È amore quando è difficile. Per definizione. Perché amare è coniugare la mia vita con la tua, tener conto di te in quello che faccio, decidere come se tu e io fossimo uno. Se ti amo, dunque, non mi appartengo più completamente, non posso più disporre di me stesso, non sono più libero; e, se prima lo ero, adesso è duro. In certi momenti questa durezza è compensata dall’affetto. Non sempre. Quando non lo è, il senso di soffocamento può portarmi a scappare per respirare di nuovo.
Rimanere nella relazione richiede
di saper mediare. Non è facile: io ho la mia storia, tu hai la tua storia, che
ci fa vedere che è giusto, è normale, è bene fare in un certo modo invece che
in un altro. E, guarda caso, i nostri modi sono diversi.
Ci si può capire? Qualcosa; mai
del tutto. Ciascuno difende il proprio modo di essere, entrando nella
mediazione per qualcosa che non gli costa poi troppo; e si aspetta, e pretende
che l’altro faccia altrettanto.
Fin qui siamo nel campo
dell’interscambio. È amore? È un inizio, un apprendistato.
Se fosse per me, mai farei un
passo oltre a questo. Mi sembrerebbe ingiusto, contro la mia dignità. È la vita
che, a un certo punto, mi obbliga ad amare. O a fuggire. O a schiantarmi contro
l’impossibile.
Succede quando tu non puoi darmi
nulla: una malattia, un’invalidità, una psicosi. Certo, devo sopravvivere e
prendermi i miei spazi. Ma tu sei bisogno. Non posso più dosare quello che
metto a disposizione. Il mio dare dipende dal tuo bisogno.
E qui succede una cosa strana.
Finora ho fatto discernimento per capire come e quanto coinvolgere me stesso,
cosa e quanto chiedere a te. Ma ora, se sono in Dio -e, credo, solo se
veramente lo sono-, faccio direttamente quel che c’è da fare. Non c’è
valutazione in vista di una decisione, il circuito del discernimento è
bypassato.
C’è uno strano coesistere di
paura e serenità. Quel che mi trovo a fare è assolutamente, e insolitamente,
naturale. Da questa serenità proviene la forza che mi sostiene, la lucidità con
cui vedo la situazione, lo stupore con cui guardo al distacco da ciò che prima
mi era indispensabile. E su questa serenità devo appoggiarmi per trovare la
pazienza che serve a gestire gli inevitabili dissensi, la pazienza
indispensabile per continuare assieme. Ma cos’è la pazienza? Non è solo
sopportare: finirebbe presto in uno scoppio d’ira. Prima viene il riconoscere
la tua dignità, ossia riconoscerti la libertà di gestire la tua vita. E non è
facile quando ti ostini a fare come so che ti farà male. Ognuno ha il diritto
di decidere cosa è bene per sé. Difficile accettare che tu possa essere libera
di farti del male. Ma l’alternativa è una lotta in cui ognuno cerca di imporre
all’altro la propria volontà. Allora ti lascio andare, lascio che tu faccia
come vuoi, decido di non preoccuparmi.
Pazienza è la mia risposta a ciò
che trovo assurdo, totalmente al di fuori di come farei io. Eppure, per te un
senso ce l’ha, è il tuo modo di tener sotto controllo la situazione. «Ma non
vedi che…»: no, non lo vedi, stai guardando da un altro punto di vista; e per
te è quella la verità.
Il problema, semmai, è la
rigidità: quando uno crede che il suo punto di vista non possa essere che
l’unica verità, per cui non è disponibile ad aprirlo, a considerare che la cosa
forse si potrebbe fare anche in un modo diverso e provarci.
Ardua sfida la libertà interiore.
Posso essere libero solo quando quel che sono non dipende da ciò in cui dico di
credere, che, come un esoscheletro, mi sostiene mi dà forma. Una persona libera
è sostenuta da una spina dorsale: può cambiare il suo modo di essere e rimanere
se stessa.
Bella sfida trovare ciò che mi
sostiene senza condizionarmi. Chi lo trova, trova Dio.
Michele Bortignon

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