
La peste, che aveva lasciato
Barcellona permettendo di riaprirne il porto, imperversava invece in
Italia. Nei paesi infettati dal morbo, “tra
gemiti miserabili e la strage accomulata dei morti con odor
puzzolente e acutissimo, un orrore funebre era dappertutto, rendendo
l’aspetto del luogo infelice e spaventevole. A molti si vedeva
gonfiare il ventre e le cosce con notabil pallidezza di volto; indi
venivano meno e con un torcersi di corpo mandavano lo spirito fuori,
restando insepolti, senza che il padre al figlio o l’amico al
compagno potesse apportar alcun ristoro, non chiuder gli occhi o
bagnar di lacrime il viso, non porger gli ultimi baci ed
abbracciamenti, non almeno poterli coprire d’arena. Ogni cosa era
piena di lagrime, di miserie, di confusioni, di tumulti e stridi di
quei che fuggivano per mai più ritornare nelle loro case a vedere e
abbracciare i suoi più cari e di quei che restavano per essere ogni
giorno insultati e oltraggiati dai maligni. Non pareva sicuro il
padre dal figlio, né il figlio dal padre, né tra amici, fratelli o
congiunti v’era sincerità d’affetto. Ogni cosa era ingombrata di
spavento e di lutto, tra rapine, proscrizioni, bandi, minacce e
insolenze”.
Iñigo
era sbarcato a Gaeta: sua intenzione era recarsi a Roma per ottenervi
la benedizione papale, per poi dirigersi a Venezia, da dove sarebbe
ripartito per Gerusalemme.
Lungo
il viaggio si era di volta in volta accompagnato a diverse persone
incontrate lungo il cammino, e con loro aveva vissuto situazioni in
cui la paura della morte, indotta dal subdolo dilagare della peste,
veniva affrontata in modi diametralmente opposti: da una parte il
disperato tentativo di chi voleva godere l’ultimo scampolo di una
vita incerta con violenze, imbrogli, isolamento, ma dall’altro
anche atti di generosità di chi sapeva guardare alla vita come parte
di un’esistenza che aveva in Dio la sua origine e il suo
compimento.
A
Venezia, i portici di piazza San Marco offrivano un riparo notturno
ai poveri della città. Anche Iñigo si unì a loro, chiedendo
l’elemosina ai commercianti che sorvegliavano l’imbarco e lo
sbarco delle loro mercanzie sui moli della Riva degli Schiavoni.
«Disculpe…
algo para comer… Por favor!»: non conosceva l’idioma veneziano,
ma il gesto era sufficiente per far comprendere le sue intenzioni. Lo
intese bene, però, un funzionario spagnolo, che volle interessarsi
di questo suo connazionale: «Un aiuto potrebbe certamente ottenerlo
all’ambasciata dell’imperatore Carlo V°» gli suggerì dopo aver
saputo della sua intenzione di imbarcarsi per Gerusalemme.
«No,
non voglio confidare in mezzi umani. Se il mio viaggio, come credo, è
volontà di Dio, nella sua provvidenza Egli stesso mi darà i mezzi
per compierlo».
«Voglia
almeno riconoscere la mano della Provvidenza in questo nostro
incontro: sarò lieto se vorrà essere mio ospite per pranzo».
Sorrise, Iñigo, pensando che quell’incontro poteva essere un dono
di Dio non tanto per il pasto, ma perché, nel mettere in comune le
rispettive esperienze di Dio, e l’uno e l’altro avrebbero potuto
trovare nutrimento. E lo seguì.
Il
labirinto delle calli veneziane li inghiottì con il suo dipanarsi
tra gli argini dei canali su cui scivolavano silenziose le gondole, i
vicoli stretti tra case l’una all’altra addossate e i tenebrosi
“sotoporteghi”, cupi passaggi tra le umide fondamenta. Giunsero
infine all’entrata posteriore di un palazzotto affacciato sul Canal
Grande e si fermarono un attimo a osservare l’andirivieni di
imbarcazioni che si scorgeva attraverso l’accesso “nobiliare”,
aperto direttamente sull’acqua, via privilegiata per gli
spostamenti all’interno della città. Al piano superiore, la tavola
era già imbandita.
La
novità del commensale che parlava la loro stessa lingua, e la
curiosità per una vicenda che doveva essere singolare, eccitò la
famiglia del suo ospite, che cominciò a tempestarlo di domande. Ben
presto, però, la conversazione si addentrò nei grandi temi
dell’esistenza, abilmente guidata dalla capacità del pellegrino di
cogliere l’essenziale dei discorsi che si facevano, e da lì
partire per esaminare le questioni dal punto di vista di Dio.
Al
termine del pasto, nessuno aveva voglia di alzarsi da tavola, tanto
la conversazione era animata nel cercare di dare risposte agli
interrogativi che nascono dalla vita.
«In questo
momento tutti temono il contagio», stava dicendo il padrone di casa,
«Per questo pensano solo alla morte e a quello che ci sarà dopo; e
vivono in funzione di questo. Io non credo, però, che Cristo sia il
guardiano dell’aldilà, ma il garante della vita, Colui che ci
insegna come viverla in pienezza… o, almeno, come sopravvivere a
ciò che ci sta uccidendo dentro. Ma a volte sento che non mi basta
un insegnamento…».
«E’
naturale! Ed è Lui il primo a rispondere a questo nostro bisogno di
sentirceLo vicino: la sua risurrezione, in fondo, non è che una
nuova incarnazione, una presenza che ora continua in chi vive nel suo
Spirito: nella fede, nella speranza, nell’amore».
«Fede…
Speranza… Amore… io queste virtù vorrei capirle nel loro
spessore di concretezza» replicò la moglie, «altrimenti restano
parole che mi scivolano addosso».
«Posso
dirle come io le ho comprese vivendole… Dunque, per me fede è
l’apertura alla vita nella sua dimensione di mistero. La speranza,
poi, è una fiducia profonda nel senso della vita».
«E
l’amore?» chiese la figlia adolescente.
«E’
ciò che fa esistere e fa Vivere ciò che esiste. L’amore lo sento
in me come una forza che mi apre all’altro e mi fa così ritrovare
me stesso più vero, più buono, più sereno, in armonia con tutto
ciò che sono e tutto ciò che mi circonda».
«E’
dunque nell’amore che troviamo quella Vita in pienezza di cui prima
si parlava?».
«Si,
e me lo conferma il fatto che le relazioni vissute nell’amore vero
mi lasciano nel cuore una pace vasta, profonda e duratura, pur
nell’impegno che esse comportano».
«Già...»
riprese la ragazza, «ma spesso il problema è capire che cosa è
bene, come si fa ad amare nel modo giusto…».
«Si,
e… non posso farlo da solo. Per capire come orientarmi nella vita
devo entrare in colloquio con Chi questa vita l’ha creata e, in suo
Figlio, ci ha mostrato come viverla. Se è suo il pensiero che mi
entra nel cuore, già solo l’accoglierlo porta un aumento di fede,
di speranza, d’amore che dura nel tempo e mi dà pace, gioia,
libertà interiore».
«Ma
perché non potrei costruirmi io la mia strada verso la vita in
pienezza, decidendo io ciò che è bene e ciò che è male?», lo
provocò il giovane figlio della coppia.
«E’
naturale che il mio sguardo sulla vita sia condizionato dal mio
interesse e dalla mia storia precedente», osservò Ignazio. «Rischio
allora di cercare una felicità basata esclusivamente sul
soddisfacimento dei miei bisogni, che rovinerà la mia relazione con
gli altri, questa sì luogo della vita in pienezza».
«E
allora qui c’è da chiedersi che cosa ci spinge a soddisfare a
tutti i costi i nostri bisogni!» continuò, curioso, il giovane.
«Dentro
di me mi rendo conto che è giusto amare, ma la paura mi prende alla
gola facendomi sentire la mia vita insignificante, fallita, se non
ottengo o se perdo ciò che credo possa soddisfare i miei bisogni di
sicurezza, di stima, di affetto. Questa paura mi porta a manipolare a
mio vantaggio le relazioni con gli altri, anziché amarli. Quando
però ho rovinato le mie relazioni, rimango solo, con i miei bisogni
insoddisfatti».
«E
c’è la possibilità di rompere questa schiavitù?».
«Si,
perché il Bene è la nostalgia che mi riempie il cuore. Il bene è
la mia natura, il male la mia paura. Il cuore, se sappiamo
ascoltarlo, ha una sua sapienza: si rende benissimo conto che l’amore
è via a una vita bella e piena di significato».
Il
ragazzo continuava a rimanere perplesso: «Si, certo: guardando a
Cristo posso capire che il mio bene è seguirlo sulla sua strada per
entrare in questa “vita bella e piena di significato”. Ma la
realtà mi presenta ogni giorno tanti motivi per non credere, per non
sperare, per non amare. E' più facile e più veloce soddisfare i
propri bisogni senza tener conto degli altri e del proprio futuro.
Per questo è meglio credere che non c'è una verità, un senso, un
ordine, ma tutto è relativo; allora un punto di vista vale l'altro
e, finché può, ciascuno si fa legge a se stesso».
Iñigo
non poté che assentire: «Lo so. Per questo la nostra risposta per
essere umana e tener conto di noi, deve andare oltre le paure e i
bisogni che il nostro istinto ci presenta e mettersi invece in
ascolto della nostra verità più profonda, dello Spirito di Cristo
che agisce in noi come forza di verità. Lo Spirito Santo è la forza
e la sapienza interiore che mi spinge a credere che tutto ha un senso
nel bene, a sperare che alla fine tutto sarà bene, ad amare per
costruire il bene: è Dio presente in me e operante attraverso di
me».
«I
miei figli a volte mi chiedono perché la relazione con Dio debba
passare anche attraverso la Chiesa…» riprese la donna.
«Poiché
Dio è amore, lo si incontra nell’amore vissuto all’interno delle
relazioni. E dove si vive l’amore si costruisce comunità. La
Chiesa è la fratellanza di coloro che l’esperienza dell’Amore ha
riunito e assieme diversificato per formare un corpo capace d’amore.
In essa sono nato alla fede, in essa sono sostenuto nella mia
speranza, in essa rendo vero il mio amore.
Essere
unito agli altri nella Chiesa significa allora vivere come una delle
tante, tutte indispensabili, parti del corpo di Cristo operante nella
storia, senza la pretesa di esserne l’unica espressione. Siamo
tutti in cammino con Cristo, ma nessuno lo possiede; tutti facciamo
la nostra parte, e nessuno, da solo, è a sua misura.
Però
nella Chiesa sono anche diverso dagli altri. E questo significa
vivere il compito assegnatomi dal mio carisma e sviluppare un
pensiero basato sui frutti della mia personale esperienza di vita in
Cristo. Azione e pensiero specifici sono contributo essenziale alla
crescita della Chiesa perché mossi dalla creatività dello Spirito
Santo per il bene comune».
Con
queste ultime parole il silenzio si fece strada tra i commensali;
anche la mensa della Parola era stata abbondante e c’era il bisogno
di assimilarla personalmente perché diventasse nutrimento. Anche
Iñigo tacque. Dopo aver dato a queste persone ciò che aveva nel
cuore, sentiva che quel che ancora poteva fare era pregare per loro,
affidandole alle cure di Dio: «Non è solo attraverso di me che Dio
si occupa di loro» pensò.
Fu
il padrone di casa a concludere la conversazione: «Dopo quello che
ci ha detto, il nostro desiderio sarebbe che lei si fermassi qui da
noi ancora qualche tempo: ci sarebbero ancora tante cose di cui
parlare! Ma voglio ascoltare il suo desiderio. Domani la accompagnerò
dal Doge: lui troverà certamente il modo di farla partire per il suo
viaggio!».