12/14/2024

L’orma del pellegrino: cap.3 - Il mondo alla rovescia

Mentre la chiesa parrocchiale sorgeva sulla sommità del colle che dominava il villaggio, la piazza del mercato era stata ricavata in una grande conca che si stendeva ai suoi piedi, in cui nessuno aveva fabbricato perché, nella stagione piovosa, l’acqua che vi si raccoglieva formava un pantano impraticabile.

In occasione della festa, decine di bancarelle offrivano i prodotti più svariati, in un bailamme di grida, di odori, di tinte, di sapori che eccitavano i sensi a concedersi di provare ogni novità.

Data l’ora, la maggior parte della gente si accalcava verso la grande tenda della cucina, davanti alla quale lunghe tavolate erano già stipate di persone in attesa dei piatti che alacri inservienti erano pronte a distribuire.

A delimitare la zona, era appesa una grande tela che a colori vivaci raffigurava le meraviglie del paese di Cuchagna, magistralmente illustrate da un cantastorie per intrattenere gli avventori. Gli occhi e gli orecchi di tutti erano attenti a cogliere ogni dettaglio di quel mondo paradisiaco di cui il pranzo nel quale stavano per immergersi era anticipazione e promessa, sacramento laico di un sogno impossibile.

«Il territorio del paese di Cuchagna è nascosto in un remoto angolo del mondo, che nessuna caravella spagnola ha ancora scoperto» iniziò il cantastorie sulle note di una nenia antica. «Noi abbiamo scalato laggiù montagne fatte di formaggio tenero, duro e mezzano. Credetemi: ve lo giuro! Non potrei dire una sola bugia, per tutti i tesori che la terra nasconde! Là scorrono a valle profondi fiumi di brodo, che sfociano in un lago di zuppa e in un mare di sugo. Vi si vedono andare e venire barche di pasta sfoglia, i cui marinai calano reti di salsicce intessute di trippe di vitello con le quali pescano gnocchi, frittelle e polpette. I pendii dei monti son fatti di burro fresco e tenero, e sulle loro cime gli dei si dan da fare per nutrire gli uomini: alcuni grattugiano come neve il formaggio, mentre altri rotolano giù valanghe di gnocchi, che, rimbalzando sul formaggio, diventano grossi come botti. Devi allora sganasciarti le mascelle se vuoi riempirti la pancia con bocconi di tal misura! Altri dei tagliano la pasta e riempiono di lasagne pentole fumanti. Altri ancora, quando il brodo trabocca per l’eccessivo calore, tirano da parte i tizzoni e soffiano sulla schiuma. Insomma ognuno di loro si dà da fare a preparare le più gustose vivande, per cui da sotto si vedono dense nubi di vapore provenienti da mille paioli che borbottano appesi alle catene1».

Un lungo applauso omaggiò la conclusione della storia e l’arrivo delle vivande.

Per primi furono serviti i tortelloni di polpa di zucca con salsa calda al crespino, seguiti da salcicce di Navarra in crosta di pan di miglio, quindi quaglie alla castigliana con mostarda di melone, per finire con la torta di pan di Spagna ripiena di mandorle peste e scorzette d’arancia candite. Un generoso vino andaluso annaffiava i piatti, rallegrando gli animi e rendendo ardite le mani degli uomini, che non di rado si allungavano sulle rotondità delle inservienti.

Nel volgere di un’oretta, i canti di quanti avevano già finito il pasto, riuniti a capannelli, cominciarono a risuonare qua e là, incoraggiati dal passare di mano in mano di piccoli otri di pelle pieni di distillato di vinaccia. Altri avevano estratto i dadi, che veloci rotolavano sotto gli occhi avidi di quanti aspiravano a un bacio della dea bendata. Altri ancora si limitavano a bere ostinatamente, chi sprofondando nella più cupa tristezza, chi entrando in un circolo di inarrestabile ilarità.

Scoppiarono le prime zuffe, avviate da chi non si rassegnava alla propria sfortuna al gioco; molti erano accasciati sopra o sotto i tavoli, abbruttiti dall’alcool; qualcuno era andato ad appartarsi per godere di un fugace amore clandestino.

Seduto in un angolo, don Manuel guardava e non capiva.

Lui, così sempre studiatamente equilibrato, aveva, sì, sentito i classici latini affermare che “Semel in anno licet insanire”2, ma non ci si era mai trovato dentro.

Il suo imbarazzo doveva apparire abbastanza evidente, tanto che un tale, uno dei pochi ancora sobrii, gli si avvicinò con il proprio bicchiere ancora praticamente pieno, sedendoglisi accanto.

«Non le piace la nostra festa?».

«Non la capisco: non riesco a mettere assieme quel che è successo stamattina e quel che sta accadendo adesso. Sembra che il mondo si sia rovesciato, trasformandosi nel suo opposto. E la gente passa dall’uno all’altro con una naturalezza sconcertante, quasi con incoscienza».

«Ha la benché minima idea di cosa vivano queste persone lungo tutto il resto dell’anno? Fatica, dolore, paura, miseria. Un giorno all’anno possono fuggire da tutto questo. Taverna e vino sono la chiesa e la liturgia che danno accesso a un paradiso effimero, ma reale, fatto di cibo, gioco e sesso».

«E la Chiesa non cerca di cambiare le cose, o perlomeno di dare un senso a questa situazione?».

«La Chiesa? E dov’è la Chiesa? Qui, come quasi dappertutto, il vescovo non è residente e il parroco nemmeno. Diocesi e parrocchie non sono più funzioni, ma benefici da assegnare per il mantenimento di qualche nobile cadetto. Guardami, sono io qui il vicario del parroco: un contadino ignorante a cui è semplicemente richiesto di saper amministrare i sacramenti, presiedere la liturgia e la cui unica conoscenza teologica sono i dieci comandamenti. Dimmi tu cosa posso fare io! Chi potrebbe dire qualcosa, qui, sono i frati predicatori, che un po’ hanno studiato. Ma hai sentito anche tu stamattina: sono capaci solo di alimentare la paura per interesse. E così la religione non serve che a salvare dall’inferno quando si muore o a sperare in un miracolo quando le cose si mettono al peggio».

«Ma… e Cristo? Lui è entrato nella nostra situazione per insegnarci a viverla da Uomini!».

«Si… Cristo lo ricordano solo per i suoi meriti, da distribuire a sconto della pena per i peccati. Peccate pure - sembrano dirci, tanto ci siamo qui noi a cancellare tutto a buon prezzo. La Chiesa non è preoccupata di cosa facciamo, ma di come pensiamo. E allora noi pensiamo come dice lei e facciamo come diciamo noi. E così siamo contenti tutti».

«Contenti? Se la religione trasforma la fede in un formalismo, ruba alla gente il frutto del Vangelo: la pace, la gioia, la libertà interiore!».

«Sì, scusa, hai ragione: mi sono lasciato trasportare dall’amarezza. La nostra è una “contentezza” che lascia l’amaro in bocca. E’ come quando sei contento perché puoi bere fino a ubriacarti, e in quel momento ti senti padrone del mondo; ma poi, quando ti prende quel mal di testa che ti fa scoppiare il cervello, ti senti soltanto un coglione. Sei fuggito per un attimo, ma quando ritorni è peggio di prima, perché la caduta ti ha bruciato la speranza di poter volare».

«Che pena!».

«Veramente… Una pena infinita!». Battè i pugni sul tavolo e vi premette contro la fronte: «Dio! Dio… chi potrà restituirti a noi come Salvatore?!».


Una concitata discussione, sviluppatasi poco distante, attirò l’attenzione di don Manuel. «Andiamo a vedere cosa sta succedendo?», chiese al suo interlocutore. Avvicinandosi, cominciarono a distinguere le esclamazioni provenienti dal capannello di persone accalorate nel manifestare la propria approvazione a un tale, dall’aspetto più curato rispetto agli altri contadini, che stava esponendo animatamente il contenuto di un foglio che aveva affisso alla parete.

«Bravo!», «Giusto!», «E’ proprio quello che vogliamo!» gridavano i convenuti, accompagnando le parole con eloquenti gesti di rabbia contro il bersaglio di quella protesta.

«Guardate: i signori e i prìncipi sono l'origine di ogni usura, d'ogni ladrocinio e rapina; essi si appropriano di tutte le creature: dei pesci dell'acqua, degli uccelli dell'aria, degli alberi della terra. E poi fanno predicare tra i poveri il comandamento di Dio "Non rubare"; ma questo non vale per loro! Riducono in miseria tutti gli uomini, pelano e scorticano contadini e artigiani e ogni essere vivente; ma, per quest’ultimi, alla più piccola mancanza c'è la forca!»3.

«Cosa vuol dire?» chiese don Manuel al prete.

«Le terre che un tempo erano di uso comune, a servizio di tutti per praticarvi il pascolo, la raccolta della legna, la caccia e la pesca, i signori se le sono fatte proprie e guai a chi ci entra! L’unico “diritto” di noi contadini è di sopportare le angherie e le vessazioni di chi ci minaccia con le armi!».

Alzando le braccia e guardandosi attorno con fare imperioso, l’improvvisato predicatore ottenne silenzio. «Queste sono le nostre richieste» proclamò con voce stentorea indicando il foglio: «e dobbiamo essere uniti e concordi nel rivendicarle!». Quindi, soffermandosi nella lettura dopo ciascuna di esse per raccogliere l’approvazione del suo uditorio, enunciò gli “articoli di lamentela” dei contadini:

  1. Basta corvée: i servizi ai signori devono essere liberi e retribuiti

  2. Diminuzione dei canoni d’affitto e dei tributi fissi e occasionali

  3. Restituzione del diritto d’uso dei pascoli, dei boschi e della libertà di caccia

  4. Le pene devono essere applicate secondo diritto, non ad arbitrio dei signori

  5. Eliminazione del “mortuario”, il diritto dei signori di appropriarsi delle proprietà alla morte del capofamiglia

«Todo es para todos!»4 gridò, a conclusione della sua arringa, facendo scoppiare un’ovazione di plauso alle proprie parole.

Don Manuel e il prete del villaggio si guardarono l’un l’altro: era quello il modo in cui Dio stava rispondendo al grido di dolore del suo popolo?




1 Liberamente tratto e adattato dal cap.1 del “Baldus” di Teofilo Folengo.

2 Per un giorno all’anno si può anche fare i matti

3 Thomas Müntzer, Confutazione ben fondata

4 «Omnia sunt communia!» era il grido con cui in Germania Thomas Műntzer incitava i contadini alla rivolta.

12/01/2024

La fatica di vivere

Un limite bloccante, un bisogno insoddisfatto, una sofferenza senza prospettive quando si protraggono nel tempo provocano una tristezza, uno scoraggiamento, un esaurimento di energie che si traducono in fatica di vivere. Aggravata, tra l’altro, da una sorta di invidia o da un senso di ingiustizia che ti prende nel considerare che gli altri sembrano invece essere soddisfatti, appagati nei loro bisogni: loro hanno quel che tu vorresti avere! Hai la sensazione di essere l’unico sfortunato a questo mondo o che comunque la sorte con te si stia accanendo in modo particolare.

Si tratta veramente di una sfortuna, di una disgrazia o, sotto a queste, la vita ti sta lanciando una sfida di crescita verso un “di più” che la semplice assenza di problemi mai avrebbe permesso di raggiungere? Qual è il “Salvatore” nascosto nella stalla? Qual è lo schiaffo che ti sveglia perché torni a ricentrarti nella verità di te stesso? In quale falsa prospettiva di vita ti sei bloccato, che ora questa situazione fa andare in frantumi? Accettare questa sfida a rimettere tutto radicalmente in discussione: questo è cavalcare da protagonisti la propria situazione per darle un senso, per darle comunque un orientamento verso la Vita.

Se diamo credito a Cristo, questo senso lo si trova amando, in un amore che gratuitamente dona, trovando la propria ricompensa non nell'essere ricambiato, ma nell'essere in comunione con l'Amore stesso, nel sentire che amare è Vita.

Un’ “altra” pienezza, quella di essere figlio di Dio, è riservata a chi con Cristo, pensando agli altri, ama morendo a se stesso, accogliendo il proprio limite, portando la propria sofferenza. Come figlio mi aspetto e aspetto da Dio quella pienezza che rinuncio a cercare con i miei mezzi o a rivendicare con rabbia o tristezza. In quanto figlio, quest’attesa è piena del desiderio di Lui, del pensiero di Lui, della nostalgia di Lui, dell’amore per Lui. Proprio in questo cerco e trovo la mia dolcezza, il sentirmi suo, il sentirlo mio. Proprio in questo trovo già la mia pienezza: Dio in me e io in Lui. Sulla strada di Cristo, reso Dio nel suo Santo Spirito.

A costo di morire a te stesso, di accogliere il tuo limite, di portare la tua sofferenza, mantieni dunque la posizione, resistendo agli attacchi dell’angoscia, della tristezza, dello scoraggiamento. Quando senti che stai per cedere, fa rivivere in te il ricordo dei momenti in cui Dio si è fatto presente, per ravvivare la fiducia che, quando servirà, ancora ci sarà.

Mantieni la posizione. Sei il suo luogo-tenente perché il Nemico non rompa sul fronte che stai occupando e invada le posizioni di cui sei a capo: tutte le persone che possono essere influenzate dal tuo modo di essere e di affrontare le difficoltà. Se cedi, toglierai loro la speranza che nella morte si possa vivere da risorti. E, come il Risorto, proprio dalle tue ferite uscirà una luce: calore per il tuo cuore e chiarezza per il buio che ti circonda.

Tu in Lui e Lui in te. Può bastare e, allo stesso tempo, essere molto di più di quanto tu possa mai avere sperato. Sperarlo è fede. Viverlo è felicità.

                                                                                             Michele Bortignon

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