11/16/2025

L’orma del pellegrino: cap.14 - Venezia

La peste, che aveva lasciato Barcellona permettendo di riaprirne il porto, imperversava invece in Italia. Nei paesi infettati dal morbo, “tra gemiti miserabili e la strage accomulata dei morti con odor puzzolente e acutissimo, un orrore funebre era dappertutto, rendendo l’aspetto del luogo infelice e spaventevole. A molti si vedeva gonfiare il ventre e le cosce con notabil pallidezza di volto; indi venivano meno e con un torcersi di corpo mandavano lo spirito fuori, restando insepolti, senza che il padre al figlio o l’amico al compagno potesse apportar alcun ristoro, non chiuder gli occhi o bagnar di lacrime il viso, non porger gli ultimi baci ed abbracciamenti, non almeno poterli coprire d’arena. Ogni cosa era piena di lagrime, di miserie, di confusioni, di tumulti e stridi di quei che fuggivano per mai più ritornare nelle loro case a vedere e abbracciare i suoi più cari e di quei che restavano per essere ogni giorno insultati e oltraggiati dai maligni. Non pareva sicuro il padre dal figlio, né il figlio dal padre, né tra amici, fratelli o congiunti v’era sincerità d’affetto. Ogni cosa era ingombrata di spavento e di lutto, tra rapine, proscrizioni, bandi, minacce e insolenze”1.

Iñigo era sbarcato a Gaeta: sua intenzione era recarsi a Roma per ottenervi la benedizione papale, per poi dirigersi a Venezia, da dove sarebbe ripartito per Gerusalemme.

Lungo il viaggio si era di volta in volta accompagnato a diverse persone incontrate lungo il cammino, e con loro aveva vissuto situazioni in cui la paura della morte, indotta dal subdolo dilagare della peste, veniva affrontata in modi diametralmente opposti: da una parte il disperato tentativo di chi voleva godere l’ultimo scampolo di una vita incerta con violenze, imbrogli, isolamento, ma dall’altro anche atti di generosità di chi sapeva guardare alla vita come parte di un’esistenza che aveva in Dio la sua origine e il suo compimento.

A Venezia, i portici di piazza San Marco offrivano un riparo notturno ai poveri della città. Anche Iñigo si unì a loro, chiedendo l’elemosina ai commercianti che sorvegliavano l’imbarco e lo sbarco delle loro mercanzie sui moli della Riva degli Schiavoni.

«Disculpe… algo para comer… Por favor!»: non conosceva l’idioma veneziano, ma il gesto era sufficiente per far comprendere le sue intenzioni. Lo intese bene, però, un funzionario spagnolo, che volle interessarsi di questo suo connazionale: «Un aiuto potrebbe certamente ottenerlo all’ambasciata dell’imperatore Carlo V°» gli suggerì dopo aver saputo della sua intenzione di imbarcarsi per Gerusalemme.

«No, non voglio confidare in mezzi umani. Se il mio viaggio, come credo, è volontà di Dio, nella sua provvidenza Egli stesso mi darà i mezzi per compierlo».

«Voglia almeno riconoscere la mano della Provvidenza in questo nostro incontro: sarò lieto se vorrà essere mio ospite per pranzo». Sorrise, Iñigo, pensando che quell’incontro poteva essere un dono di Dio non tanto per il pasto, ma perché, nel mettere in comune le rispettive esperienze di Dio, e l’uno e l’altro avrebbero potuto trovare nutrimento. E lo seguì.

Il labirinto delle calli veneziane li inghiottì con il suo dipanarsi tra gli argini dei canali su cui scivolavano silenziose le gondole, i vicoli stretti tra case l’una all’altra addossate e i tenebrosi “sotoporteghi”, cupi passaggi tra le umide fondamenta. Giunsero infine all’entrata posteriore di un palazzotto affacciato sul Canal Grande e si fermarono un attimo a osservare l’andirivieni di imbarcazioni che si scorgeva attraverso l’accesso “nobiliare”, aperto direttamente sull’acqua, via privilegiata per gli spostamenti all’interno della città. Al piano superiore, la tavola era già imbandita.

La novità del commensale che parlava la loro stessa lingua, e la curiosità per una vicenda che doveva essere singolare, eccitò la famiglia del suo ospite, che cominciò a tempestarlo di domande. Ben presto, però, la conversazione si addentrò nei grandi temi dell’esistenza, abilmente guidata dalla capacità del pellegrino di cogliere l’essenziale dei discorsi che si facevano, e da lì partire per esaminare le questioni dal punto di vista di Dio.

Al termine del pasto, nessuno aveva voglia di alzarsi da tavola, tanto la conversazione era animata nel cercare di dare risposte agli interrogativi che nascono dalla vita.

«In questo momento tutti temono il contagio», stava dicendo il padrone di casa, «Per questo pensano solo alla morte e a quello che ci sarà dopo; e vivono in funzione di questo. Io non credo, però, che Cristo sia il guardiano dell’aldilà, ma il garante della vita, Colui che ci insegna come viverla in pienezza… o, almeno, come sopravvivere a ciò che ci sta uccidendo dentro. Ma a volte sento che non mi basta un insegnamento…».

«E’ naturale! Ed è Lui il primo a rispondere a questo nostro bisogno di sentirceLo vicino: la sua risurrezione, in fondo, non è che una nuova incarnazione, una presenza che ora continua in chi vive nel suo Spirito: nella fede, nella speranza, nell’amore».

«Fede… Speranza… Amore… io queste virtù vorrei capirle nel loro spessore di concretezza» replicò la moglie, «altrimenti restano parole che mi scivolano addosso».

«Posso dirle come io le ho comprese vivendole… Dunque, per me fede è l’apertura alla vita nella sua dimensione di mistero. La speranza, poi, è una fiducia profonda nel senso della vita».

«E l’amore?» chiese la figlia adolescente.

«E’ ciò che fa esistere e fa Vivere ciò che esiste. L’amore lo sento in me come una forza che mi apre all’altro e mi fa così ritrovare me stesso più vero, più buono, più sereno, in armonia con tutto ciò che sono e tutto ciò che mi circonda».

«E’ dunque nell’amore che troviamo quella Vita in pienezza di cui prima si parlava?».

«Si, e me lo conferma il fatto che le relazioni vissute nell’amore vero mi lasciano nel cuore una pace vasta, profonda e duratura, pur nell’impegno che esse comportano».

«Già...» riprese la ragazza, «ma spesso il problema è capire che cosa è bene, come si fa ad amare nel modo giusto…».

«Si, e… non posso farlo da solo. Per capire come orientarmi nella vita devo entrare in colloquio con Chi questa vita l’ha creata e, in suo Figlio, ci ha mostrato come viverla. Se è suo il pensiero che mi entra nel cuore, già solo l’accoglierlo porta un aumento di fede, di speranza, d’amore che dura nel tempo e mi dà pace, gioia, libertà interiore».

«Ma perché non potrei costruirmi io la mia strada verso la vita in pienezza, decidendo io ciò che è bene e ciò che è male?», lo provocò il giovane figlio della coppia.

«E’ naturale che il mio sguardo sulla vita sia condizionato dal mio interesse e dalla mia storia precedente», osservò Ignazio. «Rischio allora di cercare una felicità basata esclusivamente sul soddisfacimento dei miei bisogni, che rovinerà la mia relazione con gli altri, questa sì luogo della vita in pienezza».

«E allora qui c’è da chiedersi che cosa ci spinge a soddisfare a tutti i costi i nostri bisogni!» continuò, curioso, il giovane.

«Dentro di me mi rendo conto che è giusto amare, ma la paura mi prende alla gola facendomi sentire la mia vita insignificante, fallita, se non ottengo o se perdo ciò che credo possa soddisfare i miei bisogni di sicurezza, di stima, di affetto. Questa paura mi porta a manipolare a mio vantaggio le relazioni con gli altri, anziché amarli. Quando però ho rovinato le mie relazioni, rimango solo, con i miei bisogni insoddisfatti».

«E c’è la possibilità di rompere questa schiavitù?».

«Si, perché il Bene è la nostalgia che mi riempie il cuore. Il bene è la mia natura, il male la mia paura. Il cuore, se sappiamo ascoltarlo, ha una sua sapienza: si rende benissimo conto che l’amore è via a una vita bella e piena di significato».

Il ragazzo continuava a rimanere perplesso: «Si, certo: guardando a Cristo posso capire che il mio bene è seguirlo sulla sua strada per entrare in questa “vita bella e piena di significato”. Ma la realtà mi presenta ogni giorno tanti motivi per non credere, per non sperare, per non amare. E' più facile e più veloce soddisfare i propri bisogni senza tener conto degli altri e del proprio futuro. Per questo è meglio credere che non c'è una verità, un senso, un ordine, ma tutto è relativo; allora un punto di vista vale l'altro e, finché può, ciascuno si fa legge a se stesso».

Iñigo non poté che assentire: «Lo so. Per questo la nostra risposta per essere umana e tener conto di noi, deve andare oltre le paure e i bisogni che il nostro istinto ci presenta e mettersi invece in ascolto della nostra verità più profonda, dello Spirito di Cristo che agisce in noi come forza di verità. Lo Spirito Santo è la forza e la sapienza interiore che mi spinge a credere che tutto ha un senso nel bene, a sperare che alla fine tutto sarà bene, ad amare per costruire il bene: è Dio presente in me e operante attraverso di me».

«I miei figli a volte mi chiedono perché la relazione con Dio debba passare anche attraverso la Chiesa…» riprese la donna.

«Poiché Dio è amore, lo si incontra nell’amore vissuto all’interno delle relazioni. E dove si vive l’amore si costruisce comunità. La Chiesa è la fratellanza di coloro che l’esperienza dell’Amore ha riunito e assieme diversificato per formare un corpo capace d’amore. In essa sono nato alla fede, in essa sono sostenuto nella mia speranza, in essa rendo vero il mio amore.

Essere unito agli altri nella Chiesa significa allora vivere come una delle tante, tutte indispensabili, parti del corpo di Cristo operante nella storia, senza la pretesa di esserne l’unica espressione. Siamo tutti in cammino con Cristo, ma nessuno lo possiede; tutti facciamo la nostra parte, e nessuno, da solo, è a sua misura.

Però nella Chiesa sono anche diverso dagli altri. E questo significa vivere il compito assegnatomi dal mio carisma e sviluppare un pensiero basato sui frutti della mia personale esperienza di vita in Cristo. Azione e pensiero specifici sono contributo essenziale alla crescita della Chiesa perché mossi dalla creatività dello Spirito Santo per il bene comune».

Con queste ultime parole il silenzio si fece strada tra i commensali; anche la mensa della Parola era stata abbondante e c’era il bisogno di assimilarla personalmente perché diventasse nutrimento. Anche Iñigo tacque. Dopo aver dato a queste persone ciò che aveva nel cuore, sentiva che quel che ancora poteva fare era pregare per loro, affidandole alle cure di Dio: «Non è solo attraverso di me che Dio si occupa di loro» pensò.

Fu il padrone di casa a concludere la conversazione: «Dopo quello che ci ha detto, il nostro desiderio sarebbe che lei si fermassi qui da noi ancora qualche tempo: ci sarebbero ancora tante cose di cui parlare! Ma voglio ascoltare il suo desiderio. Domani la accompagnerò dal Doge: lui troverà certamente il modo di farla partire per il suo viaggio!».

1 da un rapporto stilato da un ufficiale dell’esercito francese di stanza nei pressi di Napoli

11/01/2025

Quando è amore?

È amore quando è difficile. Per definizione. Perché amare è coniugare la mia vita con la tua, tener conto di te in quello che faccio, decidere come se tu e io fossimo uno. Se ti amo, dunque, non mi appartengo più completamente, non posso più disporre di me stesso, non sono più libero; e, se prima lo ero, adesso è duro. In certi momenti questa durezza è compensata dall’affetto. Non sempre. Quando non lo è, il senso di soffocamento può portarmi a scappare per respirare di nuovo.

Rimanere nella relazione richiede di saper mediare. Non è facile: io ho la mia storia, tu hai la tua storia, che ci fa vedere che è giusto, è normale, è bene fare in un certo modo invece che in un altro. E, guarda caso, i nostri modi sono diversi.

Ci si può capire? Qualcosa; mai del tutto. Ciascuno difende il proprio modo di essere, entrando nella mediazione per qualcosa che non gli costa poi troppo; e si aspetta, e pretende che l’altro faccia altrettanto.

Fin qui siamo nel campo dell’interscambio. È amore? È un inizio, un apprendistato.

Se fosse per me, mai farei un passo oltre a questo. Mi sembrerebbe ingiusto, contro la mia dignità. È la vita che, a un certo punto, mi obbliga ad amare. O a fuggire. O a schiantarmi contro l’impossibile.

Succede quando tu non puoi darmi nulla: una malattia, un’invalidità, una psicosi. Certo, devo sopravvivere e prendermi i miei spazi. Ma tu sei bisogno. Non posso più dosare quello che metto a disposizione. Il mio dare dipende dal tuo bisogno.

E qui succede una cosa strana. Finora ho fatto discernimento per capire come e quanto coinvolgere me stesso, cosa e quanto chiedere a te. Ma ora, se sono in Dio -e, credo, solo se veramente lo sono-, faccio direttamente quel che c’è da fare. Non c’è valutazione in vista di una decisione, il circuito del discernimento è bypassato.

C’è uno strano coesistere di paura e serenità. Quel che mi trovo a fare è assolutamente, e insolitamente, naturale. Da questa serenità proviene la forza che mi sostiene, la lucidità con cui vedo la situazione, lo stupore con cui guardo al distacco da ciò che prima mi era indispensabile. E su questa serenità devo appoggiarmi per trovare la pazienza che serve a gestire gli inevitabili dissensi, la pazienza indispensabile per continuare assieme. Ma cos’è la pazienza? Non è solo sopportare: finirebbe presto in uno scoppio d’ira. Prima viene il riconoscere la tua dignità, ossia riconoscerti la libertà di gestire la tua vita. E non è facile quando ti ostini a fare come so che ti farà male. Ognuno ha il diritto di decidere cosa è bene per sé. Difficile accettare che tu possa essere libera di farti del male. Ma l’alternativa è una lotta in cui ognuno cerca di imporre all’altro la propria volontà. Allora ti lascio andare, lascio che tu faccia come vuoi, decido di non preoccuparmi.

Pazienza è la mia risposta a ciò che trovo assurdo, totalmente al di fuori di come farei io. Eppure, per te un senso ce l’ha, è il tuo modo di tener sotto controllo la situazione. «Ma non vedi che…»: no, non lo vedi, stai guardando da un altro punto di vista; e per te è quella la verità.

Il problema, semmai, è la rigidità: quando uno crede che il suo punto di vista non possa essere che l’unica verità, per cui non è disponibile ad aprirlo, a considerare che la cosa forse si potrebbe fare anche in un modo diverso e provarci.

Ardua sfida la libertà interiore. Posso essere libero solo quando quel che sono non dipende da ciò in cui dico di credere, che, come un esoscheletro, mi sostiene mi dà forma. Una persona libera è sostenuta da una spina dorsale: può cambiare il suo modo di essere e rimanere se stessa.

Bella sfida trovare ciò che mi sostiene senza condizionarmi. Chi lo trova, trova Dio.

 

Michele Bortignon