5/15/2025

L’orma del pellegrino: cap.8 - Il corpo negato

«La casa degli Amigant è a cinque minuti da Plaza Mayor, proseguendo per la strada principale» gli aveva spiegato il frate ospitaliere. Lui Iñigo lo conosceva bene, avendolo alloggiato per diversi mesi nella sua foresteria. E sapeva che, quando si era ammalato gravemente, in quella casa era stato ospitato per ricevere l’assistenza costante di cui aveva avuto bisogno.

Era giorno di mercato, e Plaza Mayor era invasa dai contadini delle campagne circostanti; chi su di un carretto, chi in grandi ceste, tutti mettevano in vendita le verdure di stagione frutto del loro lavoro sui campi; e, ancora, gabbie con conigli e galline, burro e formaggi, botti di vino, fiaschi di olio, e le curiose stecche di merluzzo essiccato, con cui si preparava il tipico piatto locale: il baccalà alla manresana.

Era difficile resistere alle tentazioni di tanto ben di Dio, che le grida dei venditori amplificavano magnificandone la freschezza e il sapore.

Don Manuel affrettò il passo, e in breve raggiunse la casa che gli era stata indicata.

Al nome di Iñigo la porta si schiuse immediatamente. «La prego, entri!». Doña Angela in persona era venuta ad aprire e subito lo introdusse in un’ampia sala da pranzo, indicandogli di accomodarsi su una delle sedie accostate al grande tavolo di legno scuro.

Don Manuel credette opportuno rimanere sul vago: «Ho tanto sentito parlare di Iñigo, che mi è venuto il desiderio di conoscerlo. Ma, a quanto ho saputo, si è imbarcato per Gerusalemme. Almeno di riflesso mi piacerebbe sapere chi era, cosa pensava, che vita faceva, per riportarmi a casa qualcosa di edificante. Mi è stato detto che lei lo conosceva bene…».

«Certo! Assieme ad alcune amiche ci intrattenevamo spesso con lui per confrontarci nel rispettivo cammino spirituale. Era una persona profonda, sensibile, seriamente in ricerca di Dio. La cosa che più apprezzavamo in lui era la capacità di leggersi dentro, un’abilità che aveva acquisito “sul campo”, anche prendendo delle belle cantonate. Fu appunto una di queste a condurlo a casa mia.

Un giorno non lo vedemmo venire al consueto incontro del nostro gruppo. Era strano… lui, sempre così puntuale e impegnato! Lì per lì lo attribuimmo a un contrattempo, ma cominciammo a preoccuparci quando nemmeno la volta successiva lo vedemmo arrivare.

I domenicani, presso cui era alloggiato, ci dissero che mancava da alcuni giorni; quando era uscito aveva lasciato detto che andava al santuario di Viladordis.

Ci recammo subito lì e lo trovammo accasciato in un angolo, talmente debole che nemmeno riusciva a camminare. Ci fu bisogno di un carro per portarlo qui da me. Sa, questa è una casa grande e abbiamo delle stanze libere in cui ospitiamo qualche ammalato povero che ci viene inviato dall’ospizio di Santa Lucia quando loro non hanno più posto.

Gli ci vollero diversi giorni per rimettersi, tanto grave era lo stato di prostrazione in cui era caduto. Giorni in cui ci demmo il turno per assisterlo.

Quando si riprese, ci volle tutte attorno a sé per raccontarci quello che era successo e spiegarci cosa aveva ricavato da quell’esperienza.

In un giorno di mercato, proprio come oggi, era passato per Plaza Mayor e si era lasciato tentare dalla gola. Forse per il fatto che normalmente mangiava pochissimo, era stato colto da violenti dolori di stomaco. «Devo fare più astinenza» si era detto. E si era recato alla Madonna della salute, il santuario di Viladordis, per starvi in digiuno e orazione.

Dopo qualche giorno, debilitato dalla fame, aveva creduto di morire. In quel momento gli venne un pensiero che gli diceva «Sei un giusto».

Nel riprendersi della convalescenza, si stava ora rendendo conto che quel pensiero, il desiderio di essere un giusto, l’aveva trascinato in eccessi tali da condurlo presso a morte.

Ancora una volta il suo demonio - ora gli poteva dare un nome: “perfezionismo” - lo aveva imbrogliato travestendosi da angelo inviato da Dio ad indicargli la strada.

Ma lo aveva smascherato quella mattina stessa, lavandosi il viso: versando l’acqua nel catino, questa schizzava dappertutto in mille spruzzi; mentre invece, versata sulla spugna, vi penetrava dolcemente. Allo stesso modo, aveva sperimentato che i pensieri insinuati dal demonio gli creavano agitazione, timore, esaltazione, urgenza, costrizione; quelli, invece, che gli suggeriva Dio, entravano in lui dolcemente, dandogli pace, gioia, facendogli respirare un’aria di libertà.

Ora che era stato scottato l’aveva capito: Dio non è mai negli eccessi che stridono con i bisogni della natura umana. Il nostro “magis”, il nostro bene maggiore non prescinde mai dal bene nostro, oltre che da quello degli altri.

La chiamata a fare qualcosa che, come conseguenza, ci debilita fisicamente o ci rende tristi, non viene da Dio. Dio non ci chiede ciò che non ci ha preparato a dare.

Il “magis” è sempre e solo “Ad maiorem Dei gloriam”, per la maggior gloria di Dio. E «“Gloria Dei homo vivens”» aveva detto citando Sant’Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo Vivente, l’uomo che rivela la grandezza di Dio mostrando in sé cosa significa Vivere in pienezza - sereno, libero e gioioso - e che cos’è un Uomo - appassionato, generoso, responsabile»1.

Gli era diventato così chiaro l’inganno in cui era caduto, che decise di “agere contra”, di contrapporsi con forza alla tentazione facendo l’opposto di ciò a cui essa lo portava: con quel corpo che aveva disprezzato, sentendolo un peso per la sua elevazione a Dio, si riconciliò, prendendosene cura: si tagliò i capelli, gettò il sacco che lo copriva per indossare un normale vestito adatto alla stagione; e da allora cominciò a prendersi i giusti tempi di riposo e a nutrirsi adeguatamente.

«Come ho potuto essere così cieco da non vedere quale gran conto abbia fatto Dio del corpo umano, decidendo di rivestirsene col farsi uomo?!» si chiese.

«Esatto, anche perché se non mi prendo cura del mio corpo, non ho le forze per prendermi cura degli altri, anzi, costringo gli altri a prendersi cura di me!» osservò don Manuel.

«E questo è quel che Iñigo cominciò a fare, prendendosi cura degli ammalati all’ospizio di Santa Lucia. A proposito, perché non va a trovare la mia amica Jeronima Claver, che lavora proprio lì? Lei potrà parlarle di un Iñigo che ha rinunciato all’ossessione di meritare Cristo con le proprie grandi opere, per lasciarsi incontrare da Lui nell’implorazione d’aiuto del povero…».

Alcuni violenti colpi alla porta interruppero bruscamente la conversazione.

«Aprite, in nome della Santa Inquisizione!».

Doña Angela corse all’entrata e, nell’aprire, fu quasi gettata a terra dall’impeto con cui quattro soldati si precipitarono nella stanza.

«Dov’è… Dov’è la strega?».

«Ma quale strega?!»

«Si, ci è stato detto che si trova ospitata in questa casa. L’hanno vista portare qui, scarmigliata e discinta, con in mano una scopa».

Ma già gli sgherri erano corsi nelle stanze dell’ospizio per uscirne quasi subito con una ragazza dallo sguardo smarrito, che non si difendeva dalla violenza con cui veniva trattata.

«Fermatevi! Come potete fare un’accusa del genere?!».

«Noi non accusiamo nessuno: sarà l’inquisizione a provare quanto è stato denunciato; ma la posizione di chi ha sollevato questi sospetti ci dà la certezza che questa è già carne bruciata».

Con una velocità sorprendente i quattro si erano già allontanati, trascinando con sé la malcapitata.

«Ce l’aveva portata ieri un amico che l’aveva sottratta allo scherno e agli insulti della gente. Si sa: chi viene da fuori è sempre guardato con sospetto. In quelle condizioni poi!».

«Condizioni che rivelano perlomeno dei secondi fini, se proprio non si vuole ammettere una possessione diabolica» ipotizzò don Manuel.

Doña Angela lo guardò fisso negli occhi, in un lungo istante di silenzio.

«Come si può giudicare una persona senza nemmeno averla ascoltata? Noi l’abbiamo fatto, calmandola e ripulendola, ieri sera. A parole smozzicate, abbiamo capito che ha perso il figlioletto, l’unico affetto che le restava al mondo. Ed è uscita di senno…».

Don Manuel abbassò lo sguardo, più che per l’imbarazzo, per nascondere una smorfia di dolore che gli stava segnando il volto risalendo da una violenta stretta allo stomaco. Nella giovane donna impazzita dal dolore per la morte del figlio, per un attimo aveva invidiato la madre che lui non aveva avuto: affettivamente assente, l’aveva lasciato soggetto a un padre dispotico e violento. Forse fu il voler superare al più presto l'impaccio in cui si trovava a fargli dire: «Ma… e la scopa? Questo è un chiaro segno di commercio col demonio!».

«Voi maschi…!». Doña Angela crollò sulla sedia, chinando il capo e prendendosi il viso tra le mani. Sapeva che le streghe non erano che i capri espiatori dell’incapacità tutta maschile di gestire le proprie pulsioni sessuali, per cui i sensi di colpa venivano messi a tacere accusando le donne della carnalità, della lascivia, dell’istintualità che in sé i maschi non volevano ammettere2. Bastava, allora, un atteggiamento non inquadrato nella rigida morale del tempo per creare la “strega”.

In un impeto d’orgoglio, alzò lo sguardo con tono di sfida: «Si, la forza bestiale del desiderio riesce perfino a farvi vedere la vostra “scopa” tra le gambe della strega!» gridò.

Raggelato e sconvolto, don Manuel corse fuori. Nemmeno lui era diverso dagli altri.


1 In una lettera agli studenti di Coimbra (7 maggio 1547), così Sant’Ignazio parla del fervore indiscreto: “Il nostro nemico, dice San Bernardo, non ha artificio più efficace per strappare dal cuore la vera carità che quello di manovrare perché si proceda in essa senza prudenza anziché secondo saggezza spirituale. “Niente di troppo”, questo detto del filosofo (Pittaco) deve osservarsi in tutto. Non mantenendo questa moderazione, il bene si converte in male e la virtù in vizio e ne derivano molti inconvenienti, tutti contrari all’intenzione di chi segue questa via. Il primo inconveniente è che non si può così servire Dio a lungo: il cavallo che viene affaticato troppo nelle prime tappe non è capace di giungere al termine della corsa, e anzi bisogna che altri si occupi a servire lui. […] La discrezione è dunque necessaria in questa materia, in quanto modererà gli esercizi virtuosi tra i due estremi. Lo nota molto bene San Bernardo: “Non bisogna sempre fidarsi della buona volontà. Bisogna frenarla, regolarla, specialmente in un principiante”. Se qualcuno vuol fare del bene agli altri non deve fare del male a se stesso. “Chi è cattivo con se stesso, con chi sarà buono?” (Sir 14, 5)”. E, riguardo all’indiscreto uso del corpo, in una lettera a Francesco Borgia del settembre 1548, afferma: “Desidero che imprima nella sua anima che, appartenendo essa insieme con il corpo al suo Creatore e Signore, gliene deve rendere conto e perciò non deve lasciare indebolire il fisico, la cui debolezza non permetterebbe più allo spirito di esercitare le sue attività. [...] Dobbiamo infatti amare il corpo nella misura in cui obbedisce all’anima e l’aiuta. Questa poi con tale aiuto e obbedienza si dispone maggiormente a servire e lodare il nostro Creatore e Signore”.

2 “Foemina deriva da fe-minus, perché ha meno fede e ancor meno la mantiene. La donna, cattiva per sua natura, cade presto nei dubbi della fede, rinnega la fede medesima: da ciò deriva la sua dedizione alla stregoneria, con la quale realizza i suoi malefici. In quanto alla volontà, poi, la donna, quando è presa dall’odio contro qualcuno che prima amava, arde d’ira e di impazienza, e si agita e ribolle come il mare. In conclusione, tutto dipende dalla concupiscenza carnale, che nelle donne è insaziabile, onde si danno da fare con i demoni per soddisfare la loro libidine”. Testo tratto dal “Malleus Maleficarum”, manuale per l’identificazione e il trattamento delle streghe, pubblicato dagli inquisitori Kramer e Sprenger nel 1486.


5/01/2025

Perdonare. Anche a chi non interessa?

«Io vi perdono, ma voi vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare». Così la vedova dell’agente di scorta di Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia, al suo funerale.

A loro interessava essere perdonati? Se il perdono è ridare fiducia a chi ha sbagliato, questa fiducia deve chiederla, deve interessargli riceverla!

Un altro episodio. Un passante, a cui avevo chiesto un’informazione, si sfoga con me della sua rabbia contro gli extracomunitari: uno di questi ha investito suo figlio, uccidendolo. Potrebbe perdonare, almeno per ritrovare la pace dentro di sé? «Impossibile!», mi dice; e se ne va con la sua rabbia.

Gesù, sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!». Ma loro erano ben convinti di star facendo la cosa giusta!

Più vicino a noi… quella persona che continua a farmi del male, vedendo solo le sue ragioni. Per lei sono io, naturalmente, ad avere torto. E non c’è nulla da fare (quanto ci ho provato!): chi la smuove?

In questi casi, perdonare a cosa serve? Percorriamo due strade che non si incontreranno mai!

Non ne vengo fuori, non posso trovare un senso al perdono finché lo considero un problema tra noi due.

In realtà il tuo gesto, le tue parole sono espressione di un atteggiamento che fa girare il mondo attorno a te e, come un vortice, risucchia ciò che gli sta attorno rendendolo uguale a sé. Anch’io rischio di esserci preso dentro e, esasperato, finire col nutrire in me sentimenti di rabbia, di rivalsa, di vendetta. Schiacciato, anziché cercare ciò che è giusto, faccio di tutto per prevalere, per fartela pagare, per ridarti il tuo con gli interessi. E così divento uguale a te.

Perdono è allora prendermi la responsabilità della situazione per darle una direzione diversa. Faccio io, al posto tuo, quello che tu non riesci, non puoi, non vuoi fare; faccio quel che è giusto mentre tu continui a uccidermi; trasformo quel che tu hai rovinato, lo guarisco. Non lo faccio per te: lo faccio per il mondo, perché il mondo non sia condizionato dal tuo atteggiamento. Sblocco la situazione facendo un passo oltre, lasciando lì quel che è successo e guardando avanti. Non voglio farmene distruggere, ma voglio costruire qualcosa di nuovo. Divento ciò che tu avresti dovuto essere. Risorgo la situazione: non sarà mai quella che sarebbe stata senza quello che hai fatto, sarà diversa, ma sarà nella direzione giusta. Faccio come il vasaio di Geremia: “Ora, se si guastava il vaso che egli stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso, come ai suoi occhi pareva giusto” (Ger 18, 4). La creta guastata si può riutilizzare perché è comunque buona, anche se tu ora le hai dato una forma sbagliata.

Non mi lascio bloccare nella situazione che tu hai creato e non me ne lascio distruggere. Perdonare è decidere di costruire un futuro con le macerie, sentendo che questo è compito mio perché tu qui ti sei fermato e non vuoi o non puoi andare avanti.

          Michele Bortignon

Per-dono, il perdono, appunto, è un dono, è qualcosa che io ti regalo (o che l’altro regala a me), qualcosa che tu non mi hai chiesto, ma che io desidero darti. Eppure, tu nella tua libertà, lo puoi rifiutare e rimandare al mittente, perché tu da me non vuoi nulla, hai deciso che tu con me non hai nulla da spartire, che, anzi la causa di tutti i tuoi mali sono io e ti va più che bene così. Che fare? Instaurare una dittatura del bene e insistere per imporre le mie buone ragioni? Oppure perdonarti, rappacificarmi con me stessa e accettare il tuo rifiuto di una riconciliazione? Delle due scelgo la seconda via, lasciando aperta la strada della riconciliazione senza impormi, senza distruggere per costruire: “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra.” (Is 42,2-4).

La libertà dell’altro è sacra, l’altro è libero di uccidermi e anch’io, però, di non lasciarmi morire. Ma come continuare a vivere? Chi è arrabbiato con me perché per lui sono la causa di tutti i suoi mali cercherà di trascinarmi nel vortice del suo malessere, malessere che non vuol risolvere, perché stare male e soffrire comporta il vantaggio di farsi commiserare e consolare, significa attirare l’attenzione di qualcuno su di sé (piuttosto di non esserci per nessuno meglio esserci, anche se in modo negativo). “Soffro, quindi esisto e sono degno di compassione” sembra essere il suo mantra ed è tutto il contrario dal mio: “sei prezioso ai miei occhi sei degno di stima e io ti amo” (Is 43,4).

In definitiva perdonare è anche lasciare libero l’altro di non perdonarti.

          Maria Rosa Brian