a conquistare il futuro, ma a vivere il presente. In questo
presente ha confuso piacere e bellezza e si è trovato deluso, confuso e
scoraggiato.
Vogliamo provare a fargli
riscoprire e gustare la bellezza? …cosicché cominci a sentire il desiderio di
viverla nei suoi gesti, di raggiungerla e realizzarla con le sue scelte?
La Bellezza può essere un altro
modo per cominciare a parlare di Dio a una persona che, nella sua diffidenza
verso tutto ciò che sa di istituzionale, si metterebbe sulle difensive. Con la
chiave della bellezza si può scandagliare nella vita ciò che è vero e vale la
pena di essere vissuto.
Alla bellezza si arriva
attraverso l’armonia e l’equilibrio, ma non senza una passione che chiama a
mettere in gioco tutte le energie: non è più eroismo, ma uso sapiente delle
proprie risorse in vista di una Vita di livello superiore.
Michele Bortignon