3/15/2025

L’orma del pellegrino: cap.6 - La veglia d’armi

Ridisceso al monastero (ormai era quasi buio), Iñigo si preparò per la veglia d’armi. Ma era con uno spirito diverso che ora la stava affrontando: era svanita quella baldanza un po’ arrogante che lo spingeva a progettare il proprio futuro per Dio al di là di Lui. Ciò che aveva imparato dall’eremita poteva ben riassumerlo nelle parole di Isaia: “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell'abbandono confidente sta la vostra forza”1. Davanti alla Virgen morenita avrebbe dunque lasciato fosse Lui a parlare: a dirgli cosa lo chiamava a fare, non per Lui, ma con Lui.

Si inoltrò nella chiesa ormai immersa nell’oscurità. Ai lati della Vergine, i ceri che i monaci avevano lasciato accesi per lui gli indicarono la strada. Giuntole dinnanzi, si inchinò profondamente e con la destra tracciò su di sé il segno antico che diceva la sua volontà di compiere quanto stava per intraprendere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E, nelle fattezze scolpite da mani ispirate, cominciò a leggere il messaggio tramandato da secoli di preghiera appassionata al mistero di Dio.

Maria non era sola. Naturalmente! Lei, grembo in cui il Figlio di Dio era stato concepito ed era cresciuto, presentava al mondo quel figlio avvolto nel proprio abbraccio, carne della propria carne. Sì, era, quello, un Dio veramente capace di comprendere l’uomo perché nei movimenti di una stessa carne e di uno stesso sangue sentiva i limiti e le pulsioni, le paure e i desideri, i sogni e i bisogni della natura umana.

Un bimbo in braccio a sua madre: cosa ci può essere di più fragile e indifeso? Così si presenta il nostro Dio perché possiamo sentire accolta la nostra indifesa fragilità in un abbraccio che si prende cura e che il Figlio benedice, perché con il suo Spirito essa riprenda a camminare solida e capace nella vita.

Bruna era la pelle di entrambi: volti bruciati dal sole nel duro lavoro quotidiano. Essere uomini accanto agli uomini significa condividerne l’esistenza nelle attività da svolgere, negli affetti da nutrire, nei problemi da risolvere. La vita non è facile, e rende callose le mani di chi ne porta il peso; ma belle, perché in esse si leggono le tracce di un sudore che ha costruito umanità.

E questi volti di lavoratori erano incoronati: approvazione divina che glorifica l’umanità vissuta senza imbarazzo nel suo essere terra e sangue, perché in questa terra e in questo sangue Dio ha impastato il suo Spirito, rendendolo luce e forza di Vita. Lo sguardo di entrambi è rivolto a noi. Quando si è già in contatto di pelle, guardarsi l’un l’altro è chiusura intimistica. Fatti “uno” nell’intimo di una comunione di vita, possiamo guardare fuori di noi, attenti al bisogno di chi cerca ciò di cui noi sovrabbondiamo. E la sua fame farà emergere da noi ciò che lo nutre, saziando lui e lievitando noi.

Il mondo è nelle mani di questa madre. Non nelle mani di Dio, ma di una donna. Dio, che l’ha creato, in esso vuol continuare a operare unicamente per mezzo nostro, perché l’ha consegnato alla nostra responsabilità. Non a Lui dobbiamo chiedere miracoli, ma alle nostre mani e al nostro cuore.

Nella sua mano, il Cristo bambino tiene invece una pigna. Quel che appare duro legno, e spinoso, in sé contiene germi di nuova vita, e abbondante. Chiuso in se stesso, se si lascia avvolgere da un calore che ne scioglie le difese può aprirsi e scoprire dentro di sé ciò che non sapeva di contenere, senso al proprio essere e fonte di vita per altri: questo è l’uomo, quando si scopre e si accetta nella mano di Dio.

In ginocchio, il cavaliere di Loyola depose la sua spada e il suo pugnale ai piedi della Vergine e del Cristo, suo figlio. Altre armi gli avevano affidato in quel loro rivelarsi e consegnarsi a lui nella loro più intima essenza, nella loro missione al mondo, che ora volevano continuare attraverso di lui.

Sentì il suo cuore allargarsi a ricevere quanto gli veniva consegnato; e, con esso, una pace vasta e profonda, che lo penetrava rendendolo leggero, una piuma pronta a volare al soffio di un Dio che l’affidava al vento della vita.

Tacquero i pensieri di Iñigo, per lasciare che quella pace, più di loro sapiente, guarisse le sue paure, colmasse i suoi bisogni, tacitasse le sue ansie; e lo rendesse uno con Chi stava contemplando.

Non più parole: silenzio… pace… pace… solo pace.

Passò del tempo. Un attimo? Un’eternità?

E il suo sguardo tornò a posarsi sul loro, che ora percepiva porta su un infinito che lo chiamava a sé per farsi in lui via alla Vita.

Come poter far proprio questo loro sguardo sulla realtà? Come assimilarne la chiarezza, capace di far luce sugli inganni e intravedere, al di là di questi, le prospettive che si aprono a una pienezza di vita?

Fra’ Garì era caduto nell’inganno di parlare delle proprie vicende non con Dio, ma con il demonio, con la parte di sé presa nei lacci dell’istinto. E questi lo aveva appoggiato, sì, nel cercare il bene, ma… per vie più brevi. Sfocianti nell’abisso.

Con disagio e vergogna, il pensiero gli scivolò sull’incapacità di capire cosa fare che l’aveva preso qualche giorno prima, quando quasi stava pensando di uccidere una persona per una divergenza di idee su questioni d’onore.

«Maria!» invocò nel suo cuore, «Tu che meditavi nel tuo cuore ciò che ti succedeva, ottienimi da tuo figlio la capacità di accorgermi quando, come e verso dove sono trascinato dalla mia istintualità».

«Gesù, tu che, al pari di ogni uomo, sei stato tentato, ottienimi dal Padre la capacità di distinguere ciò che da Lui proviene da ciò che di Lui mi illude d’essere voce».

«Padre, tu che mi hai creato in tuo Figlio perché diventi tuo figlio, dammi un cuore capace di discernere, perché possa camminare sulla strada che mi porta a Te».

Di nuovo tacque. E, nel silenzio di ogni pensiero, sentì che in quella pace che lo invadeva c’era già la risposta. La pace. La pace vasta, profonda e duratura. Sì, la pace era il discrimine, il criterio per distinguere ciò che veniva da Dio.

Nel baluginare dell’alba, i monaci percorsero in corteo le navate semibuie, per disporsi quindi nel coro, attorno all’altare, ad accogliere, a nome della Vergine e del Figlio, la sua promessa di cavaliere.

Non più un’esposizione di impegni e promesse, ma un dono di sé a Dio, disponibile a una volontà da scoprire nella trama dei fatti quotidiani:

«Prendi, o Signore, e accetta

tutta la mia libertà, la mia memoria,

il mio intelletto, la mia volontà,

tutto quello che ho e possiedo.

Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono.

Tutto è tuo:

di tutto disponi secondo la tua piena volontà.

A me dà il tuo amore e la tua grazia:

questo solo mi basta».

Con la sua offerta di sé, la cerimonia era conclusa. I monaci si erano ritirati. Era rimasto solo.

E di nuovo si rivolse a Maria, per dirle ciò che in lei vedeva essere anche il proprio cammino, il cammino che adesso lo aspettava, e chiederle, in esso, di stargli accanto:

Ave Maria

compagna nel cammino

sorella nella fede

e madre nel dolore.


Grande il tuo sogno, Maria,

forte in te la tua speranza

per attirare il Signore

ad abitare il tuo corpo

e dar potenza a un amore

che del suo amore si fa segno.


Forse illusione è la tua:

come ti credi inviata

a donar carne al suo Verbo?

Ma ciò che Dio ha seminato

cresce da solo e dà frutto.

Lui lo difende e lo cura!


Fra le incertezze e le angosce,

tu lo volevi guidare.

Ma un’altra strada è la sua

e a seguirlo ti chiama

dove l’amor si fa pane

e condivide il dolore.


Tu t’affidasti, lasciando

ciò che sembrava più giusto

per creder buona una storia

che non capivi e feriva.

Ma, dalla morte, cambiato,

quel che donasti risorse.


Or grandi cose contempli,

frutto di un amore che tace

e dà spazio nel cuore

a un’altra voce che chiama

a spezzare ogni catena

e pace trovar nell’amare.


Al nostro fianco rimani

dove ti ha messa tuo Figlio

e con carezze di madre

a Lui rivolgi un cammino

che noi con fede vogliamo

muover sui passi del tuo.


Amen

1 Is 30, 15

3/01/2025

Che senso ha la vita?

Esserci. E’ il caso che ci ha gettati nella vita? Ed è sempre seguendo il caso che si snodano le nostre vite, fino a quell’abisso che ci rigetta nel nulla da cui siamo venuti? Questo il pensiero cinico che rischia di contagiarci quando le cose vanno storte.

San Paolo, che vive la vita come una missione da compiere, ha una visione finalizzata dell’esistenza: “Tutte le cose sono state create per mezzo di Cristo e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1, 16-17). Come dire che Cristo è il modello sul quale tutto, come in uno stampo, viene formato e verso il quale tutto converge. In quanto esistiamo, abbiamo dunque qualcosa in comune con Lui. Che cosa? Certo non l’aspetto, che anzi ci distingue l’uno dall’altro. Forse allora lo stile di vita, il modo di affrontare l’esistenza? Nemmeno: ci rendiamo conto che lo spirito non è certo quello di Cristo, quanto piuttosto l’istinto di sopravvivenza, il cercare di soddisfare i propri bisogni costi quel che costi, spesso a scapito degli altri.

L‘inno cristologico riportato nella lettera ai Filippesi (Fil 2, 5-11) chiarisce che il Cristo ha una natura divina (“la sua uguaglianza col Padre”) di cui si è spogliato per camminare con noi verso di essa, per insegnarci a rivestircene. Della natura divina fa parte tutto ciò che l’uomo non vive istintivamente, ma per lui costituisce un traguardo di umanizzazione che lo rende simile a Dio: l’amore, la bellezza, la misericordia, l’armonia… Quando l’umano raggiunge la propria profondità, lì incontra Dio, si immerge in Dio, diventa parte di Dio e Dio si incarna in lui.

Ma se il divino è l’orizzonte di ciò che esiste, che cosa allora accomuna l’uomo (e con lui il creato) a Cristo? La vita come missione. E qui ritroviamo l’esperienza di san Paolo. La vita: questo ventaglio di possibilità di essere su cui esercitare con responsabilità la nostra libertà per trasformare il nostro essere immagine di Dio in somiglianza di Dio, per divinizzarci.

Ma questa divinizzazione è impossibile all’uomo: non ne conosce la strada e non ne ha la forza, condizionato com’è dalla propria storia (è questo il significato del peccato originale).

Non siamo capaci di arrivare a Dio? È Lui allora a venire da noi, a farsi come noi, a mettersi concretamente nella nostra condizione per sintonizzarci con Sé, per sintonizzare (Paolo dice “riconciliare”, “rappacificare”) dentro di noi ciò che è della terra e ciò che è del cielo, la nostra libertà con le nostre possibilità, che in Lui vediamo realizzate. Come attua Cristo questa sintonizzazione? A noi preoccupati di soddisfare le esigenze di questo corpo di carne, Cristo, nella sua vicenda terrena e soprattutto nella sua Pasqua (“per mezzo della morte del suo corpo di carne” Col 1, 20-22), mostra che questo corpo di carne non è niente se non in vista della comunione alla natura di Dio che, come abbiamo detto, costituisce il traguardo della nostra umanizzazione.

Ma questa nostra divinizzazione (o, con un termine che ci è più familiare, chiamiamola “salvezza”) non sarebbe una vera sintonizzazione con il nostro Dio se si trattasse solo di perfezionamento individuale, di realizzazione personale, perché il nostro Dio è Trinità, è vita di relazione. A sua immagine, noi siamo esseri di relazione, con gli altri uomini e con il creato. E la nostra salvezza non è tale se non si realizza nella salvezza della rete di relazioni in cui viviamo. Che l’aspetta da noi: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,19-22). Come in Cristo tutto è stato creato, così in noi, ora animati dal suo Spirito, tutto viene salvato. Risorti, portiamo a risurrezione. Da qui il nostro compito nella vita: lasciarci salvare per poter salvare. Investito di fiducia, l’uomo, portato da Dio alla vita, è chiamato a ridiventare Dio, ma cosciente di se stesso, portando con sé un pezzo di creazione.

E tutto questo, ripete Paolo, potrà essere realizzato non da noi, ma da Cristo in noi, che alimenta la nostra speranza di essere in Lui, piena realizzazione di ciò che è assieme umano e divino: “Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo” (Col 1, 27-28).

E con questo rispondiamo alle tesi del cinico che ci hanno interpellato all’inizio: non dal nulla al nulla, ma da Dio a Dio! Più laicamente: esserci ha un senso. Troviamo il nostro.


Michele Bortignon