2/14/2025

L’orma del pellegrino: cap.5 - Montserrat

Le guglie rocciose del Montserrat si stagliavano nitide contro il cielo, al di sopra delle nubi che il recente temporale aveva lasciato dietro di sé. Gli sembrò di vedere in esse le torri di un’imponente fortezza, al servizio del cui signore egli si stava recando a offrirsi.

Lì avrebbe fatto la sua veglia d’armi, in preparazione dell’investitura a cavaliere che tanto ambiva ricevere per distinguersi, con grandi e valorose gesta, agli occhi del principe e della regina madre.

Sapeva però che Questi aveva scelto di somigliare all’ultimo degli uomini e aveva fatto della povertà il suo vessillo. Non, dunque, la tunica bianca, simbolo di purezza, non il mantello rosso, simbolo del sangue che era disposto a versare, non la cotta nera, simbolo della morte che non temeva, sarebbero stati il suo vestito da cavaliere, ma un sacco di tela ruvida e grossolana, lungo fino ai piedi. E, in luogo di spada, elmo e cavallo, il bastone, la borraccia e i sandali del pellegrino.

Questi erano i suoi progetti, e di essi erano pieni il suo cuore e la sua mente, che una fervida fantasia alimentava, facendolo immaginare in gara con i santi del passato nell’accumulare meriti a maggior gloria di Dio.

Giunto al monastero, prese accordi con un monaco per la confessione generale: sapeva che ogni cavaliere deve prepararsi alla vestizione rituale con un bagno purificatorio. Voleva fare le cose per bene, stigmatizzando i propri peccati per iscritto, così da essere sicuro di non omettere nulla. Il confessore lo lasciò fare - tre giorni gli occorsero per stilare il suo elenco “ad esecrandum”! - e alla fine gli impose come penitenza di visitare uno degli eremi sparsi per la montagna. Erano, questi, degli anfratti tra le rocce, rabberciati alla meglio con qualche sasso, in cui vivevano uomini che avevano scelto di servire Dio senza alcun progetto, lasciando fosse la vita con le sue esigenze a essere eco della Sua volontà.

«L’eremita è colui al quale si pongono le domande fondamentali sul senso della vita, alle quali egli stesso sta cercando risposta contemplando Dio all’opera nella realtà della natura e discernendo i diversi spiriti in lotta nella propria coscienza» gli disse il padre confessore. «Non è necessario che tutti diventino eremiti per servire Dio, ma, certo, per camminare con Lui occorre come loro diventare contemplativi e capaci di discernimento. Ti farà bene confrontarti con un’esperienza di vita fondata su una sapienza antica».

Il sole cominciava ad abbassarsi dietro il profilo dei monti quando Iñigo giunse all’eremo di San Juan. Su di uno scanso ricavato nella parete di roccia stava seduto un anziano, assorto in preghiera. Immobile, la schiena aderente alla parete, le mani sulle cosce con i palmi rivolti verso l’alto, sembrava anch’egli una delle tante forme che l’erosione aveva scolpito sul conglomerato.

Non si mosse finché il colloquio con il suo Signore, che stava svolgendosi dentro di lui, non esaurì le parole che dal cuore sovrabbondavano. Solo allora dischiuse gli occhi e si rivolse al visitatore: «Benvenuto! Quale ricerca ti sta portando a incrociare il mio cammino?».

«La maggior gloria di Dio!» rispose Iñigo senza esitazione. «Voglio poter fare grandi cose per Lui. Ancora non so che cosa, ma già me ne ha messo il fuoco nel cuore».

L’anziano lo guardò a lungo, con dolcezza e nostalgia, quasi riconoscesse in lui il giovane entusiasta che anch’egli era stato un tempo. «Tu vuoi “fare” per Dio. E’ giusto. E’ bello. L’ardore della tua età ha bisogno di sogni da inseguire. Purché non si chiudano a Chi, più grande dei nostri progetti, talora vuole entrarvi per aprirli, attraverso strade sue, a una prospettiva più grande.

Il bisogno di sentirci qualcuno può portarci a cercare noi stessi mentre ci illudiamo di cercare Dio. Per farti capire cosa voglio dire, ti racconterò la storia di Fra’ Garì, il primo eremita che visse fra queste balze rocciose.

Dice la leggenda che, tanto tempo fa, un cavaliere si ritirò in romitaggio fra le montagne di Montserrat. Juan Garì - questo era il suo nome, conduceva una vita molto austera, cibandosi di frutti del bosco e bevendo acqua dalla sorgente che sgorgava presso la sua grotta. Vedendolo progredire in santità, il demonio si indispettì e si propose di tentarlo per farlo cadere. Si travestì egli pure da eremita e procurò di incontrarlo, come per caso, fra le sue montagne. Fra’ Garì gli chiese chi fosse e dove abitasse, e questi gli rispose che viveva rinchiuso da trent’anni in una grotta piccolissima e che solo ogni dieci anni, com’era appunto quel giorno, si permetteva di uscire. Meravigliato di trovare un’ascesi superiore alla sua, Fra’ Garì lo elesse suo maestro e ogni sera andava a trovarlo per il resoconto di coscienza. Guadagnatosi così la sua fiducia, il demonio lo spingeva a mete sempre più ambiziose per dare gloria a Dio con tutte le sue forze.

Quando lo vide pieno di se stesso, pensò giunto il tempo di farlo crollare.

Entrò nel corpo di Richilda, figlia del conte Goffredo di Barcellona, indemoniandola. La povera ragazza gridava giorno e notte e il padre, disperato, la condusse da Fra’ Garì, chiedendogli di tenerla con sé un paio di giorni per provare a guarirla. Temendo la tentazione, Fra’ Garì non voleva accettare, ma, a fronte di tante preghiere e insistenze, e rassicurato in tal senso anche dal suo maestro, impietosito, la accolse. Al consueto aprire il suo cuore nel resoconto di coscienza, il demonio gli ridimensionò tutti i problemi che egli si faceva riguardo alla tentazione, cosicché, al tornare nella sua grotta, questa lo sopraffece ed egli violentò la fanciulla. Inorridito da quanto aveva fatto, tornò dal maestro, che gli mise in mano un coltello per ucciderla e seppellirla nascostamente, così che la cosa non si risapesse. Portato a termine il suo perfido intento, il demonio si fece conoscere per qual era, così da portare l’eremita, nel completo fallimento di ciò che credeva di essere, a disperare della propria salvezza. Ma questi, con l’ultimo barlume di coscienza, piangendo si recò a Roma dal Papa per implorare perdono.

Dopo averlo ascoltato, il pontefice gli disse «Il peccato è talmente orrendo che non so se Dio potrà perdonarti. Come una bestia hai peccato, come una bestia dovrai fare penitenza: torna a Montserrat camminando a quattro zampe; non lavarti, lasciati crescere unghie e capelli, non parlare, schiva le persone. E non guardare mai il cielo, perché non ne sei degno».

Impiegò tre anni per tornare a Montserrat, e lì visse da solo per altri sette anni, il corpo coperto da lunghi peli, tanto da sembrare un orso. Un giorno fu sorpreso da alcuni cacciatori che, scambiatolo per uno strano animale, lo catturarono e lo portarono a Barcellona con l’intenzione di farne dono al conte Goffredo, la cui sposa aveva appena dato alla luce un bimbo: la gabbia con dentro la strana bestia di Montserrat avrebbe fatto la sua bella figura fra le attrazioni della festa per il battesimo del figlio del conte! Al termine della cerimonia, questi ricevette con stupore il dono dei cacciatori, ma, quando la contessa passò davanti alla gabbia con il bimbo in braccio, questi, fra lo stupore generale, parlò e disse «Alzati, fra’ Garì: Dio ti ha perdonato!». Il conte ordinò che fosse immediatamente rasato e lavato. Tornato finalmente all’aspetto di uomo, fra’ Garì fu riportato al cospetto del conte che gli chiese che fine avesse fatto sua figlia: non l’aveva più vista da quando l’aveva lasciata presso di lui! Fra’ Garì confessò il suo crimine e chiese di essere punito, ma il conte, magnanimo, volle perdonarlo come Dio lo aveva già perdonato. Gli bastava solo sapere dove fosse stato gettato il corpo della figlia, per poterle dare degna sepoltura. Arrivati al luogo indicato, Richilda fu trovata viva e guarita, e il miracolo fu attribuito all’intercessione della Vergine, di cui ella volle diventare devota ritirandosi in un monastero che il padre fece costruire per lei a Montserrat.

Hai capito cosa ha salvato Fra’ Garì? La semplicità di un bimbo: Dio che, attraverso l’immagine di un bimbo in braccio a sua madre, vuol dirci che non ci chiede di “fare” per Lui chissà che cosa, ma di accorgerci di quanto Lui sta facendo per noi e di gustarlo. La bellezza ci riempirà allora il cuore inondandolo di gioia e di pace. E quando uno è in pace non può non essere buono».

Iñigo era visibilmente scosso. Intere notti passate a flagellarsi per fare penitenza e rinforzare la volontà, culminate in tre giorni di meticolosa ricerca dei propri peccati per far pulizia di fondo nella propria anima prima di impegnarsi in grandi cose per il suo Signore… ed ora questo anziano gli diceva che Dio era già alla porta della sua anima e bussava per chiedergli di lasciarlo entrare per far festa assieme?!

«Ho… ho bisogno di una strada» riuscì a biascicare con fatica. «E’ talmente nuova e strana questa cosa per me, che nemmeno saprei da dove cominciare…».

«E’ proprio quel che stavo facendo prima, quando sei arrivato. A fine giornata mi incontro con il mio Signore e assieme guardiamo cosa è successo oggi. E Lui mi dice una cosa tanto semplice: accorgiti, rallegrati, ringrazia.

E’ bello, e mi riempie il cuore di gioia, accorgermi, rallegrarmi e ringraziare Dio per tutto quel che di positivo è successo e che io ho contribuito a far succedere.

Ma, assieme al mio Signore, posso trasformare anche quel che di negativo è successo e che io ho contribuito a far succedere, decidendo cosa fare per viverlo nello Spirito di Cristo: mettendoci un po’ di fede, un po’ di speranza, un po’ d’amore. Ovvero, se qualcosa oggi non è andato come doveva andare, provo, nell’immaginazione, un diverso modo di viverlo, fino a trovarne uno che mi faccia sentire bene con me stesso e con gli altri; sarà la cosa giusta da fare per la prossima volta.

Dopo l’accorgermi di quel che di positivo e di negativo oggi è successo, il punto d’arrivo è dunque unico: rallegrarmi perché Dio è presente nella mia vita a donare e a per-donare, ed esprimergli personalmente la mia gratitudine perché Egli è il Dio con noi.

Un po' alla volta, questa preghiera sulla vita concreta di ogni giorno mi ha portato a vivere continuamente alla presenza di Dio, nello stupore di fronte ai suoi doni e nel discernimento delle sue chiamate all’interno delle situazioni che mi succedono. E, in questo modo, sento che vivo in pienezza la mia esistenza».

Con il cuore in un tumulto che ora non era più di smarrimento, Iñigo cominciò a capire che la gioia, la pace, la libertà interiore non sono una conquista del nostro impegno, ma germogliano spontaneamente in un animo che si lascia sedurre dalla bellezza di un Dio che in tutto opera.

E, come un ricordo lontano che riemerge quando il desiderio del cuore lo chiama, si ritrovò a sussurrare tra sé l’invito di Paolo: Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, e la pace di Dio custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù1.

1 Fil 4, 4-7

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