11/18/2024

L’orma del pellegrino: cap.2 - La processione

Con un gemito soffocato, ancora una volta si alzò sulle staffe per dar sollievo alle parti basse, martoriate dai continui sussulti sulla sella.

Odiava andare a cavallo. Lo odiava profondamente. E ora lo aspettavano almeno tre giorni di viaggio per arrivare a Manresa.

Fino ad allora, la completa dedizione agli studi lo aveva costretto a una vita sedentaria e, per quanto dipendeva da lui, anche piuttosto appartata. Aveva sempre cercato di schivare la compagnia dei coetanei, considerando una perdita di tempo tutto ciò che non riguardava la conoscenza. E il suo impegno assiduo, unito a un’intelligenza decisamente brillante, gli aveva procurato importanti riconoscimenti da parte dei superiori e una prospettiva aperta ad alti incarichi curiali… proprio come suo padre aveva sognato per lui. La consapevolezza di compiacere il genitore era la sua stabilità, la terra ferma su cui muoveva i suoi passi; anche se… una sottile angoscia lo consumava dentro al pensiero di non riuscire ad essere all’altezza delle aspettative riposte su di lui. Una consunzione che si manifestava nel suo fisico, in una corporatura esile e in un atteggiamento esitante, come se qualcosa gli risucchiasse le energie dal di dentro.

Dopo la conclusione degli studi, quello era per lui il primo incarico. Strano incarico per uno che, a quasi trent’anni, ancora non sapeva nulla del mondo, o, meglio, lo conosceva solo attraverso gli scritti di teologi e filosofi, per i quali la realtà era qualcosa di ben compaginato sotto la guida di un Dio il cui misterioso agire spiegava tutto. E la Chiesa, societas perfecta, ne interpretava la volontà e agiva per porla in essere.

Nonostante la fatica, resa ancor più pesante dal caldo intenso, aveva imposto a se stesso di resistere fino al tramonto, quando avrebbe incontrato il villaggio in cui aveva deciso di passare la notte. Lo consolava, comunque, il pensiero che era sabato, per cui il giorno dopo, dies dominicus, avrebbe potuto riposarsi, dedicandosi alla preghiera.

Trovò la locanda piuttosto affollata, tanto che a stento si riuscì a trovargli una stanza.

«Domani è la festa di San Rocco» gli disse l’oste, «patrono non solo del nostro villaggio, ma di tutta la comarca. E quest’anno l’occasione è ghiotta, perché alla consueta processione seguirà la predicazione di un padre domenicano molto famoso».

Chiese che gli si portasse qualcosa da mangiare e, distrutto, si buttò subito a letto, piombando in un sonno profondo.

Il mattino successivo fu lo scampanare a distesa della vicina chiesa a risvegliarlo. Quando uscì, i cappati erano già pronti sul sagrato, in attesa di precedere la portantina con la statua del santo, sostenuta dai nobiliores del paese. La seguivano i ministranti, disposti a quadrato attorno al celebrante, con i grandi turiboli d’argento che spandevano nell’aria spesse volute di incenso. Le due ali di folla assistevano mute, in attesa di unirsi in coda alla processione.

Un brivido di sgomento scosse tutti quando, dietro al baldacchino, dalle porte della chiesa uscirono i flagellanti.

«Dies irae, dies illa!1». Le cupe note dell’inno si alzavano nell’aria riempiendo di terrore le coscienze.

«…qua resurget ex favilla iudicandus homo reus2». Ognuno si vedeva già, tremante, al cospetto dell’implacabile giudice di ogni peccato. E i gemiti che il flagellante emetteva nello squarciarsi la pelle con la frusta armata di spine erano i propri gemiti al ricordo di tante debolezze in cui era caduto.

«..huic ergo parce, Deus!3». Sì, misericordia. Esigenza impellente all’immaginarsi sull’orlo del cupo abisso, pronti a essere inghiottiti dalle fiamme eterne, in un’eterna sofferenza.

Misericordia, sì, ma come ottenerla? Fragile rimedio appariva il confessarsi, quando l’eternità della pena era comunque commutata in un tempo di purificazione non meno doloroso e, quindi, non meno angosciante. Una misericordia che cancellasse la pena assieme al peccato… dove trovarla?

Concluso il giro del villaggio, la processione si riportò nuovamente sul sagrato della chiesa. Lungo la scalinata che adduceva al pronao si disposero ordinatamente la confraternita dei cappati e quella dei flagellanti, mentre al centro, sul suo baldacchino, troneggiava la statua del santo.

Nel suo immacolato saio bianco, il predicatore abbracciò uno ad uno i flagellanti, finché la sua tonaca fu completamente lordata di sangue. Salì quindi sul pulpito improvvisato a passi lenti, quasi fosse gravato da un peso insopportabile e, nell’allargare le braccia, fu a tutti evidente che in lui si ripresentava il Cristo flagellato alla colonna. E, all’orecchio del cuore, ognuno si sentì sussurrare: «Ecce homo!».

«Popolo mio, che male ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondi!4»

Partendo da questa citazione, il frate iniziò a scavare con la pala del rimorso in un passato che per nessuno poteva essere del tutto pulito, tanto difficili erano le condizioni in cui si era svolto e tanto pesante era l’eredità dei modi di reagirvi addossatagli alla nascita da genitori altrettanto in difficoltà.

Non illuminate dalla luce della Pasqua di un Dio incarnatosi per condividere in tutto la condizione dell’uomo - e, quindi, in grado di comprenderne ogni limite e ogni difficoltà - , le parole del predicatore continuavano a precipitare come macigni sulle inermi coscienze, sollevando nuvole di sensi di colpa, che oscuravano il sole della speranza e immergevano nelle tenebre dello scoraggiamento quel che restava di una vacillante fede in un Dio-Amore. Tra bagliori sinistri emergeva invece il ritratto di un dio di paura, che agiva nel mondo attraverso malattie, disgrazie e calamità, e nell’aldilà per mezzo di demoni che, con sofferenze ancor più sinistre, ripagavano ogni maldestro tentativo dell’uomo di difendersi dai colpi della vita: “Là vi sarà pianto e stridore di denti, gemiti e lamenti, ululati e tormenti, stridore e grida, timore e tremore, dolore e pena, ardore e fetore, oscurità ed ansia, durezza e asprezza, sciagure e miseria, angoscia e mestizia, oblio e confusione, torcimenti e punture, amarezza e terrore, fame e sete, freddo e calura, zolfo e fuoco ardente nei secoli dei secoli”5.

«O uomo, come potrai scampare al precipitare su di te dell’ira divina?». La domanda del predicatore calava ormai su coscienze emotivamente stremate e per questo disposte a tutto.

«Solo i meriti accumulati da Cristo, dalla Madonna e dai santi possono salvarti! Un tesoro di grazia a cui la Chiesa può accedere per ridonarti quella santità, ricevuta nel battesimo, che tu hai sperperato. Onoriamo con animo generoso i santi che possono ridonarci la purezza perduta. A nome vostro, a nome di ogni peccatore che vuol redimersi, il sommo pontefice sta costruendo in Roma una grande basilica per ospitare le spoglie mortali del principe degli apostoli, san Pietro, roccia su cui la Chiesa è fondata. Volete forse trascurare questa occasione unica e lasciare che le sue ossa si disperdano tra le rovine?6».

«No! No! No!». Da ogni petto un urlo si era alzato facendo riaffiorare la speranza, lasciando emergere il sollievo, ripristinando la possibilità di un futuro.

«Venite dunque!», concluse il predicatore, «e fate la vostra offerta:

quando il soldo tintinna nella cassetta

l’anima subito torna ad essere netta!».

Attorno al banco per la vendita delle indulgenze la ressa si fece subito incredibile: per sé e per i propri cari defunti ciascuno pagava il prezzo necessario a rifarsi una coscienza, e con l’animo leggero scendeva verso la piazza del mercato, dove la festa, in forme più laiche, stava continuando.



1 Sarà un giorno d’ira quel giorno…

2 …in cui il peccatore si alzerà dalla polvere per essere giudicato.

3 Abbi misericordia di lui, Signore!

4 Mi 6,3

5 Papa Innocenzo III°, “De Contemptu Mundi”

6 In realtà il brano citato del profeta Michea (cfr. nota 8) così risponde alla domanda sollevata dal predicatore: “Quale offerta porteremo al Signore, ai Dio Altissimo, quando andremo ad adorarlo? Gli offriremo in sacrificio vitelli di un anno? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio? Gli daremo in sacrificio i nostri figli, i nostri primogeniti per ricevere il perdono dei nostri peccati? In realtà il Signore ha insegnato agli uomini quel che è bene, quel che esige da noi: praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio” (Mi 6, 6-8).

11/01/2024

La terza via

Un dialogo fra noi

Michele: «Maria Rosa, hai mai fatto caso a come si svolgono le dinamiche dei litigi?

Quando sorge una tensione tra due persone, ciascuno si sente calpestato nei propri diritti e li rivendica; anzi, spesso esagera, pronto a schiacciare l’avversario. A volte urlando, a volte in un balletto di accuse a denti stretti.

Se non si risolve subito, dopo lo sfogo, parlandosi, la tensione permane ed entriamo in due possibili opposti scenari: il rancore o l’immolazione.

Nel rancore quello che è successo si ingigantisce, diventa terribile e imprescindibile da affrontare per ricucire lo strappo.

Nell’immolazione, che è spesso mascherata da cristiana abnegazione, si perdona tutto e si riprende come se nulla fosse successo.

In entrambi i casi mi costruisco in testa un film in cui io sono la vittima e l’altro il carnefice.

Non ti sembra che a questo punto ci siamo dimenticati della cosa più importante? Il problema… dov’è andato a finire? L’attenzione si è subito spostata sull’io ferito che deve lavare l’onta subita oppure la sublima nella consolante visione di sé come martire cristiano.

Sapendo che, alla fine, si finisce per imboccare l’una o l’altra strada, non è male (dopo lo sfogo iniziale, che è logico e inevitabile) fermarsi davanti a questo bivio e cercare la terza via.

Siediti al sole, abdica e sii re di te stesso”, dice Fernando Pessoa. Rilassati, lasciati perdere e cerca di capire qual è il problema.

Se davvero è un problema, lo è per te come per l’altro, e l’altro capirà che è un problema anche per lui.

Se ti è chiaro, riuscirai a esprimerlo in poche, chiare parole, magari anche proponendo una soluzione semplice e condivisibile.

La terza via: quella che non contrappone i diritti delle due parti, ma che affronta il problema.»


MariaRosa: «E’ vero quel che dici, Michele: smettere di guardare il proprio ombelico, rendendosi conto che non è il centro del mondo, è un primo passo per guardare l’altro e soprattutto vedere il punto di vista dell’altro.

Spesso, però, l’altro non è altrettanto disposto a cambiare punto di vista o almeno ad alzare lo sguardo da se stesso e dalle proprie ragioni. Che fare allora? Come comportarsi quando sentiamo che la voglia di pace è solo nostra e che, invece, l’altro cerca ogni appiglio per dichiararci guerra?

La terza via di cui parli non è evidente, anzi! In un primo momento proprio non ne vedi l’esistenza e sai perché? Perché il tuo sguardo non è limpido, ma offuscato dalle tue ragioni, dal senso di offesa, dalla voglia di far valere le tue verità a tutti i costi. Lascia decantare tutti questi sentimenti, datti tempo, rilassati, cambia prospettiva e soprattutto chiarisciti ciò che vuoi: costruire la pace. Vedrai che a poco a poco, come il diradarsi della nebbia, o all’improvviso, come un raggio di sole tra le nuvole, si aprirà davanti a te la terza via, quella che porterà al bene di entrambe le parti. Essa sarà quella soluzione così semplice e allo stesso tempo intelligente che spiazzerà l’altro ed egli non potrà che assecondarti o…ritirarsi sconfitto in attesa di sferrare un altro attacco…

In un caso o nell’altro avrai, nel tuo piccolo, aggiunto un mattone nel ponte della pace!»

                                                                                    Michele Bortignon e Maria Rosa Brian

Per un collegamento al Vangelo: Gv 14, 16

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10/13/2024

L’orma del pellegrino: cap.1 - L’incarico

 

«Thomas Műntzer: lei certamente conosce questo nome...».

«No, eminenza, non ne ho mai sentito parlare».

Il cardinale guardò con manifesta disapprovazione l’esile figura di prete che gli stava dinnanzi, gli occhi bassi, le mani nervosamente aggrappate ai braccioli di uno scanno troppo grande.

Tornò ad arrotolare accuratamente la missiva che lo informava dei recenti disordini scoppiati nelle terre di Germania e si alzò, pensieroso, dirigendosi lentamente verso la vetrata che dava sulla stretta via a cui il palazzo dell’Inquisizione di Toledo si affacciava.

La luce di quel caldo pomeriggio di mezza estate lo avvolse, quasi trasfigurandone l’aspetto e facendone sembrare più imponente la statura.

«L’autorità della Chiesa è in pericolo» disse a voce bassa, quasi parlando tra sé, «e con essa la sua funzione di guidare gli uomini alla salvezza. Questi “illuminati” - e Műntzer ne è l’esponente principale - pretendono di trovare da soli la strada, nell’ascolto dello Spirito che parla alla loro coscienza. Già quel monaco scomunicato, quel Lutero, si è ribellato affermando che solo la Scrittura dev’essere vincolante per il cristiano, ma questa ulteriore deriva eretica rischia di rendere imperante il relativismo, l’arbitrio individuale!

E chi lo tiene più, poi, l’ordine sociale in queste condizioni?!».

Tacque, e lo sguardo sembrò fissarsi in un punto lontano, a presagire con sgomento masnade di contadini in rivolta contro i signori delle loro terre. Gli uni legittimati da un Vangelo autonomamente interpretato a liberarsi dallo sfruttamento e dall’oppressione in nome di una giustizia che diceva gli uomini tutti uguali tra loro; gli altri legittimati da una Chiesa arroccata sulle proprie tradizioni a difendere un ordine costituito che sentivano voluto da Dio. E vide che l’orrore delle reciproche violenze sfociava in una sanguinosa repressione…

Imbarazzato dal prolungato silenzio, don Manuel Miona si schiarì la gola: «Eminenza» disse, «ma io…».

Il cardinale lo interruppe bruscamente: «Lei è persona ossequiente alla Chiesa - mi è stato riferito - e di notevole acume. Sappiamo anche che le sue attuali condizioni economiche non le consentono un tenore di vita adeguato alle sue capacità; capacità che certamente dimostrerà nel portare a termine l’incarico che le sto affidando. Non mi deluda, e vedrò di procurarle una sede con un beneficio onorevole».

Dicendo queste parole, il cardinale era tornato a piazzarsi davanti a lui, e lo stava fissando con uno sguardo che non ammetteva repliche e dal quale don Manuel si sentiva …schiacciato.

Come emergendo da ricordi di un passato ormai sepolto, al volto che lo scrutava si sovrappose quello di suo padre, che, con voce studiatamente controllata, ma vibrante di aggressività, gli diceva: «Non sognarti di contraddirmi. Va’ subito a fare quel che ti ho ordinato. Sai che lo dico per il tuo bene».

«Va bene. Accetto», rispose in fretta, a mezza voce, don Manuel. «Mi dica cosa devo fare».

L’ufficio del “Calificador principal” si trovava al piano terra del palazzo, proprio in quella stanza che era stata la primitiva sede della Santa Inquisizione. A distinguerlo dagli altri era proprio l’emblema assegnatogli al momento della sua istituzione, scolpito sul marmo dell’architrave: una croce con un teschio e due tibie incrociate.

A partire dalla bolla “Inter Sollicitudines” di Leone X°, il compito del Calificador consisteva nella censura preventiva dei libri, la cui stampa doveva essere autorizzata dalla Chiesa.

Gli Editti di Fede, con i quali gli eretici dovevano essere denunciati all'Inquisizione, erano stati estesi ai libri, di modo che i buoni cattolici che avessero letto qualcosa che potesse essere ritenuto eretico dovevano immediatamente denunciarlo. Il libro passava allora ai Calificadores, che, dopo averlo esaminato, dovevano dare il loro responso al Tribunale Supremo, con il giudizio di assoluzione, di espurgazione o di proibizione. In quest’ultimo caso, tutte le copie dovevano essere consegnate all'inquisizione per essere pubblicamente bruciate.

Il Calificador di Toledo, un uomo di mezza età il cui aspetto emaciato testimoniava di una vita esclusivamente immersa tra le carte di cui si circondava, era ben istruito su che cosa, quanto e come doveva informare don Manuel per abilitarlo alla sua missione.

In un grande armadio a più ante che dominava la stanza, alle spalle della sua scrivania, cercò il cassetto in cui aveva riposto la pratica relativa a un caso recentemente emerso in quel di Manresa, un paese non lontano dal monastero di Montserrat, dove moltitudini di devoti si recavano per venerare la Madonna nera.

Un pellegrino in transito per quel luogo, caduto ammalato, aveva trovato ricovero presso l’ospizio locale. Qui aveva conosciuto un tale, dedito all’assistenza degli infermi, che, oltre a prestargli le cure necessarie, si era intrattenuto con lui anche riguardo alla salute dell’anima, insegnandogli a rivolgersi direttamente a Cristo, in un colloquio “da amico ad amico”, per affrontare i problemi che la vita gli poneva. E ciò lo aveva aiutato a mettere ordine nelle proprie faccende, tanto da rinunciare al pellegrinaggio e decidere di tornare a casa nel desiderio di affrontare in modo diverso le relazioni con i suoi e le attività in cui era impegnato.

Dopo la sua guarigione e la conseguente ripartenza, persone a cui si era confidato ne avevano denunciato le idee (per loro, a dir poco, inconsuete) nell’ambito di un “editto di fede”. L’inquisizione, che lo aveva interrogato approfonditamente, non era però riuscita a trovare nulla che potesse essere definito eretico, per cui, alla fine, l’aveva rilasciato; tuttavia era rimasto un sospetto nei confronti della persona che lo aveva guidato a questa rinascita spirituale. Si trattava di un “alumbrado”1?

«Questo è quel che lei dovrà chiarire, don Manuel» gli disse il Calificador, dopo averlo informato sulla questione. «E raccolga prove! L’accusato affermava che chi lo aveva accompagnato in quel percorso spesso consultava un suo manoscritto da cui prendeva ispirazione per proporgli riflessioni e spunti per metterle in pratica. Trovi quel libro. Lo trovi e ce lo porti. Se, come pensiamo, contiene dottrine che spingono le coscienze all’autonomia, al di là del controllo della Chiesa, sarà necessario distruggere questa mala erba prima che dia frutto e il suo seme si diffonda».

Don Manuel aveva ascoltato non senza qualche perplessità: se questa pratica d’aiuto dava frutto, il solo fatto di non essere in sintonia con la normale prassi della Chiesa bastava a condannarla?

Ma il solerte ecclesiastico gli richiese un ultimo scampolo di attenzione per dettagliargli la specificità di questi “illuminati”, da usare come criterio di discernimento nell’esaminare l’agire spirituale della persona sospettata: «Gli Alumbrados si abbandonano a Dio creando in sé un vuoto di pensieri che attende di essere riempito da visioni, rivelazioni personali ed esperienze mistiche come trance, estasi e levitazioni».

«Già… Ho sentito parlare di quella donna di Salamanca - la “Beata de Piedrahita” mi sembra la chiamassero - che affermava di colloquiare direttamente con Dio e la Madonna. E’ stata poi condannata, vero?».

«Si, ma non per il suo modo di rapportarsi con Dio (in fondo queste sono esperienze personali!), quanto per ciò che ne conseguiva a livello di pratica religiosa: dal momento che il loro Bene è contemplare Dio, e la loro salvezza è da lui direttamente donata senza bisogno di mediazioni ecclesiali, gli alumbrados non sentono più necessari la preghiera, i sacramenti, l’impegno personale nel bene. Alcuni arrivano a sentirsi al di sopra di qualsiasi valutazione morale del proprio comportamento, come se per loro non valesse più la necessità di discernere il bene dal male».

«Proprio come i Catari…».

«Si: quando si svaluta il corpo come male2, lo spirito si sente superiore e inattingibile da ciò che il corpo può combinare, come se in ciascuno di noi ci fossero due persone distinte. Un bel modo per sentirsi autorizzati a tutto!».

«Un’ultima raccomandazione…», e qui il tono di voce del funzionario si fece più sommesso e circospetto: «Tenga presente che, seppure sotto un umile travisamento, la persona che cerchiamo è pur sempre un nobiluomo. Per questo non vogliamo usare le consuete procedure inquisitorie. Vada, osservi, si informi e torni a riferire. Vedremo poi noi come muoverci». E, aperto un altro cassetto, ne estrasse una pergamena inserita in un fodero di cuoio. Era la bolla di incarico. La porse a don Manuel: «La legga. Voglio sia ben cosciente di quali sono i termini entro i quali dovrà svolgere il suo compito».

Srotolato il plico, don Manuel diede voce alle parole che definivano la missione affidatagli: «"Noi, Alonso Manrique de Lara, per misericordia divina inquisitore generale, fidando nelle vostre cognizioni e nella vostra retta coscienza, nominiamo, costituiamo, creiamo e deputiamo voi, don Manuel Miona, inquisitore apostolico contro la depravazione eretica e l’apostasia nell’Inquisizione di Manresa e vi diamo potere e facoltà di indagare su ogni persona, uomo o donna, viva o morta, assente o presente, di qualsiasi stato e condizione, che risultasse colpevole, sospetta o accusata del crimine di apostasia e di eresia, e su tutti i fautori, difensori e favoreggiatori della medesima"».

Un’avventura senza ritorno era iniziata per don Manuel. Un’avventura che avrebbe cambiato la sua vita.


1 E’ il termine spagnolo per “illuminato”

2 Purtroppo questa tendenza ha percorso anche il cattolicesimo, raggiungendo il suo apice con Papa Innocenzo III°, che, nel suo “De Contemptu Mundi” (scritto nel 1195), così dà fondamento alla visione negativa del corpo: “Duplice è la colpa che il concepimento comporta, una sta nel seme, l'altra in ciò che da questo seme nasce; la prima viene commessa e la seconda viene contratta. I genitori, infatti, commettono la prima colpa, la prole la seconda. Chi, infatti, non sa che il coito, anche se coniugale, non può mai verificarsi senza il prurito della carne, senza l'ardore della libidine e senza il fetore della lussuria? Per questo i semi concepiti insozzano, si macchiano, si corrompono, onde l'anima in questi infusa, contrae la corruzione del peccato, la macchia delle colpe, la sozzura dell'iniquità. L'uomo, dunque, concepito dal sangue putrefatto per l'ardore della libidine, è putredine e il verme è figlio dell'uomo”.

10/01/2024

Dal padre al Padre

Hai mai pensato perché, quando rivolgiamo una supplica a Dio, ci viene spontaneo guardare in alto e alzare le braccia con i palmi delle mani aperti? Non è lo stesso gesto che, da bambini, rivolgevamo a mamma o a papà, con i lagrimoni agli occhi, perché ci prendessero in braccio e ci consolassero?
Durante un viaggio in Sicilia, davanti ai templi della Magna Grecia mi sono chiesto il perché di tanta imponenza. Perché la casa di Dio dev’essere grande? Perché Dio è grande e forte e dev’esserlo per proteggere noi piccoli e fragili. Siamo noi che abbiamo bisogno di immaginarlo così per trovare in lui un sostituto ai genitori protettori che adesso non possono più essere tali per noi, diventati adulti.
Sono entrato nelle chiese barocche, ridondanti di angeli in volo, che ti suscitano dentro il desiderio di seguirli 
tra le nubi nei cieli, o di santi raffigurati impegnati in aspre ascesi, rapiti misticamente o vittoriosi nei crudeli martirii, che ti strappano un’esclamazione di ammirazione. Tutto punta al coinvolgimento affettivo col divino: la bellezza suscita emozione e le emozioni positive ti fanno sentire bene. Ancora una volta, non è quel che provi quando ti senti avvolto da un abbraccio? Tutto è bene, tutto è bello perché mi sento protetto, mi sento voluto bene. Questa maestosità, questa bellezza in cui mi sento immerso entrando in chiesa, partecipando a una liturgia, mi fanno sentire parte di qualcosa di grande e di bello, fatto da qualcuno che vuol farmi stare bene.

A questo punto potresti obiettarmi: la tua è una visione di un uomo del XXI secolo! Chissà i poveri contadini ignoranti dei secoli passati che sensazione di piccolezza, di timore avranno avuto di fronte a tanta maestosità! Loro non avevano esperienza di un Dio padre, perché i loro genitori erano stati padroni a cui dare del voi e non amorevoli guide come abbiamo fatto esperienza noi; perciò penso che i loro sentimenti dentro una chiesa erano molto diversi dai nostri perché diversa era la loro esperienza di Dio. È bello che oggi per noi sia così: siamo fortunati!
Già; ma questo cambiamento tra loro e noi nell’esperienza genitoriale come si è espresso religiosamente?
Prima di Cristo bisognava offrire un sacrificio per propiziarsi il dio e ottenere che ascoltasse le nostre richieste. Cristo è venuto a dirci che Dio stesso è il primo interessato al nostro bene; e lo ha dimostrato pagando di persona il suo stare dalla parte di chi non ha voce per difendersi. In realtà, già ad Abramo Dio aveva detto «Basta sacrifici!» (Gen 22, 12), ma gli Ebrei non l’hanno ascoltato; noi cristiani, nei secoli passati, non abbiamo fatto lo stesso, rassicurando i nostri meriti con pratiche ascetiche esagerate? Tutto questo è durato fintantoché il genitore ha continuato a essere un padre-padrone che dava affetto e protezione in cambio di sottomissione.
Il tempio era il luogo dove, a fronte di una richiesta, si faceva (prima) o si prometteva (poi) un sacrificio, perché la protezione del dio andava pagata. Se non ho bisogno di pagarlo, posso trovarlo ovunque e rivolgermi a Lui in un colloquio intimo. Il tempio, dunque, non ha più senso? No, semplicemente ha altri sensi.
Entriamo in una chiesa. Alle pareti una serie di quadri: come l’album delle foto di famiglia, che mi aiuta a rinsaldare i legami con una storia passata a cui anch’io appartengo. Sugli altari le statue aiutano il mio colloquio con chi esse rappresentano. La bellezza mi parla della prospettiva verso cui sono incamminato se vivo nello Spirito di Colui che mi chiama a parteciparvi. I sacramenti a cui partecipo mi aiutano a fare esperienza di Cristo qui e ora.
Probabilmente il cambiamento di prospettiva da padre padrone a genitore amorevole è cominciato con la rivoluzione culturale del ‘68.
Al giorno d’oggi, mi sembra che tanti genitori abbiano estremizzato la ritrovata affettività, che è diventata affettivismo melenso, iperprotezione, incapacità di indicare una direzione, credendo di dare al figlio una maggior libertà di scelta nella vita ma finendo per essere sentiti inutili. Assieme al genitore che non fa più il genitore, anche a Dio non si riesce più a dare un senso e l’uomo sta naufragando sempre più nella solitudine e nel disorientamento. O forse anche questo è un passaggio necessario e la mancanza della figura paterna e la nostalgia di essa spingerà le nuove generazione a cercare un padre nel Padre? Lui è lì, sta alla porta e bussa, sta a noi aprire e farlo entrare. (Ap 3,20).
                                                                                          Michele Bortignon

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9/15/2024

L’orma del pellegrino: introduzione

Inizia oggi, accanto al post di spiritualità che viene pubblicato ogni primo giorno del mese, una nuova rubrica, anch’essa mensile: a metà di ogni mese pubblicheremo, a puntate, un romanzo sulla vita di un grande autore spirituale. Iniziamo, naturalmente, con sant’Ignazio di Loyola: “L’ORMA DEL PELLEGRINO - con Ignazio di Loyola alle fonti degli Esercizi Spirituali” è il titolo, un giallo psicologico che ci introdurrà piacevolmente a scoprire come sono nati gli Esercizi spirituali.

Di seguito l’introduzione del romanzo:

Gli Esercizi... non sono stati la risposta a tanti miei interrogativi e nemmeno la cura alle mie ansie e alle mie preoccupazioni... Nella mia vita, le difficoltà ci sono: nuove o risolte, quotidiane e costanti. Ma ora mi sento accompagnata: Gesù mi è vicino e non sta più lassù sul crocifisso, benevolo ma lontano. Sento che nella quotidianità non sono sola: la preghiera, la sua vicinanza, il discernimento... nei momenti belli e nei momenti bui. E con lui posso capire qual è il passo successivo da fare sulla mia strada. Finalmente non devo portare tutti i pesi della vita sulle mie spalle ma li posso condividere con lui e, attraverso il discernimento, essere uno strumento del suo amore misericordioso. La mia vita si è così aperta ad altre e nuove prospettive”

Questo, nella testimonianza di un’esercitante, è quello che possono dare a noi, oggi, gli Esercizi Spirituali. Ma dove, e come, sono nati?

“…chiesi al pellegrino1 qualche notizia sugli Esercizi, desiderando conoscere come li aveva composti. Mi rispose che non li aveva scritti tutti di seguito, ma quello che accadeva nell'anima sua e trovava utile, ritenendo che avrebbe potuto giovare anche ad altri, lo annotava” 2.

Gli “Esercizi”, il percorso spirituale che Ignazio propone come via all’incontro con Cristo, nascono dunque dalla sua esperienza messa a tema, esperienza che egli descrive poi narrativamente nell’ “Autobiografia”. Scritta ormai al termine della sua vicenda terrena, quest’ultima è il testamento di Ignazio ai suoi Compagni, per mostrare loro l’itinerario di un’anima in Dio. Un atto di umiltà e di coraggio di un padre che ha voluto mettersi a nudo davanti ai propri figli per insegnare loro cos’è la vita spirituale attraverso gli errori, le scoperte, le ingenuità, i desideri, le illusioni e le decisioni succedutesi nella propria esperienza.

Solo i padri del deserto e Sant’Agostino nelle “Confessioni”, prima di lui, avevano evitato gli scogli del genere letterario agiografico o dell’asettico trattato teologico per raccontarsi com’erano, confidando che l’esperienza concreta avrebbe insegnato più e meglio delle teorie e dei concetti.

Questo libro nasce allora dal desiderio di compiere, con il lettore, un viaggio in quell’esperienza di vita i cui passi e le cui acquisizioni Ignazio ha considerato così significativi, importanti e, in un certo qual modo, “universali” da porli come tappe di quel percorso che andrà riproponendo ad altri sotto il nome di “Esercizi Spirituali”.

Ho cercato di scavare a fondo nel mondo di Ignazio, sia a livello storico, ricreando la necessaria ambientazione, sia a livello psicologico, ma, in quest’ultimo caso, con un taglio che considero, per dirla in termini ignaziani, il “magis” di questo libro: il tentativo di far esprimere Ignazio col linguaggio di oggi, con i pensieri che avrebbe se fosse figlio della nostra epoca. E questo per renderlo, senza tradirne lo spirito, “accessibile”, comprensibile, “replicabile”: se non lo rimettiamo a camminare sulle nostre strade, rischiamo di non riuscire a incontrarlo!

In questo esperimento, complice la libertà che poteva darmi il genere letterario del romanzo, ho trattato con una certa elasticità i dati dell’ “Autobiografia”: certi spostamenti di luogo e di tempo, certe dilatazioni, tagli e accorpamenti, peraltro marginali e realizzati senza modificare il senso della storia, mi sono stati utili per conferire maggior fluidità e dinamicità alla narrazione, per far emergere e sottolineare certi concetti importanti per noi oggi.

In conclusione, Ignazio, con la propria esperienza, si propone come specchio dell’esperienza del lettore. Se qualche brano di questo libro riuscirà a farti esclamare: «Caspita! Ma qui ci sono anch’io!» e farti intravedere un altro modo per tornare a muoverti verso l’incontro con Cristo, non sarà stato vano ripercorrere con Ignazio la sua storia.

Buon cammino!

Michele

1 Così Ignazio di Loyola definisce se stesso nell’ “Autobiografia” o “Racconto di un pellegrino”.

2 Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali (nel seguito EE.SS.) n.99. Anche Juan Alfonso de Polanco, nella prefazione alla prima edizione degli Esercizi Spirituali (1548), sottolinea che essi nascono dall’esperienza dell’azione dello Spirito Santo che Ignazio aveva fatto in sé e nelle persone che accompagnava: “Haec documenta ac Spiritualia Exercitia quae non tam a libris quam ab unctione Spiritui Sancti et ab interna experientia et usu tractandorum animorum eductus noster in Cristo pater composuit” (Monumenta Ignatiana, Ex. Spir. I, 79). Ignazio stesso confessa che attraverso l’esperienza era Dio ad educarlo: “In questo periodo Dio si comportava con lui come fa un maestro di scuola con un bambino: gli insegnava. Ciò poteva dipen­dere o dal suo ingegno rozzo e incolto, o dal non avere altri che lo istruis­se, o dal fatto che aveva ricevuto da Dio ferma volontà di servirlo. In ogni caso era per lui evidente, e lo fu poi sempre, che Dio lo trattava in quel modo; anzi crederebbe di offendere sua divina Maestà se ammettesse dubbi a questo proposito” (Autobiografia n.29).

9/01/2024

Cosa significa credere in Dio?

Credere in Dio: che cos’è? Un’opinione sul fatto che Dio esista o meno? Se fosse soltanto così, chi se ne importa? Ognuno si tiene la sua opinione e pace!

Ma… chi è questo Dio?

L’unica cosa sensata che, come cristiani, possiamo dire di Dio è che Lui a noi ci tiene.

Il nostro è un Dio che si fa uomo per mostrarci il modo di essere uomini e si mette a fianco di coloro ai quali l’ingiustizia umana non dà la possibilità di esserlo. Credere in Dio è allora mettersi sulla sua stessa strada, far nostro il suo Spirito e continuare quel che Lui ha cominciato a fare. Se Lui a noi ci tiene, credere in Dio è credere che ognuno di noi è unico e importante, ha una sua dignità che gli dev’essere assicurata e che lui stesso deve conquistarsi.

Nel corso della storia, alcune persone “illuminate” hanno visto con più chiarezza le situazioni in cui la dignità dell’uomo veniva calpestata e questi ridotto a merce da sfruttare da parte di chi deteneva potere e ricchezza. Sulle loro orme, tanti altri si sono dedicati al riscatto dei poveri, all’educazione dei giovani, al prendersi cura degli ammalati e degli anziani, all’accompagnamento spirituale, all’evangelizzazione, ecc. Con la loro azione, essi hanno contribuito al cambiamento della mentalità della società, che ha fatto poi proprie queste attività.

Da notare che il cambiamento è avvenuto sempre quando qualcuno si è messo a fianco di chi voleva aiutare, condividendo le loro condizioni, la loro situazione di vita e mostrando in sé l’alternativa. Solo vivendo “dal di dentro” certe situazioni si può capire come muoversi.

L’ebraismo ha sviluppato due concetti che possono tornarci utili per continuare il nostro ragionamento: il primo è che, dopo la creazione, Dio si è ritirato per lasciare spazio all’uomo; il secondo è che il Messia verrà quando troverà giustizia sulla terra. Collegandoli, se ne può desumere che l’uomo è chiamato a continuare la creazione iniziata da Dio riorganizzandola sulla base della giustizia. E l’unica giustizia giusta è, come abbiamo detto, quella che dà dignità a ogni singolo uomo, assicurandogli la possibilità di diventare pienamente quel che è.

Dove portare questa giustizia? Ogni epoca, ogni luogo ha le sue situazioni da far risorgere; e le capacità e la sensibilità di ciascuno gli dicono su quale di queste impegnarsi. Senza farsene un problema. Ci sarà un momento in cui le sue possibilità verranno interpellate dai bisogni che gli si presentano davanti: sarà quello, e solo quello, il momento di agire.

Ma attenzione: anche l’impegno nel bene potrebbe essere una tentazione: una possibile via di fuga dalla propria realtà deludente per ricevere, aiutando gli altri, una conferma della propria positività e un contraccambio affettivo.

Come si diceva prima, l’aiuto vero lo dà chi vive la stessa situazione mostrando in sé l’alternativa. Se io per primo non ho risolto (o non sto lavorando per risolvere) i miei problemi, che alternativa rappresento? Il mio sarà solo un “fare per”, non un “essere con”, ossia un fare senz’anima, non guidato dallo Spirito, ma dalla ricerca di me stesso.

Certo, anche avere problemi è condividere la situazione degli altri, ma un conto è viverci dentro e affrontarli quotidianamente, un altro girar loro le spalle e impegnarsi altrove per non vederli.

La prima situazione da risanare è dunque la nostra, quella in cui viviamo con le persone con cui siamo in relazione in famiglia, al lavoro, nella comunità. E probabilmente sarà proprio il bene che riusciremo a costruire in questi ambiti a sviluppare in noi quelle capacità e quella sensibilità che avranno in sé la forza e la passione di esportarsi in bene verso gli altri.

Michele Bortignon


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8/01/2024

I rischi dell’effetto gruppo

Partecipare a un’esperienza di gruppo in cui si viene coinvolti a livello profondo tramite la condivisione del vissuto porta indubbiamente a una comunione che si traduce nel tempo in forti legami affettivi. Nell’accoglienza, nell’aiuto, nella simpatia, nella premura degli altri si fa esperienza “incarnata” dell’amore di Dio per noi. L’esperienza degli altri spesso diventa sua parola anche per noi.

A poco a poco i compagni di cammino diventano amici e il reciproco affetto diventa così gratificante da rischiare di diventare la motivazione dell’incontrarsi. Dal primo piano, Dio passa allora allo sfondo, diventando l’occasione per cui ci si trova assieme. Con il calare dell’attenzione a Dio, della tensione ad incontrarlo, dello spazio che gli dedichiamo, cala la sua possibilità di raggiungerci e quindi la sua incidenza sulla nostra vita.

L’affetto delle persone da trasparenza dell’amore di Dio diventa un bene per se stesso, per cui diventa difficile mantenere la propria libertà rispetto ad esso: da una parte ci si crea aspettative sulle persone e dall’altra dei riguardi. Diventa difficile dire loro le cose come stanno: quelle che riguardano se stessi, per timore di perderne la stima; quelle che riguardano loro, per paura di perderne l’affetto. Ci si lascia andare ad espressioni e manifestazioni affettive che non sono più innocenti e spirituali nel momento in cui diventano accaparramento della simpatia dell’altro o delle “coccole” che può darci, anziché espressione di gratuità. Si manifesta così l’affettivismo: il desiderio ansioso di stare assieme agli altri e il timore di esserne abbandonato. Forse è perché, sotto sotto, trovi solo in essi risposta al tuo bisogno di sostegno, di attenzione, di accoglienza, di ascolto. La bellezza di un rapporto umano profondo porta all’affetto e al sostegno reciproco, che però è positivo solo quando è qualcosa in più rispetto al supporto fondamentale offerto dalla relazione con Dio; un surplus buono, ma che non deve diventare indispensabile.

Facciamo attenzione ai sintomi dell’affettivismo:

  • quando abbiamo “bisogno” della relazione tra noi al punto da rinunciare a ciò che è giusto pur di mantenerla

  • quando questa relazione continua a crearti problemi anziché farti vivere nella pace

  • quando la consolazione che ci diamo reciprocamente oscura la presenza del Consolatore

  • quando ci dà più piacere stare tra noi che non con il Signore

Ad evitare questa sempre possibile deviazione è innanzitutto importante una separazione dei momenti: c’è il momento in cui si condivide e si prega e c’è il momento in cui si sta insieme in amicizia; il momento in cui si è rivolti insieme verso Dio e il momento in cui si è rivolti gli uni verso gli altri; il momento del silenzio accogliente e rispettoso e il momento della chiacchiera, dello scherzo e della risata; il momento in cui si affida il fratello a Dio e il momento in cui ci si dà da fare per lui.

C’è un equilibrio e una separazione da salvaguardare tra l’essere amici e compagni di cammino. La propria solidità deve fondarsi su Dio e -certamente!- incarnarsi nelle relazioni umane, ma continuando a vedere in trasparenza attraverso di esse il Dio che ce ne fa dono. E’ questo il presupposto che ci permette di viverle ricavandone tutto il bene che possono darci, ma nella libertà, evitando di diventare vittime delle aspettative degli altri o renderli schiavi delle nostre aspettative. Nelle persone vogliamo dunque incontrare il nostro Signore, quel che Lui è, con affetto e rispetto, e non quello di cui abbiamo bisogno.

Aiutaci, Signore,

  • a non essere rivolti l’uno verso l’altro
  • ad aiutarci l’un l’altro a volgere lo sguardo verso di Te
  • a farci partecipi del rispettivo sguardo rivolto verso di Te


                                                                                           Michele Bortignon

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7/01/2024

Il corpo: porta per la riconciliazione

E' esperienza comune che lo stato d’animo che stiamo vivendo si somatizza, rendendosi visibile attraverso il nostro corpo. Ma è vero anche l'opposto: le sensazioni di benessere o di malessere del nostro corpo influenzano il nostro stato d'animo. Stati d'animo e stati corporei, sentimenti e sensazioni sono dunque reciprocamente correlati, talché un cambiamento degli uni induce variazioni negli altri. Come il malessere interiore si esprime esteriormente in reazioni corporee disordinate, così, in direzione contraria, riordinando il corpo possiamo tentare di riordinare il nostro stato d’animo riportarvi un minimo di tranquillità.

Questa gestione può attuarsi innanzitutto indirettamente, filtrando gli stimoli che ci arrivano tramite i cinque sensi, in modo da nutrirci di quelli che a livello affettivo aumentano il nostro benessere, dandoci pace e gioia, ed evitare quelli che aumentano il nostro malessere, causandoci turbamento e angoscia.

Direttamente possiamo invece modificare volontariamente la reazione corporea al malessere che subentra quando gli stimoli negativi sono già penetrati a livello affettivo sciogliendo la tensione mediante il rilassamento, di cui la componente più importante è la respirazione.

Vediamo come farlo quando, preso da una situazione di conflitto, ti ritrovi agitato.

Il respiro breve e affrettato che ti secca la gola, ti stringe lo stomaco e ti agita il cuore, rendilo lento e profondo, lascialo scendere fino al centro di te, dove è presente Dio Padre che tutto accoglie e tutto trasforma a immagine di suo figlio Gesù Cristo mediante il suo Spirito.

Inspirando accogli lo Spirito di Dio, che ti dà vita; espirando consegnagli il tuo malessere che ti dà la morte. Accogli la sua forza e consegnagli la tua debolezza, accogli la sua fiducia e consegnagli il tuo scoraggiamento.

Lasciagli che il tuo respiro si carichi di Lui, di ciò che Egli vuole esprimere di sé in te.

E allora inserisci nel respiro una frase, una parola che esprima ciò che Dio vuol essere qui e ora per te e per l’altro attraverso di te.

Inspirando accogli ciò che Dio vuol essere per te, espirando esprimi ciò che Dio vuol essere per l’altro attraverso di te.

Quando inspiri Dio si comunica a te, quando espiri si comunica all’altro attraverso di te.

Inspirando accogli la persona con cui vivi il tuo problema, la situazione che stai vivendo e presentala al Dio che vive in te, nelle tue ricchezze d’essere; espirando consegnala a se stessa, ma accompagnata da quel tuo modo d’essere che più senti adatto a volgere l’istante presente in bene e pace per tutti. Con Dio sai accogliere e sai lasciare; sai prenderti cura e sai permettere che lei possa anche essere così com’è. Inspira ciò che lei è e, purificatolo in te, restituisciglielo più bello nelle ricchezze, più dolce nei limiti.

                                                                              Michele Bortignon

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6/01/2024

Desideri e salvezza

E’ possibile trasformare la realtà secondo i propri desideri?

Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà”, dice Gesù (Gv 16, 23).

Chiedere a nome di qualcuno significa metterti in sintonia con il suo spirito e farti interprete dei suoi desideri. Puoi dunque ottenere se il tuo desiderio riguardo a questa situazione coincide con il desiderio di Gesù. Inizialmente non sarà così, per cui devi procedere a una purificazione dei tuoi desideri per arrivare a desiderare ciò che Lui desidera. In che modo?

Comincia innanzitutto a chiedere quello che tu desideri. Chiedere non solo ti è lecito, ma, in un rapporto di confidenza, è il primo passo per creare comunione, dandoti la possibilità di sfogare le tue emozioni e guardare poi assieme dove esse vorrebbero condurti e con quali conseguenze. Il chiedere non è dunque per ottenere, ma per cominciare a discernere quali vie portano alla salvezza.

Ma cosa significa salvarsi? Salvarsi è trasferire la propria esistenza dall’ambito della morte a quello della Vita. Ansie e paure da una parte, serenità, gioia, libertà interiore dall’altra sono ciò che distingue questi due ambiti.

Quello che chiediamo, dunque, ci porta alla salvezza? I nostri desideri sono allineati con quelli di Cristo, il Salvatore, quando ci portano dalla morte alla vita, realizzandosi secondo il suo Spirito: nella fede, nella speranza, nell’amore. Non c’è infatti altra via per la salvezza che camminare per strade sempre e comunque caratterizzate da un amore che si fonda sulla fiducia in Dio e guarda con speranza al futuro.

Certo, sarebbe bello poter vedere con chiarezza il cammino da percorrere verso la realizzazione dei propri desideri, programmandolo in anticipo! Camminare con Cristo significa però decidere assieme soltanto il prossimo passo. Ma perché questo possa realizzarsi occorre la fede, ossia l’accoglienza dello Spirito di Cristo, che, sostituendosi al nostro, dà la vita.

Accogliere in sé lo Spirito Santo non è questione di adesione intellettuale. La fede, infatti, è un entrare nelle vie di Cristo, nonostante i nostri pensieri ci orientino in direzione opposta. E, come abbiamo detto, spesso senza nemmeno sapere come.

Sappiamo però dove ci porterà il seguirlo: a vivere con gioia, in serenità, nella libertà interiore.

                                                                                     Michele Bortignon

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5/01/2024

Quale fede?

Perché a me? Perché Dio sta permettendo questo? Sono due interrogativi che in modo personale o in termini generali pongono una questione di fede: se non capisco il perché del mio dolore e in generale la sofferenza dell’uomo come posso credere in Dio? Se non capisco Dio, il suo volere, il suo agire, come posso fidarmi e credere in Lui? La risposta a questi interrogativi svela la natura che si attribuisce alla relazione con Dio. Mi viene in mente il primo comandamento “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro dio fuori di me”. Così come viene presentato Dio fin dai primi anni di catechismo, la natura della relazione ha un carattere formale: si dà grande importanza al rispetto delle regole (dei comandamenti), alle pratiche (preghiere e riti), ai formalismi (è lecito/non è lecito), al senso del dovere (mi devo sforzare a…) con l’idea che, nella relazione, la parte più difficile spetta a noi che dobbiamo camminare in salita e migliorarci, rialzarci dalle cadute, magari camminare più svelti per stare al passo con gli altri. Il metro di giudizio di questo modo di credere è lo sforzo che si compie (ho rinunciato a, ho dedicato la vita per, mi sono sacrificato in nome di) e il premio che ci si attende, consegnato direttamente dalle mani del Padreterno, è la salvezza. C’è poco o nulla da capire: si tratta di imparare a memoria e praticare; e alla domanda «Perché credi?», la risposta potrebbe essere perché sono mi hanno battezzato, perché mi è stato insegnato, perché potrei finire all’inferno… Poi però ci sono i fallimenti, le perdite, il dolore, le malattie e i problemi della vita ordinaria, quella vera di tutti i giorni, e un altro interrogativo si fa strada: a cosa serve credere in Dio se poi siamo soli ad affrontare la vita? Il bisogno di avere delle risposte valide, il desiderio di cambiare e l’apertura a nuove soluzioni squarciano la corazza delle certezze.

Incontrare qualcuno a cui brillano gli occhi quando parla di Dio, nonostante nella sua vita stia lottando contro un male incurabile, sentirsi riconosciuti dagli altri nonostante noi ci vediamo falliti, ricevere l’amore di un amico o del coniuge anche quando abbiamo sbagliato fanno cambiare tutto. Questi eventi “casuali” diventano delle micce accese che possono innescare il cambiamento. Lo Spirito di Dio, da sempre presente nell’esistenza umana, si fa strada nell’anima e piano piano comincia ad abitarla. Quel Dio lontano e irraggiungibile lo si scopre al proprio fianco sul fondo dell’abisso, tanto che il proprio dolore è inciso sulla sua carne. Egli mi è così vicino da essere nella parte più profonda della mia umanità e non sta a guardare, ma soffre e palpita con me. Questo cambio di prospettiva trasforma la relazione in personale e intima; e, come per i discepoli di Emmaus, ciò che conoscevo inizio a sperimentarlo e ciò che prima era solo regola, comandamento, ora acquista un sapore che da corpo al sapere. Dio si fa prossimo, amico, marito, figlio, presente nell’amore umano e i gesti concreti si trasfigurano diventando manifestazione della presenza divina.

La fede allora diventa una questione di esperienza e gli schemi preconfezionati non bastano più. Si può capire l’amore solo vivendolo all’interno di una relazione che lo definisce e gli da sostanza; si può capire Dio solamente facendone esperienza, attraverso la nostra umanità e all’interno della nostra vita; e alla domanda «Perché credi?», la risposta diventa «Non potrei farne a meno, Lui ha creduto in me per primo».

                                                                                    Michele Bortignon

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4/14/2024

Gli Etruschi e la morte

Curioso: quando ci si muove per l’Italia tra chiese e musei, le opere d’arte a tema religioso ci parlano insistentemente, ossessivamente della morte. Dipinti che raffigurano le più atroci torture dei nostri irraggiungibili santi o che immaginano un al di là che, sì, è tutto nuvole e voli per i buoni, ma è inquietante per chi (e chi non ci si ritrova?) non è stato alle regole.

Quanta parte abbiamo avuto noi cristiani nel costruire un immaginario terrifico attorno alla morte, questa dimensione così umana, di cui però nulla possiamo sapere e che il nostro credo riveste di speranza?! Me lo chiedevo osservando con interesse i sarcofagi delle tombe etrusche, così diversi da quelli dei nobili tumulati in certe chiese o da certe tombe monumentali dei nostri cimiteri. Qui tutto è dolore, pianto, solennità, nella raffigurazione di una fine che così poco suggerisce la speranza di una risurrezione.

Il defunto etrusco invece, sopra alla cassa in pietra o in cotto, viene raffigurato sdraiato sul suo triclinio, nella posa che egli assumeva in uno dei momenti più gioiosi della sua vita: il simposio. Che cos’è un simposio? È la parte finale del pranzo conviviale, in cui ci si rilassa sorseggiando una coppa di vino, ascoltando musica, conversando amabilmente con gli amici o i parenti. E, all’interno della grande tomba familiare, sui loro sarcofagi rivolti gli uni verso gli altri i defunti potevano continuare per l’eternità a intrattenersi vicendevolmente.

Quello che rappresentiamo in terra trova il suo compimento in cielo: questo credevano gli antichi. Ed ecco allora che la loro speranza, il loro “paradiso”, era appunto quella di vivere per sempre quel che più piacevolmente facevano in vita: stare assieme alle persone care, intrattenendosi su ciò che rende significativa la vita (ricordiamo, ad esempio, proprio il “Simposio” di Platone), gustando il piacere del cibo, del vino, della musica, del pensare con saggezza, della buona compagnia.

E questa speranza non diventa forse un invito a cercare di vivere il più intensamente possibile questi momenti, così da renderli già qui e ora il paradiso in cui vivere per sempre?

Questa speranza di una continuità veniva sostanziata dal provvedere al defunto le suppellettili necessarie ad allestire il suo convivio ultraterreno: piatti, coppe, orci; e sulle pareti delle tombe (possiamo vederli nella necropoli di Monterozzi a Tarquinia) i dipinti ricreavano lo sfondo del simposio, a renderlo vivo, immortalando l’attimo in un presente eterno.

Non è interessante notare che in ogni tempo l’uomo cerca un modo per superare la tragedia della morte e arrivare alla felicità? E guardare a cosa fanno gli altri ci apre la mente, arricchendo di stimoli il nostro modo di pensare e… di credere.

                                                                                                          Michele Bortignon

Piombino

Maremma

Maremma drive

4/01/2024

Da dove nascono i problemi

 

Le forti reazioni che si scatenano in te in certe situazioni rivelano la tua angoscia di perdere o di non riuscire ad ottenere qualcosa che soddisfa un bisogno fondamentale di cui nel passato hai subito dolorosamente la deprivazione.

Possiamo pensare, come esempio, a un conflitto personale sul modo di gestire una certa attività, nello svolgimento della quale sei è particolarmente stimato, proprio tu che un tempo ti sentivi considerato una frana; oppure al distacco imposto dalle tappe della crescita dei figli, dal cui affetto ti eri sentito colmato, proprio tu che non ti eri mai sentito amato fino in fondo.

Questi bisogni negati, che costituiscono il nucleo della tua fragilità, la ferita non ancora rimarginata che sanguina quando toccata, sono essenzialmente tre:

  • la stima: il bisogno di validità personale
  • l’affetto: il bisogno di essere amato e di amare
  • la sicurezza: il bisogno di integrità del tuo essere

La sofferenza che provi in queste situazioni la scarichi poi su te stesso attraverso le somatizzazioni oppure sugli altri mediante un’aggressività che, più o meno controllata, ma comunque evidente dal disagio reciproco, rivendica i tuoi diritti, ritenuti ingiustamente calpestati, e si esprime in quelli che sono stati definiti “peccati capitali”, tipici atteggiamenti di autodifesa (ira, disordini alimentari, disfattismo, invidia, lussuria, avarizia, superbia).

Un’alternativa all’aggressività, a torto ritenuta soluzione cristiana, è l’abnegazione ascetica, quando decidi di accettare, senza reagire, la situazione che ti fa soffrire, ritenendola espressione di un disegno divino.

In fondo l’abnegazione ascetica è un rinunciare a qualcosa per ottenere qualcos’altro: il “paradiso”, dei meriti con Dio, una certa sensazione di santità, la realizzazione del proprio essere cristiani. C’è molta ricerca di te stesso in questa rinuncia a te stesso: sei tu che rinunci, perché sei capace di rinunciare. E’ un atto di eroismo. Questa ardua sublimazione rischia però più tardi di far scoppiare con violenza il tuo bisogno represso, e con esso un’acrimoniosa delusione nei confronti di Dio, che accusi di non ripagare il sacrificio che gli hai offerto.

Sia nella ribellione rivendicativa che nell’abnegazione ascetica il protagonista sei pur sempre tu, che ti muovi con una logica puramente umana. E questo finché, bene o male, riesci ancora ad avere un qualche controllo della situazione, finché riesci a mantenere un equilibrio che, seppure fragile e malato, regge. E’ forse un bene, a questo punto, se, un litigio più forte degli altri o un crollo psico-fisico fanno collassare questa tua struttura difensiva: se può essere il momento in cui finalmente trovi il coraggio di guardarti in verità e ammettere di aver costruito un sistema di relazioni in cui tanti secondi fini, tesi per l’appunto a soddisfare i tuoi bisogni, sono causa di sofferenza a te stesso e agli altri. Ti vedrai schiavo dei tuoi bisogni, condizionato a comportamenti ripetitivi da cui non riesci a uscire, preda di timori che non hanno riscontro nella realtà ma che pure ti angosciano; se sei impegnato nel bene, scoprirai in esso venature di egoismo, di manipolazione degli altri ai tuoi fini.

Ma è proprio al fondo di questa verità, in cui provi orrore di te stesso, che Dio ti aspetta per rinnovarti la sua fiducia. E’ questo il momento decisivo, in cui puoi porre l’atto che può risollevarti dalla dannazione dello scoraggiamento e portarti alla salvezza della risurrezione: l’alzare lo sguardo per lasciarti accogliere, accarezzare, sollevare dallo sguardo di Dio.

E’ uno spostare il tuo punto d’equilibrio da te stesso a Lui, accettare di passare dalla sicurezza dell’autogestione all’incertezza della fiducia, forte soltanto dell’intuizione di un amore colmo di promesse, di una speranza che si fonda sulla riscoperta di un passato segnato da una vicinanza discreta ma efficace.

E’ l’esperienza di una presenza che colma ogni bisogno, per cui cessa ogni ricerca, ogni affanno, ogni reazione di difesa.

Davanti a Dio ti presenti ora così come sei: la maschera che indossavi si è frantumata in mille pezzi. Provi la strana e inebriante sensazione di essere nudo, ma non te ne vergogni; ti senti libero, leggero, …felice!

Riguardo alla situazione a cui sei attaccato puoi dire di star passando dal “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!” al “Tu, Signore, me l’hai data e io a te la ridono: aiutami a viverla come a te piace”.

Scoprirai allora di esserti reso vittima del meccanismo della proiezione, interpretando come mancanza di stima o di affetto nei tuoi confronti quel che probabilmente è soltanto una pigrizia, un egoismo, una disattenzione dell’altro: l’altro non ti fa male apposta, ma il suo comportamento egocentrato o superficiale scarica sulla vostra relazione effetti negativi, che tu risenti con particolare sofferenza.

Non c’è dunque un problema nella vostra relazione, ma c’è un problema tuo e c’è un problema suo. Ciascuno però può agire solo sul proprio problema. Innanzitutto identificandolo come tale, per poi evitare di scansarlo chiedendo solo all’altro di cambiare.

Vivere questa situazione nello Spirito del Cristo significa dunque guardare in faccia il male che senti e dirgli «Tu sei figlio del mio demonio e vuoi spacciarti per figlio del demonio altrui per fare due morti al prezzo di uno. Ti ucciderò in me. Non per mia capacità, ma per grazia: mi metterò in relazione con Dio così che il suo amore e la sua stima per me si espandano nel mio cuore fino a farti sloggiare».

Porta la lotta dentro te stesso, tra il tuo Dio e il tuo demonio. Non lasciare che trabocchi all’esterno, nella relazione con l’altro, in brontolamenti, pretese, arrabbiature, oppure scoppi in comportamenti compulsivi che fanno male ad entrambi. Continuando ad amare. Continuando a sperare. Continuando ad aver fiducia in Dio. E, in questo clima pacificato, potrai, più tardi, richiamare anche l’altro ad affrontare il proprio problema.

                                                                             Michele Bortignon

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