1/14/2025

L’orma del pellegrino: cap.4 - Manresa

Le nove grandi arcate del “Pont Nou” superavano il rio Cardoner introducendo il “camino real”, proveniente da Zaragoza, nella città di Manresa.

Ancora un breve tratto di salita, lungo la carretera de Cardona, e don Manuel si trovò davanti alla mole del convento dei Domenicani.

L’ordine del santo di Guzmàn era quello più legato all’inquisizione, in quanto i frati predicatori erano nati proprio per contrastare l’eresia. In un primo tempo l’avevano fatto semplicemente con la forza della Parola e della coerenza tra questa e la propria vita; più tardi, dopo la svolta impressa da Gregorio IX° in seguito alla recrudescenza della lotta contro il catarismo, erano diventati accusatori e giudici in processi analoghi a quelli delle cause civili, fino ad arrivare all’uso della tortura, autorizzata da Innocenzo IV° con la bolla “Ad extirpanda”, per strappare agli eretici la confessione delle depravazioni commesse seguendo le proprie false dottrine.

L’ospitalità dell’ordine era dunque dovuta all’inviato dell’inquisitore generale di Toledo.

Lo scampanellìo al portone d’ingresso fece accorrere il fratello converso che in quel momento svolgeva il servizio di portinaio. Al riconoscere il sigillo dell’inquisizione sul documento che gli veniva presentato, aprì subito la porta e si precipitò ad avvertire il priore. Nel frattempo, il frate addetto alla “domus hospitum” lo stava invitando a entrare in chiesa: «La comunità è riunita nel coro per i vespri» disse. «Puoi parteciparvi; poi ti condurrò nella tua cella».

«Media vita in morte sumus.

Quem quærimus adjutorem nisi te, Domine,

qui pro peccatis nostris juste irasceris?

Sancte Deus, Sancte fortis,

Sancte et misericors Salvator,

amaræ morti ne tradas nos1».

Le note del canto gregoriano riempivano le navate della grande chiesa.

Don Manuel si fermò a osservarne l’architettura: poco oltre la metà dell’aula un tramezzo separava il coro dalla parte destinata ai fedeli. In esso si apriva un portale, sovrastato da una grande croce, che permetteva di vedere l’altare.

Si avvicinò, mettendosi a sedere in disparte, in una posizione che comunque gli consentisse di assistere alla liturgia.

«Ne proficias nos in tempore senectutis

cum defecerit virtus nostra,

ne derelinquas nos, Domine sancte.

Sancte Deus, Sancte fortis,

Sancte et misericors Salvator,

amaræ morti ne tradas nos2».

Il vasto spazio al centro del coro, attorno al quale si allineavano gli stalli, era occupato dall’invisibile presenza di Dio, simbolizzata da un leggìo, sopra il quale era aperto il libro delle Scritture. I frati erano completamente assorti in quella preghiera che concludeva la loro giornata, tutta scandita dall’orazione, come prescriveva il salmo: “Sette volte al giorno io ti lodo, e nel cuore della notte mi alzo a renderti grazie3.

«Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto.

Sancte Deus, Sancte fortis,

Sancte et misericors Salvator, 

Amaræ morti ne tradas nos4»

Il “Salve Regina”, cantato processionalmente, concluse la liturgia. L’assemblea si sciolse, ma, questa volta ciascuno per suo conto, i frati continuarono le loro devozioni con l’esame di coscienza, al termine del quale c’era chi visitava tutti gli altari, prostrandosi umilmente davanti a ciascuno e piangendo, e chi, in un angolo appartato, si disciplinava duramente per i difetti riscontrati, con verghe o con funicelle nodose.

Raggiunto dal fratello ospitaliere, don Manuel fu accompagnato alla sua cella. Essendo troppo tardi per cenare con la comunità, gli fu dato un pane e dell’acqua per ristorarsi.

«Il priore mi ha detto che ti riceverà domattina. Per ora riposati. “Il Signore ti benedica e ti custodisca”5. Buonanotte».

L’apertura strombata della stretta finestra affacciata sul chiostro lasciava penetrare nell’angusta stanza l’ultima luce del giorno. Controllò che la lucerna fosse al suo posto nella nicchia sul muro e, dato appena qualche morso alla pagnotta, crollò, stanchissimo, sul pagliericcio.

Dopo le lodi mattutine, il priore fece avvertire don Manuel che lo avrebbe atteso nel chiostro, dove era solito passeggiare in meditazione.

Era, quello, il momento che preferiva: un intimo colloquio col suo Signore al di fuori delle formule della preghiera liturgica. “Nolite loquere nisi cum Deo vel de Deo”6, aveva raccomandato Domenico, il loro fondatore. Perfino il parlare di Dio, in cui il verbo divino passava attraverso la parola umana, anche se era il carisma dei frati predicatori e il momento forte della loro spiritualità, non eguagliava nel suo cuore quel sommesso comunicarsi della sua anima, che era per lui un confidarsi, un fidarsi, un affidarsi. Solo qui si sentiva “uno” con il suo Signore nel parlare con Lui dei suoi figli spirituali, riguardo alle afflizioni che li angustiavano, alle tentazioni che li tormentavano, ai dubbi che li facevano vacillare. Uno con il suo Signore e uno con i suoi figli, sentiva che, nel suo cuore in preghiera, l’amore per l’uno e per gli altri permetteva l’incontro reciproco, facendo emergere la Parola che, vissuta, poteva dare salvezza. Come gli antichi Abbas, padre Guillermo Perellos raccoglieva le confidenze dei suoi frati nei loro pensieri più selvaggi e restituiva la pace, nella misericordia e nella fiducia che Cristo dava loro attraverso di lui.

Don Manuel lo scorse mentre, uscendo dalla penombra di un’arcata del chiostro, si fermava a gustare, gli occhi chiusi, una sciabolata di luce che penetrava tra le colonne. Il suo volto era rivolto verso l’alto, a cercare Colui che in tale luce, in tale calore gli si comunicava tangibilmente: carezza divina, forma concreta di un’inconcepibile trascendenza.

Quando, al termine di quel breve momento di eternità, il priore si accorse della presenza del nuovo ospite, gli sorrise: «Anche su di te il Signore faccia risplendere il suo volto e ti dia pace!»7. Le braccia aperte, gli andò incontro e lo strinse a sé in un abbraccio senza fretta, quasi a volergli trasmettergli quel calore di cui si era appena caricato nell’intimo. Pure, nel riceverlo, don Manuel sentì come una fitta nel petto, quasi che quel calore avesse dolorosamente risvegliato, per contrasto, un’area di gelo in cui tutto era bloccato, rimosso, luogo di fantasmi che non dovevano uscire allo scoperto. «Dunque, questo è un padre!» pensò, subito scacciando spaventato quell’idea come insopportabile.

«Padre…», e la voce gli tremò nel pronunciare quella parola, «Sono stato inviato per acquisire informazioni su una persona che, qui a Manresa, senza avere lo studio necessario e senza porre sotto il controllo della Chiesa il suo operato, ha aiutato nelle cose spirituali alcune anime. La faccenda ha dato nell’occhio, soprattutto perché sembra non si tratti di un’attività occasionale, estemporanea, ma pianificata nei tempi e nei modi attraverso un metodo contenuto in un suo manoscritto…».

«Si… credo di conoscere la persona che cercate. Un certo Iñigo. Ha abitato nella nostra foresteria per alcuni mesi. Una persona molto devota… Si è attirato le simpatie della gente, che ha saputo del suo aver abbandonato la carriera nobiliare per intraprendere la vita del pellegrino, in assoluta povertà. Si è fermato da noi finché il porto di Barcellona, chiuso per l’imperversare della peste in città, è stato riaperto. So che intendeva continuare il suo pellegrinaggio recandosi ai luoghi santi…».

«Ha avuto modo di conoscerlo da vicino finché è rimasto qui?».

«Certo: sono stato il suo confessore!».

«Può assicurarmi che, perlomeno, il suo spessore spirituale, la sua conoscenza delle vie di Dio gli dessero la capacità di accompagnare spiritualmente le persone senza indurle in errore?».

Non era una risposta facile da darsi. Nel passato, gli eretici, per il fatto di vivere poveramente come Cristo era stato povero, si erano sentiti investiti dello Spirito di Dio, e, con esso, dell’autorità di dirigere le coscienze. Una parte della verità era stata da loro assunta come il tutto e questo, appunto, aveva reso eretica la loro dottrina.

Anche Iñigo aveva creduto che imitare Cristo era vivere povero con Lui povero. Probabilmente anche per rendere più radicale quella sua rinuncia a un mondo di cui aveva sperimentato l’illusorietà. Quando il priore l’aveva conosciuto, era vestito di un sacco, trascurato fino a lasciarsi crescere incolti i capelli, a somiglianza degli antichi anacoreti del deserto.

Una volta erano entrati nel discorso di come aiutare le persone a incontrarsi con Cristo. Iñigo gli aveva allora parlato di una sua visione: pronti al combattimento stavano da una parte Satana con i suoi demoni tentatori, dall’altra Cristo con coloro che aveva eletti ad aiutarlo. Il primo incatenava gli uomini al desiderio delle ricchezze e del successo, fino a spingerli a rinnegare Dio. Dall’altra parte, Cristo chiamava i suoi amici ad aiutare tutti gli uomini conducendoli anzitutto a fidarsi di Dio e, se Egli per questo avesse voluto sceglierli, anche alla povertà materiale; poi al desiderio di ricevere umiliazioni e disprezzo, perché da questi nasce l'umiltà8.


Era quella la strada giusta? Oppure la vita spirituale era molto più complessa e, per aiutare le persone a risorgere dalle loro morti, occorreva una sapienza basata su una maggior delicatezza, comprensione, pazienza, dolcezza, ascolto?

Tutto quel che poteva dire è che Iñigo era una persona in ricerca. Onestamente in ricerca. Certo, appesantita da una storia che condizionava il suo modo di avvicinarsi a Dio. Ma non era, questa, la condizione di tutti?

Padre Guillermo, il priore domenicano “non allineato”, che aveva scoperto la tenerezza della misericordia di Dio, pensò che difficilmente il rigido funzionario dell’inquisizione avrebbe potuto capire per quali contorte e altalenanti vie a volte un’anima può uscire alla luce. E, soprattutto, che è proprio questa esperienza ad abilitarla ad aiutare altri che si trovino nelle sue stesse precedenti condizioni.

«Ascolta» gli disse, «Ti racconterò quel che Iñigo mi ha riferito di ciò che ha vissuto sulla montagna di Montserrat, quando, prima di arrivare qui, si consacrò alla “Virgen morenita”. Lasciamo prima che sia la sua vita a parlare per lui!».



1 A metà della vita siamo nella morte. 

Da chi dobbiamo cercare soccorso se non da Te, o Signore, 

che giustamente sei adirato per i nostri peccati? 

Santo Dio, Santo Forte, Santo e misericordioso Salvatore, 

Non consegnarci a una morte amara. 

2 Non scagliarci lontano da te nel tempo della vecchiaia.

Quando vengono meno le nostre forze,

non abbandonarci, Signore.

Santo Dio, Santo Forte, Santo e misericordioso Salvatore, 

Non consegnarci a una morte amara. 

3 Sal 119, 164. 62

4 Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo.

Santo Dio, Santo Forte, Santo e misericordioso Salvatore, 

non ci dare una morte amara. 

5 Nm 6, 24

6 Non parlate se non con Dio o di Dio

7 Nm 6, 25-26

8 EE.SS. n.136-146

1/01/2025

Fare il bene. Perché?

È inquietante pensare che proprio all’interno della relazione con Dio sia in agguato l’illusione. Il periodo della scoperta di Dio è entusiasmante: guardando con Lui il mondo, tutto si riempie di significato; fare con Lui ti riempie di soddisfazione.

Sì, può essere un buon avvio sulla giusta strada, perché fa gustare la bontà, la bellezza, l’utilità del bene, ma porta con sé un rischio: potresti continuare a fare il bene perché ti dà gusto, non perché è giusto. Non te ne accorgi, ma cominci a fare il bene per te e non più con il Signore: il bene che fai tiene conto dei tuoi bisogni, mentre quelli degli altri passano in secondo piano; e così, col tempo, si va trasformando in un non-bene. Inoltre, in questo tuo fare il bene in modo autocentrato ti aspetti una risposta dagli altri, esigi un ritorno all’impegno che ci metti: se non ci trovi gusto, soddisfazione, realizzazione, perché farlo?

Smarrito, volgi allora a Dio lo sguardo, a quel Dio che finora hai creduto fonte delle tue consolazioni. Ma Dio tace. È la notte dei sensi, la notte in cui ti ha fatto sprofondare il tuo rapporto sensuale con Dio, la crisi di una relazione con Dio funzionale ai tuoi sogni e ai tuoi bisogni, una relazione che sei tu a gestire, secondo i tuoi parametri.

Ma “Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,24): nella fede, nella speranza, nell’amore.

Ascoltare un richiamo e seguirne la direzione: questa è fede.

Guardare nella nebbia e giurare di aver visto uno spiraglio: questa è speranza.

Sentire che la meta è già dentro di te se non la cerchi da solo: questo è amore.

Fede, speranza e amore: il fuoco dentro di te che illumina la notte dei sensi aprendoti all’azione dello Spirito.

Attento però a non imboccare la via del protagonismo: è la direzione che accende in te la luce, non viceversa; ma non aspettarti nemmeno che faccia tutto Dio: la fiaccola deve protendersi verso la fiamma per potersi accendere.

Quando nasce il cambiamento? Quando ne avrai disperatamente bisogno.

La fede è mossa da un desiderio-speranza che si innesta su un fallimento-insoddisfazione: hai provato in tutti i modi, ma senza risultato, a risolvere il tuo problema con le risorse della ragione; ora provi a sperare che la risposta si apra nel percorrere un oltre che non conosci, ma che vedi vissuto da qualcuno nei cui occhi brilla una luce che ti affascina, segno che una risposta lui l’ha trovata.

Su questa fede puoi entrare nell’Oltre, nell’assurdo di scelte che, sulla base delle tue ragioni, mai avresti fatto, ma che, dai frutti, mostrano la loro validità e rivelano quindi la loro sensatezza. In questo modo la fede rifonda su nuove basi le tue ragioni e ti apre a una speranza più grande, verso cui cominci ad avviarti facendo scelte sempre più radicali.

Ma in che cosa hai fede quando hai fede in Dio?

La fede riposta in Dio è fede riposta nell’Amore.

Perché l’amore?

E perché Dio è amore?

Con le nostre scelte noi vogliamo confermare il nostro esserci e affermare il nostro essere.

Ci sono scelte istintive che ci affermano a scapito degli altri e quindi non possono durare nel tempo, perché gli altri prima o poi rivendicheranno i loro diritti calpestati.

L’unica scelta in cui possiamo affermare noi stessi affermando allo stesso tempo gli altri è l’amore.

Che cos’è l’amore? Prendersi cura. Semplicemente. Tenendo conto dell’altro.

Se qualcuno non si fosse preso cura di noi, adesso non esisteremmo.

L’amore è stato scritto nelle nostre fibre dalle cure dei nostri genitori; lo abbiamo poi dato e ricevuto nel rapporto con gli altri per aprire e scoprire nuovi mondi; per alcuni di noi, infine, si è reso persona nel nostro essere a nostra volta genitori.

Nell’amore siamo stati e ci siamo costruiti: se togli l’amore rimane il Nulla.

Sentiamo che l’amore è la nostra natura, lo stampo in cui siamo stati creati, e ci rendiamo conto che essere è essere-con, ma, assieme, avvertiamo in noi una forza, impastata di paura, che ci fa preoccupare solo per noi stessi.

In chi avverte in sé questa guerra e non vuol cedere le armi, lasciandosi andare alla deriva, nasce l’esigenza di un riferimento che lo rifondi sulla propria verità, ossia sul proprio essere amore.

Un riferimento che non può essere lui a costruire, perché avrebbe tutti i suoi limiti e quindi a nulla gli servirebbe; un riferimento che si rivela in tutte le esperienze d’amore autentico, tutte assommandole e tutte rilanciandole verso un di più, perché di ciò che è bello, di ciò che ci fa bene non abbiamo mai abbastanza.

Questo riferimento ha dunque la caratteristica di essere amore e di essere infinito.

A esso l’uomo ha dato il nome di “Dio”.

Questo è Dio, non quello che ti costruisci tu.

 

Michele Bortignon