Esserci. E’ il caso che ci ha gettati nella vita? Ed è sempre seguendo il caso che si snodano le nostre vite, fino a quell’abisso che ci rigetta nel nulla da cui siamo venuti? Questo il pensiero cinico che rischia di contagiarci quando le cose vanno storte.
San Paolo, che vive la vita come una missione da compiere, ha una visione finalizzata dell’esistenza: “Tutte le cose sono state create per mezzo di Cristo e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1, 16-17). Come dire che Cristo è il modello sul quale tutto, come in uno stampo, viene formato e verso il quale tutto converge. In quanto esistiamo, abbiamo dunque qualcosa in comune con Lui. Che cosa? Certo non l’aspetto, che anzi ci distingue l’uno dall’altro. Forse allora lo stile di vita, il modo di affrontare l’esistenza? Nemmeno: ci rendiamo conto che lo spirito non è certo quello di Cristo, quanto piuttosto l’istinto di sopravvivenza, il cercare di soddisfare i propri bisogni costi quel che costi, spesso a scapito degli altri.
L‘inno cristologico riportato nella lettera ai Filippesi (Fil 2, 5-11) chiarisce che il Cristo ha una natura divina (“la sua uguaglianza col Padre”) di cui si è spogliato per camminare con noi verso di essa, per insegnarci a rivestircene. Della natura divina fa parte tutto ciò che l’uomo non vive istintivamente, ma per lui costituisce un traguardo di umanizzazione che lo rende simile a Dio: l’amore, la bellezza, la misericordia, l’armonia… Quando l’umano raggiunge la propria profondità, lì incontra Dio, si immerge in Dio, diventa parte di Dio e Dio si incarna in lui.
Ma se il divino è l’orizzonte di ciò che esiste, che cosa allora accomuna l’uomo (e con lui il creato) a Cristo? La vita come missione. E qui ritroviamo l’esperienza di san Paolo. La vita: questo ventaglio di possibilità di essere su cui esercitare con responsabilità la nostra libertà per trasformare il nostro essere immagine di Dio in somiglianza di Dio, per divinizzarci.
Ma questa divinizzazione è impossibile all’uomo: non ne conosce la strada e non ne ha la forza, condizionato com’è dalla propria storia (è questo il significato del peccato originale).
Non siamo capaci di arrivare a Dio? È Lui allora a venire da noi, a farsi come noi, a mettersi concretamente nella nostra condizione per sintonizzarci con Sé, per sintonizzare (Paolo dice “riconciliare”, “rappacificare”) dentro di noi ciò che è della terra e ciò che è del cielo, la nostra libertà con le nostre possibilità, che in Lui vediamo realizzate. Come attua Cristo questa sintonizzazione? A noi preoccupati di soddisfare le esigenze di questo corpo di carne, Cristo, nella sua vicenda terrena e soprattutto nella sua Pasqua (“per mezzo della morte del suo corpo di carne” Col 1, 20-22), mostra che questo corpo di carne non è niente se non in vista della comunione alla natura di Dio che, come abbiamo detto, costituisce il traguardo della nostra umanizzazione.
Ma questa nostra divinizzazione (o, con un termine che ci è più familiare, chiamiamola “salvezza”) non sarebbe una vera sintonizzazione con il nostro Dio se si trattasse solo di perfezionamento individuale, di realizzazione personale, perché il nostro Dio è Trinità, è vita di relazione. A sua immagine, noi siamo esseri di relazione, con gli altri uomini e con il creato. E la nostra salvezza non è tale se non si realizza nella salvezza della rete di relazioni in cui viviamo. Che l’aspetta da noi: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,19-22). Come in Cristo tutto è stato creato, così in noi, ora animati dal suo Spirito, tutto viene salvato. Risorti, portiamo a risurrezione. Da qui il nostro compito nella vita: lasciarci salvare per poter salvare. Investito di fiducia, l’uomo, portato da Dio alla vita, è chiamato a ridiventare Dio, ma cosciente di se stesso, portando con sé un pezzo di creazione.
E tutto questo, ripete Paolo, potrà essere realizzato non da noi, ma da Cristo in noi, che alimenta la nostra speranza di essere in Lui, piena realizzazione di ciò che è assieme umano e divino: “Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo” (Col 1, 27-28).
E con questo rispondiamo alle tesi del cinico che ci hanno interpellato all’inizio: non dal nulla al nulla, ma da Dio a Dio! Più laicamente: esserci ha un senso. Troviamo il nostro.
Michele Bortignon
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