12/15/2025

L’orma del pellegrino: cap.15 - Gerusalemme

Quale gioia, quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore»” 1. Tutte le famiglie del villaggio si erano date ritrovo nella piazza per partire assieme. E la carovana si era incamminata lungo piste polverose fino a raggiungere il Giordano. Costeggiandolo, erano arrivate a Gerico, dove altre comitive, provenienti un po’ da tutto il paese, si stavano radunando per affrontare la salita verso il monte di Sion: Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore” 2. Dopo un’ultima svolta del percorso tra le colline, la città santa era loro apparsa in tutta la sua bellezza: “Gerusalemme è costruita come città salda e compatta” 3. “E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme!” 4: prima di entrare e salire al tempio per presentarsi a Dio, bisognava purificarsi con un bagno rituale: “Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronunzia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo” 5. E, dopo questo esame di coscienza, riconosciuta la propria situazione interiore, ognuno acquistava un animale da offrire in sacrificio di espiazione o di comunione e ottenere così “benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza” 6.

Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe” 7. Ma chi cerca il volto di Dio era rinviato a riconoscerlo nel fratello, vivendo assieme a lui nella pace: “Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: «Su di te sia pace!»” 8. E, nella catechesi finale, il sacerdote lo congedava ricordandogli che ogni uomo è un tempio, in cui è presente il Dio che vuole contagiare tutti con la sua santità. Per questo la “Menorah”, la lampada a sette bracci che ardeva nel tempio spandendo luce attorno, tutti avrebbero dovuto vederla accesa in lui, nella libertà, nella gioia e nella serenità che era chiamato a vivere nelle sue relazioni.

Così gli ebrei compivano il loro pellegrinaggio annuale a Gerusalemme. E il loro testimone era stato raccolto dai cristiani, che quello stesso Dio avevano riconosciuto non più mistero e silenzio in un tempio di pietre, ma Parola vivente incarnata in un uomo che in quei luoghi aveva mostrato l’amore che dà vita donando per amore la propria vita.

Che cosa attirava i pellegrini a intraprendere il “santo viaggio”? Per ogni cristiano, con Gesù la Palestina era diventata il luogo di congiunzione tra la terra e il cielo, tra Dio e gli uomini, tra l’eternità e la storia: “Fin dall’eternità le tre Persone divine, vedendo gli uomini che vivono come ciechi rovinando la propria esistenza, stabiliscono che la seconda Persona si faccia uomo per salvare il genere umano; così, giunto il tempo prefissato, inviano l'angelo Gabriele a nostra Signora” 9. In un tempo e in un luogo preciso della storia del mondo, Dio si era incarnato per mostrare in sé, fatto uomo, che cosa è un Uomo.

E, se Gesù Cristo era stato la Parola di Dio rivolta agli uomini, la Palestina era la carta da lettere su cui quella Parola era stata scritta. E su di essa quella Parola ancora poteva essere letta: il tempio di Gerusalemme e il villaggio sperduto tra i campi, l’oliveto ombroso e la strada che attraversa il deserto, l’albero di Fico e l’arbusto del Senape, le acque del lago di Tiberiade e quelle del Giordano, i pastori con le loro greggi e i pescatori che rassettano le reti… tutto ciò era stato sfondo della vita del Cristo e protagonista con Lui degli episodi riportati dalle Scritture. Ora che Gesù era tornato a essere Parola al di fuori del tempo, quelle pietre, quelle piante, quelle acque, i visi e i passi di quelle persone continuavano a rimandarne l’eco di incarnazione, rendendola concreta e tangibile nell’oggi.

Gerusalemme, per il pellegrino Iñigo, costituiva perciò il termine del viaggio, il luogo in cui avrebbe finalmente potuto vivere in colloquio costante e diretto con il suo Signore, interrogando e facendosi raccontare da quelle pietre, da quelle piante, da quelle acque, da quelle persone chi Lui era stato, il vero significato di ciò che Lui aveva detto e operato. Ma, ancora più di questo, lì avrebbe potuto rendersi presente emotivamente e affettivamente a Gesù, mettersi al suo fianco per vedere e toccare quel che Lui aveva visto e toccato.

Lì, infatti, si era sentito personalmente convocato da Cristo, come un amico che per tanto tempo è stato al tuo fianco e che ora ti invita a casa sua, ti accoglie in quei luoghi di cui tante volte ti aveva parlato, per rivelarti ancora meglio qualcosa che per Lui è stato prezioso e importante.

Lì con più competenza avrebbe potuto “procurare il bene delle anime”10 perché, dopo aver ascoltato la Parola di Dio nel luogo stesso in cui essa aveva preso corpo, anche per lui sarebbe stato vero ciò che già avevano detto di sé Pietro e Giovanni: «Non possiamo non parlare delle cose che abbiamo viste e udite»11.

Mendicando per mantenersi e condividendo con altri poveri ciò che aveva raccolto, avrebbe potuto incontrare Cristo nell’amore vissuto. Perché solo se mi metto sulla strada dell’amore posso incontrare l’Amore.

Vivendo in una situazione difficile e pericolosa, com’era la vita in Palestina sotto l’occupazione dei turchi, avrebbe potuto condividere l’angoscia dei discepoli mentre accompagnavano Gesù: “Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti” 12; e quella di Paolo stesso nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme: “Ed ecco, dunque, costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni” 13.

E, come Paolo, avrebbe risposto a chi cercasse di dissuaderlo: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù»14.

Ma non furono tanto gli amici, che già aveva lasciato alle spalle quando avevano cercato di opporgli le loro preoccupazioni, a creargli problemi, ma il padre ministro della “Provincia d’Oltremare” dei Frati Minori, che, con il titolo di “Guardiano del Sacro Monte Sion”, aveva giurisdizione sui pellegrini: «Ho saputo del suo fervoroso desiderio di fermarsi in questi luoghi santi, e ho considerato attentamente la cosa» gli disse, «ma già per il passato altri, che avevano avuto lo stesso desiderio, sono stati uccisi o imprigionati. Ritengo pertanto inopportuno che lei rimanga. I luoghi dove ha vissuto Cristo li ha già visitati; si prepari dunque a partire, domani, con gli altri pellegrini».

Ma per Iñigo rimanere non era semplicemente un pio desiderio: era il futuro a cui l’aveva preparato un lungo discernimento. Non poteva retrocedere su ciò a cui sentiva Dio stesso lo stava chiamando: «Mi spiace, ma la mia decisione è irremovibile» ribatté, «e nessun pericolo può trattenermi dal rimanerle fedele».

«Abbiamo ricevuto dalla Sede Apostolica l'autorità di far partire o lasciar restare a nostro giudizio; e anche di scomunicare chi non vuole obbedire. Troppo elevata è la tensione con le autorità mamelucche egiziane che dominano in questi territori; non possiamo permetterci che qualche incidente turbi il fragile equilibrio che ancora ci consente di garantire l’accesso ai pellegrini».

Cosa stava succedendo? Lungo tutto il viaggio che l’aveva condotto a Gerusalemme aveva percepito concretamente la protezione di Dio in tanti episodi in cui aveva potuto superare le difficoltà e i pericoli che gli si presentavano davanti. E, ora che il suo scopo era raggiunto, tutto doveva finire nel nulla? Si era ingannato nell’intraprendere una strada che sembrava così chiara? Poteva lo Spirito Santo contraddirsi nell’ispirare a lui e alla Chiesa due decisioni diverse?

Seppure a malincuore, Iñigo rimise in discussione il proprio discernimento, decidendo di tener conto, in esso, non solo di sé.

Chinò il capo e promise di obbedire.

Ma quel Cristo che, attraverso la Chiesa, lo aveva invitato a ripartire, Iñigo sentì che aveva ancora qualcosa da dirgli a questo riguardo. E proprio in direzione del monte degli Olivi, da cui Gesù era partito per tornare al Padre, il pellegrino Iñigo mosse i suoi passi. Sulla cima, la pietra dalla quale nostro Signore si era distaccato per salire al cielo recava impresse le orme dei suoi piedi.

«Sono le tue orme che io voglio seguire, Signore» pregò Iñigo. «In quale direzione hai mosso i tuoi passi, perché possa camminarti accanto?».

E, nel silenzio del cuore, una Parola cominciò a risuonargli dentro: «Non mi trattenere15… Vi assicuro che per voi è meglio se io me ne vado. Perché se non me ne vado non verrà a voi lo Spirito16». 

«Non è dunque qui che posso incontrarti, Signore? Dove mi vuoi? Ho sbagliato a capire ciò che mi chiedevi?».

E, nei pensieri che cominciavano ad aprirsi a un nuovo a cui finora, preso dal suo progetto, non riusciva a dare spazio, si sentì rispondere: «Nulla di ciò che ti chiamo a fare è sbagliato: a volte, semplicemente vuol prendere un’altra direzione rispetto a quella che tu prevedevi. Cerca ancora… Cercami altrove…».

Ancora non era morto in Iñigo lo spirito dell’indomito cavaliere che non può accettare di arrendersi; uno Spirito che ora il suo Signore chiamava a spendersi in ben altre imprese: «Quando tutto sembra giunto a un punto morto, e un muro invalicabile sbarra il tuo cammino» si disse in un lampo di santo orgoglio, «prova a vivere la disgrazia, la difficoltà, il problema come un’occasione nella tua vita perché tutto possa cambiare, per passare dalla croce alla risurrezione. Forse la nuova situazione è una sfida che Dio ti lancia a diventare protagonista con Lui del cambiamento nella tua vita. Raccogli la sua fiducia, guarda in avanti con speranza, spenditi nell’amore: diventa il creatore della tua vita!».

1 Sal 122, 1

2 Sal 122, 4

3 Sal 122, 3

4 Sal 122, 2

5 Sal 24, 3-4

6 Sal 24, 5

7 Sal 24, 6

8 Sal 122, 8

9 EE.SS. nn.102-107

10 Sant’Ignazio di Loyola, Autobiografia, n.45

11 At 4, 20

12 Mc 10, 32

13 At 20, 22-23

14 At 21,13

15 Gv 20, 17

16 Gv 16, 7

12/01/2025

Accettare il destino?

Ma io vi dico di non opporvi al malvagio” (Mt 5, 39). Gesù ci sta dicendo di provare un altro atteggiamento con chi ci sta facendo del male. Più spesso, però, questo” malvagio” non è una persona, ma una situazione: una malattia invalidante, un genitore anziano di cui prendersi cura, un figlio che procede per strade sbagliate, la morte che si avvicina… La vita come l’avevamo programmata incontra un divieto di accesso e il prosieguo è ignoto e tutto da inventare. C’è un’alternativa? Sì, potremmo scappare in ciò che ci evita di pensare al problema, potremmo girare altrove lo sguardo e far finta che non esista, potremmo delegare qualcun altro ad occuparsene… tutti modi per opporsi a ciò che ci sta succedendo.

Ma Gesù ci dice di non opporci al destino. D’accordo: dobbiamo allora rassegnarci e portare pazienza? Dobbiamo accettare e piegare la testa sotto il giogo dell’inevitabilità? Ma come può concordare allora questa prospettiva con il fine che Egli dà alla propria azione -“io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza” (Gv 10, 10)-? L’accettazione del proprio destino porta alla vita in abbondanza? Dipende come! E il come possiamo capirlo proprio se al nostro orizzonte non vediamo la tragedia, il tracollo, la disfatta, il disastro, ma, nella speranza che alla fine tutto sarà bene se lo viviamo nello Spirito del Cristo, prendiamo quel che ci succede come opportunità di avvicinarci a Lui, di vivere in maniera divina la nostra umanità.

In fondo, non è proprio questa la risurrezione? A chi si lascia portare dal fiume della vita nel suo mistero, guardandosi attorno, cercando di capire, provando modi alternativi, questa schiude inattesi orizzonti di novità. Da questa morte in cui mi aggiro, posso uscire e trovare una Vita inaspettata se decido di vivere questa situazione come un’avventura, come l’esperimento che può rivoluzionare il mio modo di vedere, di pensare, di giudicare. Nei miei programmi di prima cercavo la Vita; ora decido di cercarla qui, fidandomi di Chi questa strada l’ha già percorsa per mostrarmela possibile e sicura nel suo esito.

Certo, fare questa scelta non è frutto di ragionamento: ti viene quando sei già in Cristo e la senti come naturale per continuare a essere in Lui. Puoi anche sentirla ragionevole, ma te ne separa la paura di come potranno andare le cose. Un passo alla volta, allora: prega per averne il desiderio. La prospettiva irrealizzabile comincerà ad assumere uno spessore di realtà.

Questo significa che non provo sofferenza, che non provo paura? No, anzi: come Gesù al Getzemani la provo e posso esprimerla, ma decido che sono io decidere e non la mia paura per me. Le mie decisioni mi sollevano al di sopra del mio io spaventato. Con esse posso dominare la violenza del destino: “IO SONO” e non “io mi lascio essere”. Scelgo ciò che voglio essere e lo costruisco con le mie scelte. Voglio essere io a scrivere la mia storia, come io decido. Cominciano allora a prendere senso quelle parole di Gesù che seguono a quelle già citate -“ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due” (Mt 5, 39-41)-: è l’orgoglio di non essere succube, di sentire che posso dominare la situazione; è Gesù nella passione del vangelo di Giovanni, Signore di ciò che gli sta succedendo. Un orgoglio, questo, che si chiama libertà, che si chiama possibilità e volontà di essere come il mio sogno, che ho visto incarnato in Cristo, mi attira ad essere.

Ed essere con Lui è la mia consolazione.


Michele Bortignon

11/16/2025

L’orma del pellegrino: cap.14 - Venezia

La peste, che aveva lasciato Barcellona permettendo di riaprirne il porto, imperversava invece in Italia. Nei paesi infettati dal morbo, “tra gemiti miserabili e la strage accomulata dei morti con odor puzzolente e acutissimo, un orrore funebre era dappertutto, rendendo l’aspetto del luogo infelice e spaventevole. A molti si vedeva gonfiare il ventre e le cosce con notabil pallidezza di volto; indi venivano meno e con un torcersi di corpo mandavano lo spirito fuori, restando insepolti, senza che il padre al figlio o l’amico al compagno potesse apportar alcun ristoro, non chiuder gli occhi o bagnar di lacrime il viso, non porger gli ultimi baci ed abbracciamenti, non almeno poterli coprire d’arena. Ogni cosa era piena di lagrime, di miserie, di confusioni, di tumulti e stridi di quei che fuggivano per mai più ritornare nelle loro case a vedere e abbracciare i suoi più cari e di quei che restavano per essere ogni giorno insultati e oltraggiati dai maligni. Non pareva sicuro il padre dal figlio, né il figlio dal padre, né tra amici, fratelli o congiunti v’era sincerità d’affetto. Ogni cosa era ingombrata di spavento e di lutto, tra rapine, proscrizioni, bandi, minacce e insolenze”1.

Iñigo era sbarcato a Gaeta: sua intenzione era recarsi a Roma per ottenervi la benedizione papale, per poi dirigersi a Venezia, da dove sarebbe ripartito per Gerusalemme.

Lungo il viaggio si era di volta in volta accompagnato a diverse persone incontrate lungo il cammino, e con loro aveva vissuto situazioni in cui la paura della morte, indotta dal subdolo dilagare della peste, veniva affrontata in modi diametralmente opposti: da una parte il disperato tentativo di chi voleva godere l’ultimo scampolo di una vita incerta con violenze, imbrogli, isolamento, ma dall’altro anche atti di generosità di chi sapeva guardare alla vita come parte di un’esistenza che aveva in Dio la sua origine e il suo compimento.

A Venezia, i portici di piazza San Marco offrivano un riparo notturno ai poveri della città. Anche Iñigo si unì a loro, chiedendo l’elemosina ai commercianti che sorvegliavano l’imbarco e lo sbarco delle loro mercanzie sui moli della Riva degli Schiavoni.

«Disculpe… algo para comer… Por favor!»: non conosceva l’idioma veneziano, ma il gesto era sufficiente per far comprendere le sue intenzioni. Lo intese bene, però, un funzionario spagnolo, che volle interessarsi di questo suo connazionale: «Un aiuto potrebbe certamente ottenerlo all’ambasciata dell’imperatore Carlo V°» gli suggerì dopo aver saputo della sua intenzione di imbarcarsi per Gerusalemme.

«No, non voglio confidare in mezzi umani. Se il mio viaggio, come credo, è volontà di Dio, nella sua provvidenza Egli stesso mi darà i mezzi per compierlo».

«Voglia almeno riconoscere la mano della Provvidenza in questo nostro incontro: sarò lieto se vorrà essere mio ospite per pranzo». Sorrise, Iñigo, pensando che quell’incontro poteva essere un dono di Dio non tanto per il pasto, ma perché, nel mettere in comune le rispettive esperienze di Dio, e l’uno e l’altro avrebbero potuto trovare nutrimento. E lo seguì.

Il labirinto delle calli veneziane li inghiottì con il suo dipanarsi tra gli argini dei canali su cui scivolavano silenziose le gondole, i vicoli stretti tra case l’una all’altra addossate e i tenebrosi “sotoporteghi”, cupi passaggi tra le umide fondamenta. Giunsero infine all’entrata posteriore di un palazzotto affacciato sul Canal Grande e si fermarono un attimo a osservare l’andirivieni di imbarcazioni che si scorgeva attraverso l’accesso “nobiliare”, aperto direttamente sull’acqua, via privilegiata per gli spostamenti all’interno della città. Al piano superiore, la tavola era già imbandita.

La novità del commensale che parlava la loro stessa lingua, e la curiosità per una vicenda che doveva essere singolare, eccitò la famiglia del suo ospite, che cominciò a tempestarlo di domande. Ben presto, però, la conversazione si addentrò nei grandi temi dell’esistenza, abilmente guidata dalla capacità del pellegrino di cogliere l’essenziale dei discorsi che si facevano, e da lì partire per esaminare le questioni dal punto di vista di Dio.

Al termine del pasto, nessuno aveva voglia di alzarsi da tavola, tanto la conversazione era animata nel cercare di dare risposte agli interrogativi che nascono dalla vita.

«In questo momento tutti temono il contagio», stava dicendo il padrone di casa, «Per questo pensano solo alla morte e a quello che ci sarà dopo; e vivono in funzione di questo. Io non credo, però, che Cristo sia il guardiano dell’aldilà, ma il garante della vita, Colui che ci insegna come viverla in pienezza… o, almeno, come sopravvivere a ciò che ci sta uccidendo dentro. Ma a volte sento che non mi basta un insegnamento…».

«E’ naturale! Ed è Lui il primo a rispondere a questo nostro bisogno di sentirceLo vicino: la sua risurrezione, in fondo, non è che una nuova incarnazione, una presenza che ora continua in chi vive nel suo Spirito: nella fede, nella speranza, nell’amore».

«Fede… Speranza… Amore… io queste virtù vorrei capirle nel loro spessore di concretezza» replicò la moglie, «altrimenti restano parole che mi scivolano addosso».

«Posso dirle come io le ho comprese vivendole… Dunque, per me fede è l’apertura alla vita nella sua dimensione di mistero. La speranza, poi, è una fiducia profonda nel senso della vita».

«E l’amore?» chiese la figlia adolescente.

«E’ ciò che fa esistere e fa Vivere ciò che esiste. L’amore lo sento in me come una forza che mi apre all’altro e mi fa così ritrovare me stesso più vero, più buono, più sereno, in armonia con tutto ciò che sono e tutto ciò che mi circonda».

«E’ dunque nell’amore che troviamo quella Vita in pienezza di cui prima si parlava?».

«Si, e me lo conferma il fatto che le relazioni vissute nell’amore vero mi lasciano nel cuore una pace vasta, profonda e duratura, pur nell’impegno che esse comportano».

«Già...» riprese la ragazza, «ma spesso il problema è capire che cosa è bene, come si fa ad amare nel modo giusto…».

«Si, e… non posso farlo da solo. Per capire come orientarmi nella vita devo entrare in colloquio con Chi questa vita l’ha creata e, in suo Figlio, ci ha mostrato come viverla. Se è suo il pensiero che mi entra nel cuore, già solo l’accoglierlo porta un aumento di fede, di speranza, d’amore che dura nel tempo e mi dà pace, gioia, libertà interiore».

«Ma perché non potrei costruirmi io la mia strada verso la vita in pienezza, decidendo io ciò che è bene e ciò che è male?», lo provocò il giovane figlio della coppia.

«E’ naturale che il mio sguardo sulla vita sia condizionato dal mio interesse e dalla mia storia precedente», osservò Ignazio. «Rischio allora di cercare una felicità basata esclusivamente sul soddisfacimento dei miei bisogni, che rovinerà la mia relazione con gli altri, questa sì luogo della vita in pienezza».

«E allora qui c’è da chiedersi che cosa ci spinge a soddisfare a tutti i costi i nostri bisogni!» continuò, curioso, il giovane.

«Dentro di me mi rendo conto che è giusto amare, ma la paura mi prende alla gola facendomi sentire la mia vita insignificante, fallita, se non ottengo o se perdo ciò che credo possa soddisfare i miei bisogni di sicurezza, di stima, di affetto. Questa paura mi porta a manipolare a mio vantaggio le relazioni con gli altri, anziché amarli. Quando però ho rovinato le mie relazioni, rimango solo, con i miei bisogni insoddisfatti».

«E c’è la possibilità di rompere questa schiavitù?».

«Si, perché il Bene è la nostalgia che mi riempie il cuore. Il bene è la mia natura, il male la mia paura. Il cuore, se sappiamo ascoltarlo, ha una sua sapienza: si rende benissimo conto che l’amore è via a una vita bella e piena di significato».

Il ragazzo continuava a rimanere perplesso: «Si, certo: guardando a Cristo posso capire che il mio bene è seguirlo sulla sua strada per entrare in questa “vita bella e piena di significato”. Ma la realtà mi presenta ogni giorno tanti motivi per non credere, per non sperare, per non amare. E' più facile e più veloce soddisfare i propri bisogni senza tener conto degli altri e del proprio futuro. Per questo è meglio credere che non c'è una verità, un senso, un ordine, ma tutto è relativo; allora un punto di vista vale l'altro e, finché può, ciascuno si fa legge a se stesso».

Iñigo non poté che assentire: «Lo so. Per questo la nostra risposta per essere umana e tener conto di noi, deve andare oltre le paure e i bisogni che il nostro istinto ci presenta e mettersi invece in ascolto della nostra verità più profonda, dello Spirito di Cristo che agisce in noi come forza di verità. Lo Spirito Santo è la forza e la sapienza interiore che mi spinge a credere che tutto ha un senso nel bene, a sperare che alla fine tutto sarà bene, ad amare per costruire il bene: è Dio presente in me e operante attraverso di me».

«I miei figli a volte mi chiedono perché la relazione con Dio debba passare anche attraverso la Chiesa…» riprese la donna.

«Poiché Dio è amore, lo si incontra nell’amore vissuto all’interno delle relazioni. E dove si vive l’amore si costruisce comunità. La Chiesa è la fratellanza di coloro che l’esperienza dell’Amore ha riunito e assieme diversificato per formare un corpo capace d’amore. In essa sono nato alla fede, in essa sono sostenuto nella mia speranza, in essa rendo vero il mio amore.

Essere unito agli altri nella Chiesa significa allora vivere come una delle tante, tutte indispensabili, parti del corpo di Cristo operante nella storia, senza la pretesa di esserne l’unica espressione. Siamo tutti in cammino con Cristo, ma nessuno lo possiede; tutti facciamo la nostra parte, e nessuno, da solo, è a sua misura.

Però nella Chiesa sono anche diverso dagli altri. E questo significa vivere il compito assegnatomi dal mio carisma e sviluppare un pensiero basato sui frutti della mia personale esperienza di vita in Cristo. Azione e pensiero specifici sono contributo essenziale alla crescita della Chiesa perché mossi dalla creatività dello Spirito Santo per il bene comune».

Con queste ultime parole il silenzio si fece strada tra i commensali; anche la mensa della Parola era stata abbondante e c’era il bisogno di assimilarla personalmente perché diventasse nutrimento. Anche Iñigo tacque. Dopo aver dato a queste persone ciò che aveva nel cuore, sentiva che quel che ancora poteva fare era pregare per loro, affidandole alle cure di Dio: «Non è solo attraverso di me che Dio si occupa di loro» pensò.

Fu il padrone di casa a concludere la conversazione: «Dopo quello che ci ha detto, il nostro desiderio sarebbe che lei si fermassi qui da noi ancora qualche tempo: ci sarebbero ancora tante cose di cui parlare! Ma voglio ascoltare il suo desiderio. Domani la accompagnerò dal Doge: lui troverà certamente il modo di farla partire per il suo viaggio!».

1 da un rapporto stilato da un ufficiale dell’esercito francese di stanza nei pressi di Napoli

11/01/2025

Quando è amore?

È amore quando è difficile. Per definizione. Perché amare è coniugare la mia vita con la tua, tener conto di te in quello che faccio, decidere come se tu e io fossimo uno. Se ti amo, dunque, non mi appartengo più completamente, non posso più disporre di me stesso, non sono più libero; e, se prima lo ero, adesso è duro. In certi momenti questa durezza è compensata dall’affetto. Non sempre. Quando non lo è, il senso di soffocamento può portarmi a scappare per respirare di nuovo.

Rimanere nella relazione richiede di saper mediare. Non è facile: io ho la mia storia, tu hai la tua storia, che ci fa vedere che è giusto, è normale, è bene fare in un certo modo invece che in un altro. E, guarda caso, i nostri modi sono diversi.

Ci si può capire? Qualcosa; mai del tutto. Ciascuno difende il proprio modo di essere, entrando nella mediazione per qualcosa che non gli costa poi troppo; e si aspetta, e pretende che l’altro faccia altrettanto.

Fin qui siamo nel campo dell’interscambio. È amore? È un inizio, un apprendistato.

Se fosse per me, mai farei un passo oltre a questo. Mi sembrerebbe ingiusto, contro la mia dignità. È la vita che, a un certo punto, mi obbliga ad amare. O a fuggire. O a schiantarmi contro l’impossibile.

Succede quando tu non puoi darmi nulla: una malattia, un’invalidità, una psicosi. Certo, devo sopravvivere e prendermi i miei spazi. Ma tu sei bisogno. Non posso più dosare quello che metto a disposizione. Il mio dare dipende dal tuo bisogno.

E qui succede una cosa strana. Finora ho fatto discernimento per capire come e quanto coinvolgere me stesso, cosa e quanto chiedere a te. Ma ora, se sono in Dio -e, credo, solo se veramente lo sono-, faccio direttamente quel che c’è da fare. Non c’è valutazione in vista di una decisione, il circuito del discernimento è bypassato.

C’è uno strano coesistere di paura e serenità. Quel che mi trovo a fare è assolutamente, e insolitamente, naturale. Da questa serenità proviene la forza che mi sostiene, la lucidità con cui vedo la situazione, lo stupore con cui guardo al distacco da ciò che prima mi era indispensabile. E su questa serenità devo appoggiarmi per trovare la pazienza che serve a gestire gli inevitabili dissensi, la pazienza indispensabile per continuare assieme. Ma cos’è la pazienza? Non è solo sopportare: finirebbe presto in uno scoppio d’ira. Prima viene il riconoscere la tua dignità, ossia riconoscerti la libertà di gestire la tua vita. E non è facile quando ti ostini a fare come so che ti farà male. Ognuno ha il diritto di decidere cosa è bene per sé. Difficile accettare che tu possa essere libera di farti del male. Ma l’alternativa è una lotta in cui ognuno cerca di imporre all’altro la propria volontà. Allora ti lascio andare, lascio che tu faccia come vuoi, decido di non preoccuparmi.

Pazienza è la mia risposta a ciò che trovo assurdo, totalmente al di fuori di come farei io. Eppure, per te un senso ce l’ha, è il tuo modo di tener sotto controllo la situazione. «Ma non vedi che…»: no, non lo vedi, stai guardando da un altro punto di vista; e per te è quella la verità.

Il problema, semmai, è la rigidità: quando uno crede che il suo punto di vista non possa essere che l’unica verità, per cui non è disponibile ad aprirlo, a considerare che la cosa forse si potrebbe fare anche in un modo diverso e provarci.

Ardua sfida la libertà interiore. Posso essere libero solo quando quel che sono non dipende da ciò in cui dico di credere, che, come un esoscheletro, mi sostiene mi dà forma. Una persona libera è sostenuta da una spina dorsale: può cambiare il suo modo di essere e rimanere se stessa.

Bella sfida trovare ciò che mi sostiene senza condizionarmi. Chi lo trova, trova Dio.

 

Michele Bortignon

10/15/2025

L’orma del pellegrino: cap.13 - Il congedo

Iñigo era partito e di lui non si erano più avute notizie. L’unica cosa certa era che aveva preso la strada per Barcellona, dove aveva intenzione di imbarcarsi per la Terra Santa, facendo scalo in Italia.

Che cosa ancora cercare di sapere a suo riguardo? Forse con qualcuno aveva parlato dei suoi progetti, del perché volesse andare a Gerusalemme e di cosa avesse intenzione di fare una volta giunto là.

Mentre formulava questi pensieri, don Manuel si ritrovò ancora una volta nelle vicinanze della cattedrale. Ed entrò per un momento di preghiera.

La luce che penetrava attraverso le vetrate, rifrangendosi sulle tessere policrome, disegnava mosaici colorati sulle pareti e sul pavimento. Alzando lo sguardo, si soffermò incuriosito su una raffigurazione dell’ascensione: davanti ai discepoli, Gesù si alzava verso il cielo lasciando profondamente impressa, sul suolo roccioso, l’impronta dei suoi piedi.

Don Manuel si trovò a pensare che anche Iñigo aveva lasciato un’impronta importante nelle persone che aveva accompagnato. Lui stesso, negli incontri di quegli ultimi giorni, aveva potuto notarlo: erano cambiate dentro, e ora provavano la stessa sete di Dio che muoveva Iñigo, avevano accolto il suo stesso modo di pensare, si erano rivestite del suo stesso modo di fare.

Ma come avevano vissuto il distacco da lui?

«Si, ecco: forse è questa l’ultima cosa che mi resta da sapere», pensò. «A volte il momento dell’addio mostra la qualità di un legame, rivelando se si è creata una dipendenza o se la relazione ha aiutato a crescere».

Afferrato da questa intuizione, uscì di chiesa dirigendosi ancora una volta verso la casa di Calle Sobrerroca.

Canyelles lo accolse questa volta un po’ perplessa per quel suo continuo cercare: «Ah, ecco il discepolo mancato!» lo punzecchiò salutandolo. «Si direbbe che lei non riesca a rassegnarsi alla partenza di Iñigo. Ma guardi che nessuno è indispensabile a questo mondo! Chiunque abbia fatto esperienza di Dio diventa un tubo che convoglia il suo Spirito. Ma l’acqua ce la mette Dio! Da un tubo o da un altro…».

Don Manuel non riuscì a capire se quell’osservazione esprimesse acume o sarcasmo e preferì tornare alla questione che gli premeva: «E’ proprio di questa partenza che volevo sapere…».

«Beh, non c’è molto da dire… E’ stato un momento… un po’ strano. Per queste occasioni si pensa a un addio strappalacrime, con promesse di rincontrarsi… Noi, invece, ci siamo quasi trovati a litigare. Si: ci siamo scontrati su due diversi modi di vedere le cose e alla fine ciascuno è rimasto della propria idea. Senza comunque che questo incrinasse l’affetto reciproco.

Vede, forse perché noi siamo madri, abbiamo il vizio di preoccuparci, a volte magari un po’ troppo… Ma quella volta ci sembrava saggio che Iñigo non intraprendesse un viaggio così pericoloso da solo. Si sa: in due ci si può sempre aiutare in caso di bisogno! Qualcuno degli uomini a cui aveva dato gli Esercizi si era anche offerto di andare con lui. Ma sa cosa ci rispose? «Prendendo con me un compagno, se avessi fame da lui mi aspetterei l'aiuto, se inciampassi da lui potrei sperare una mano per rialzarmi. Così porrei la mia fiducia in lui e finirei per affezionarmici a motivo di tutte quelle attenzioni. Io invece voglio riporre questa fiducia, questo affetto e questa speranza solo in Dio. Per questo preferisco partire da solo: mio unico desiderio è avere soltanto Dio come rifugio1».

Beh, devo dirle che questo non accettare la nostra offerta non lo capimmo: un dono è segno di un affetto che ti accompagna. E nell’affetto umano è Dio che si fa presente. Perché la grande nostalgia di Dio è di continuare a incarnarsi per starci vicino.

Ma, forse, questo desiderio di Dio lo può capire solo chi, come una madre, ha portato un bambino in grembo, o, almeno chi, come un padre, lo ha fatto crescere al proprio fianco.

Io dico che non si può amare Dio senza tener conto di lui, del modo in cui lui vuole amarci: senza accettare che ora si nasconda per farsi cercare e ora ci capiti improvvisamente davanti per farsi abbracciare; che ora voglia stupirci confondendosi nella grandezza dell’universo e ora voglia sfiorarci nella carezza di una persona di cui sei tu l’universo…».

«E il fatto che non abbia accettato la vostra proposta di aiuto vi ha molto deluso?».

«Da una parte sì, perché non ha saputo darci il dono più grande: il piacere di ricambiare, la possibilità di una reciprocità. E’ stato un padre per noi, ma non ci ha lasciato esercitare la nostra maternità nei suoi confronti. Si sa: chi si limita a ricevere si sente pur sempre inferiore al donatore!

Da un altro punto di vista, però, ci siamo consolate: noi ci sentivamo così piccole al suo confronto! Ma in quell’occasione abbiamo capito che anche un grande amore per Dio può avere davanti ancora tanta strada da fare nel cammino della maturità umana. Perché non si può raggiungere Dio se non passando per l’uomo: Cristo insegna!».

Don Manuel assentì a quelle parole, che gli sembrarono effettivamente esprimere una verità. Mentre però si avviava verso casa, gli parvero perdere di smalto, quasi non bastassero a spiegare la complessità della situazione.

Anche se non poteva ammetterlo con se stesso, la consuetudine con la vicenda di Iñigo - una vicenda così umana che era difficile porsi davanti ad essa in attacco o sulla difensiva - cominciava a farglielo sentire un compagno di strada; e, di fronte all’incomprensione altrui, si sentì quasi in dovere di prendere le sue difese.

Quel voler porre solo in Dio la propria sicurezza non era forse il punto d’arrivo nella conversione del cavaliere che, sicuro di sé, voleva farsi santo? Dai grandi progetti offerti a Dio era passato al camminare nella vita ascoltandola assieme a lui!

Sì, forse c’era anche qui una parte di protagonismo - e il diverbio con le donne di Manresa lo evidenziava -, ma intanto era un passo nella direzione che Dio aveva cominciato a fargli intravvedere. Era una sfida che Iñigo lanciava a se stesso, a quel se stesso così ancora legato ai criteri del mondo anche nel seguire Dio, ma che voleva sempre più assomigliare a quel Cristo che lo aveva affascinato.

Era, ancora, di fronte alla grandezza della sua chiamata a conoscerlo sempre meglio (per questo voleva recarsi nei luoghi in cui Egli aveva vissuto e operato!), un rifiutarsi di lasciarsi limitare dai propri problemi fisici (la gamba continuava a fargli male e ora ci si erano messi pure i dolori allo stomaco!) e dalle proprie paure, che lo avrebbero confinato in una vita comoda e sicura, ma insignificante.

Era, infine, il coraggio di rendersi libero da cose e persone per seguire la visione che Dio gli aveva messo nel cuore. Cosa avrebbe scoperto seguendola? Ancora non lo sapeva; il suo “Dio solo” per il momento era un impulso affettivo, una dichiarazione d’amore, un affidarsi gratuito alla gratuità. Non lo sapeva… ma echi di antiche Parole avevano fondato la promessa: “Quelle cose che occhio non vide né orecchio udì né mai entrarono in cuore di uomo Dio le ha preparate per coloro che lo amano2, per coloro che gettano in Lui le proprie preoccupazioni, credendo che Egli si prenderà cura di loro3.

E immaginò Iñigo affidarsi completamente a Cristo con l’antica preghiera che un giorno questi aveva letta su uno dei portoni dell'Alcazar di Siviglia:

Anima di Gesù santificami.

Corpo di Cristo salvami.

Sangue di Cristo inebriami.

Acqua del costato di Cristo lavami.

Passione di Cristo fortificami.

O buon Gesù esaudiscimi.

Nelle tue piaghe nascondimi.

Non permettere che io sia separato da Te.

Dal Satana difendimi.
Nell'ora della mia morte chiamami

e comandami di venire a Te

perché con i tuoi Santi ti lodi,

nei secoli dei secoli.

Amen.




1 Ignazio di Loyola, Autobiografia, n.35

2 1 Cor 2, 9

3 1Pt 5, 7-9


10/01/2025

La pillola della serenità

Quanta paura, quanta ansia ha vissuto Maria al momento dell’annunciazione? A una ragazza che nel suo futuro si prefigurava uno sposo già promesso viene prospettata una missione in favore dell’umanità, vivendola in modi che lacerano il suo sogno: “una spada ti trafiggerà l'anima” (Lc 2, 35).

Come lei, anche noi, a volte, ci troviamo a vivere delle situazioni che mettono sottosopra la nostra normalità e, consegnandoci all’ignoto, ci rendono spaventati, disorientati, ansiosi.

Ecco allora che l’angelo, rivolgendosi a Maria (a noi), fa precedere l’annuncio di questa rivoluzione esistenziale con delle parole che le permetteranno di affrontarla senza esserne travolta e morirci dentro: Rallegrati, tu che sei stata riempita della Grazia di Dio: Lui è con te!

Leggiamo questa frase a partire dalla fine, tenendo come sfondo la situazione ansiogena che stiamo vivendo.

Il Signore è con te. Il Signore: Colui che tiene nelle sue mani l’esistenza e la Vita. “Io sono l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il principio e la fine. Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l'acqua della vita” (Ap 22, 13. 17).

Questo “Signore” è con te. Non “sarà” con te, ma “è” con te. Adesso, subito, in questo preciso momento. Accorgitene, guardalo, gustalo, riempiti della sensazione di questa sua presenza.

Luca, che si esprime in greco antico, per dire “con” te poteva usare la preposizione “sun”, che indica un’unione intima, una fusione; ha scelto invece la preposizione “metà”, che mostra qualcosa che ti copre, che ti avvolge come un abbraccio, che dei due fa uno senza togliere a nessuno dei due la propria individualità. Giuliana di Norwich diceva: “alla fine tutto sarà bene perché il Signore è con te” e mostrava, per farci capire la relazione con Lui, l’immagine di un caldo cappotto che ti avvolge e ti ripara dal freddo.

Il Signore, dunque, è presente adesso, in questa situazione o tutto attorno a essa. Come? In che cosa? Non hai da inventarlo, ma da accorgertene. Tira fuori la testa, solo per un attimo, dalla tua sofferenza, dalla tua ansia, e guarda per sorprenderti, accorgendoti di ciò che c’è ma tu non avevi occhi per vedere, preso da questa situazione che occupa tutto il tuo spazio mentale. E il tuo cuore comincerà allora a mettersi in sintonia con quello di tante persone che nella Bibbia hanno sperimentato la stessa ansia e si sono sentite rivolgere queste stesse parole: “Non temere: io sono con te”.

Ma puoi essere forte e uscire vittorioso da questa situazione non solo perché “io sono con te”: io non sono con te perché posso fare un miracolo e risolvere tutto; tu sei il mio miracolo, tu sei colui che, riempito dei miei doni e della mia fiducia, io ho messo in questa situazione per risolverla. Tu sei il mio “unto”, il mio inviato, la mia risorsa per il cambiamento. Se non tu, chi? Se non ora, quando? «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1, 11). E allora questo è il mio messaggio per te, che si contrappone a quello di disastro che la tua ansia ti sta suggerendo: “Rallegrati!”.

Assurdo, vero? Come è assurdo, contrario al comune sentire, quello che dice Gesù: Quando gli uomini, quando le situazioni vi stanno distruggendo, rallegratevi. No, anzi, di più: saltate di gioia! (Mt 5, 11-12). Perché rallegrarti? Perché è cominciata la tua avventura di essere me in questa tua situazione. Ignazio, giunto alla periferia di Roma, al capitello della Storta, chiede a Maria “Mettimi con tuo figlio”. C’è un altro modo di essere con Cristo se non quello di essere con Lui nella morte per fare esperienza di risurrezione?

“Vogliamo essere con te nella tua gloria, uno alla destra e uno alla tua sinistra”, chiedono a Gesù Giacomo e Giovanni. “Voi non sapete quello che chiedete”: credete che la mia sia una via facile, di successo in successo? “Il calice che io bevo anche voi lo berrete”: è la via di tutti gli uomini. A nessuno sono concessi sconti o protezione dalle difficoltà della vita. Ma tutti possono viverla nello spirito del Cristo -nella fede, nella speranza, nell’amore- e, “come siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6, 5).

Michele Bortignon

9/26/2025

L’orma del pellegrino: cap.12 - Il segreto dell’accompagnamento

 

Era stato difficile, per don Manuel, recuperare la tranquillità. Aveva passato una notte agitata da incubi, in cui il sogno della donna conosciuta il giorno prima era diventato suo: quella scala che finiva nel vuoto, il fuoco che bruciava sotto, l’impossibilità di rimanere e l’incapacità di buttarsi…

Ma la luce del giorno l’aveva aiutato a rimettere le cose al loro posto: «I fantasmi del passato restano nel passato e si va avanti!», si era imposto di pensare.

Occorreva adesso cercare di capire il metodo seguito da Iñigo nell’accompagnare, studiando l’esempio che Canyelles gli aveva fornito con la propria esperienza.

Scoprendo Dio presente nella propria storia attraverso le persone e gli avvenimenti di cui questa era costellata, la donna aveva raggiunto quella serenità interiore che nasce dal sentirsi amati. I suoi problemi non si erano risolti… si erano dissolti!

«E’ proprio vero» si disse don Manuel: «Per l'uomo, sofferenze devastanti e gioie profonde, problemi che si trascinano dal passato nell'oggi e realizzazioni che durano nel tempo trovano tutte origine nella sua esperienza di essere o non essere amato e nella sua capacità o incapacità di amare»

Al centro, Iñigo aveva messo Dio: l’Amore che ci dà la possibilità di essere amati e la capacità di amare. E, nel suo percorso di Esercizi, incontrare questo Amore in Gesù Cristo e vivere nel suo Spirito era via a una vita vissuta nella gioia, nella pace, nella libertà interiore.

Ma erano le parole che Canyelles gli aveva detto all’inizio, nell’assentire a comunicargli la propria esperienza, quelle che più continuavano a ronzargli per la testa: «Vivere in Cristo la mia situazione di vita e con Lui trasformarla in esperienza di vita per gli altri…; con la mia storia farmi compagna di strada di chi sta cercando la salvezza che Cristo può portargli, quella salvezza che io per prima ho trovato nella relazione con Lui…».

Non era rischioso? «Uno sperimenta che vivendo il proprio problema con Cristo, nel suo Spirito, la propria morte si apre a una risurrezione; e sente che questa è una ricchezza, una lezione di vita a disposizione di quelli che ora stanno vivendo il suo stesso problema. Ma questa è un’abilitazione a parlare delle cose di Dio data dall’autorevolezza di un’esperienza e non dall’autorità concessa dalla Chiesa! E’ un aiutare a vivere nell’Amore partendo dalla propria esperienza di vita nell’Amore, sì..., ma che fine fanno allora tutte le leggi e le regole elaborate in secoli di riflessione dalla Chiesa?».

«Devo capirne di più» si disse. «Soprattutto devo verificare cosa comporta questa nuova consapevolezza per la vita delle persone, come si concretizza a livello di vita di Chiesa e con quali conseguenze».

Alcune donne che avevano fatto gli Esercizi con Iñigo - glielo aveva detto Jeronima! - avevano la consuetudine di incontrarsi periodicamente a condividere problemi e frutti del proprio cammino spirituale. E sapeva che proprio quel giorno cadeva l’appuntamento.

Quando arrivò, Canyelles era con loro, per cui fu subito presentato e accolto con calore. Le altre, - Brianda de Paguera, Eufrosina Roviralta, Agnes Claver, Agnes Vinyes, Jeronima Sala, Joana Dalmau e Agnes Roca, erano altrettante storie di fatiche, sofferenze e ferite risorte nell’incontro con il Signore, messe in comune per un aiuto reciproco e di altre persone in difficoltà.

La presenza dell’ospite portò il centro dell’attenzione sul problema che questi aveva sollevato: qual era l’eredità che Iñigo aveva lasciato loro per continuare ad aiutare gli altri come lui aveva fatto?

Canyelles ruppe il ghiaccio: «Innanzitutto ci ha fatto capire chi veramente è il povero. Non tanto o non soltanto chi manca di mezzi di sussistenza o chi è reso inabile dalla malattia: questi, con un aiuto, può risollevarsi; e il servizio reso dall’ospedale e dall’ospizio già impegna persone generose in questo tipo di aiuto.

Povero davvero - diceva - è chi ha una vita spesa a caso, senza un progetto, senza un desiderio che lo guida con passione a costruire il bene per sé e per gli altri. Povero è chi non ha dato senso alla propria vita oppure l’ha riempita di vanità senza costrutto, che non danno nulla né a sé né agli altri.

Anche Iñigo si era sentito povero; l’incontro con Cristo gli aveva però aperto una prospettiva nuova, in cui aveva cominciato a incamminarsi. E’ così che nascono i suoi “Esercizi”: come condivisione con questi poveri, privi di alcun aiuto, del cammino che Dio faceva fare a lui per primo».

«E’ vero!» aggiunse Agnes, la sorella di Jeronima: «Un giorno, al termine di un colloquio, chiesi a Iñigo di dirmi come erano nati gli Esercizi. Mi rispose che li aveva scritti annotando quello che imparava dal vivere con Dio le situazioni che gli capitavano e che sentiva potevano essere d’aiuto anche ad altri1. Per poter aiutare gli altri nei loro problemi occorre dunque un bagaglio, continuamente rinnovato, di esperienze vissute con Dio, perché accompagnare è lasciare che lo Spirito parli alla persona che abbiamo davanti anche e soprattutto a partire da ciò che abbiamo vissuto con Lui».

«Ma in che modo riuscite a far diventare le vostre esperienze un aiuto per gli altri?» chiese don Manuel.

«Iñigo ci ha detto come faceva lui» intervenne Joana: «Vivere, pregare, capire, scrivere; e, a distanza di tempo, ritornare sul proprio vissuto per comprenderlo più a fondo con una visione che nel frattempo si è fatta più distaccata e quindi più oggettiva. L’esperienza diventa così un contenuto, uno strumento del nostro aiuto spirituale. Sentiamo che accompagnare significa accostare un’esperienza che vive con Dio a un’altra che lo sta cercando. E in questa relazione Dio si fa presente prendendo dall’una per donare all’altra».

«Ma non sentite il bisogno di un metodo, di uno schema a cui attenervi… anche per essere sicure di quello che fate, per evitare di commettere degli errori?!».

«Certo», rispose Brianda: «il percorso da seguire è scolpito dentro di noi attraverso l’esperienza di accompagnamento che noi per prime abbiamo fatto, negli Esercizi che abbiamo ricevuto. Ma quel che vogliamo sottolineare è che al di là della competenza nel metodo, comunque necessaria, ognuna di noi è in grado di accompagnare altri all’incontro con Cristo in proporzione alla profondità della propria vita spirituale.

E’ la consapevolezza e la profondità della nostra vita spirituale a dare la garanzia che il nostro accompagnamento sarà improntato dallo stesso Spirito che stiamo vivendo. Se lo Spirito di Cristo è presente nella nostra vita, certamente si esprimerà anche nel nostro accompagnare».

«Una nota particolare dell’aiuto che offriamo» volle specificare Eufrosina, «deriva dal nostro essere laiche, dalla nostra conoscenza dei problemi della vita concreta, per dire che è possibile e bello vivere con Dio le nostre esperienze in famiglia, nel lavoro, nella società. Vivendo la stessa situazione delle persone che aiutiamo, abbiamo la possibilità di dire a chi ha bisogno d’aiuto: "Ti capisco, so cosa vivi perché ci sono passata anche io". In questo modo siamo credibili».

«Ma voi vi sentite sufficientemente a posto, sentite di aver superato i vostri problemi in misura tale da poter accompagnare altre persone?».

Tutte guardarono Agnes Vinyes: sapevano che era stata la più ferita dalla vita. Toccava a lei parlare: «Proprio perché nasce dall’esperienza della vita, per me aiutare è mostrarmi spoglia, vestita solo delle mie ferite, più o meno rimarginate, da lasciar toccare a chi sento ha bisogno d’aiuto, perché ne tiri fuori ciò che gli serve. Quando mi presento così, mi accorgo con stupore e tremore che quella mia ferita diventa balsamo per l’altro. Alla fine, al limite dell’assurdo, del mio problema e del mio male mi ritrovo a ringraziare Dio perché esso è stato bagaglio e strumento per aiutare altri. Ho imparato allora che ogni situazione è luogo in cui incontrare il mio Signore, che mi aiuta a viverla nel suo Spirito: nella fede, nella speranza, nell’amore. E trasformarla così in storia di salvezza, da condividere con chi Dio accosta al mio cammino».

«E che senso date al vostro essere assieme?».

«Vedi» disse Jeronima Sala, «noi ci sentiamo semplicemente un gruppo di amiche che hanno sentito nel cuore la chiamata a condividere con altri la serena bellezza di camminare con Dio nella vita di ogni giorno.

La nostra strada non è diversa da quella su cui cammina ogni altro cristiano… semplicemente vogliamo percorrerla con gli occhi aperti a ciò che ci sta succedendo, discernendolo assieme a Cristo, vivendolo nel suo Spirito, in modo da scoprire percorsi su cui anche altri possano incamminarsi; e far ritornare l’evangelizzazione a essere una condivisione di storie: storie di salvezza, perché vissute con Dio nello Spirito del Cristo, accanto a storie che questa salvezza stanno attendendo».

Agnes Roca, l’intellettuale del gruppo, concluse il giro di esperienze: «La Bibbia non è forse una serie di storie di persone che si sono incontrate o scontrate con Dio? Perché non pensare che Dio voglia continuare a scrivere la sua Bibbia con le nostre storie? Storie di vita comune per la gente comune, storie di oggi per la gente di oggi.

Non le vite dei santi di un tempo, che con la loro eccezionalità non riescono a toccare il quotidiano della gente, ma storie che parlano di problemi, di difficoltà, di sofferenze, di fatiche che, vissute con un po’ di fede, di speranza, di amore, si sono trasformate in esperienze importanti per una vita significativa».

«E ora, se vuoi» disse Canyelles rivolgendosi a don Manuel, «unisciti a noi nella preghiera con cui siamo solite concludere i nostri incontri:

Signore, hai aperto per noi

una strada su cui camminare

dopo averci trasformato la vita

con un’esperienza profonda del tuo amore,

che ora sentiamo traboccare da dentro di noi.

Assieme, desideriamo fare esperienza di Te

nel sentirti vivo

nella vita delle nostre compagne di strada.

Assieme, desideriamo fare esperienza di Te

nel tuo agire per gli altri attraverso di noi.

Tu vuoi che il nostro vivere in te

sia strettamente unito all’azione,

al vivere con Te:

per noi, vivere è aiutare a Vivere.


1 S. Ignazio di Loyola, Autobiografia, n.99

9/01/2025

Qual è la voce giusta?

 

«Mi sembra di aver capito questo…, ma qualcosa mi dice che non è così»;

«D’accordo: tutti fanno così e si è sempre fatto così, ma a me questo non convince»;

«Obbedienza sì, ma in questo caso la mia coscienza mi parla altrimenti»;

«Ho capito quel che mi hai detto, mi sembra anche convincente; eppure c’è qualcosa che non mi quadra».

Quante volte abbiamo rimuginato dentro di noi frasi simili a queste?

Due voci: una che si presenta evidente, condivisa da tanti altri, appoggiata dall’autorità, conforme alla tradizione, chiara nelle sue ragioni; l’altra fatica a spiegarsi, è più una sensazione, ma è insistente e non ti lascia in pace finché non le presti attenzione e, se la metti a tacere, continua a roderti dentro.

E’ la situazione normale che ci troviamo a vivere quando ci confrontiamo col diverso: idee, persone, situazioni nuove. Il passato che abbiamo vissuto, il contesto in cui viviamo ci danno tutti i motivi per continuare come abbiamo sempre fatto, per non uscire dai sentieri battuti, per adeguarci alla mentalità corrente. Ma una sensazione di estraneità a tutto questo ci spinge a cambiare.

Che facciamo: ci allineiamo per non creare problemi? oppure ascoltiamo la voce del disagio e prendiamo una strada che neanche a noi è chiara, mettendoci contro tutto e contro tutti? Diamo ascolto all’evidenza delle idee o all’evidenza delle sensazioni?

Se abbiamo scelto di fidarci della voce che ci porta a essere fedeli a noi stessi, l’altra rientra in campo e si mette a gridare e ci spaventa: «Ma sei matto? Come si può anche solo pensare di fare una cosa del genere? Fare del bene sì, ma questo è troppo! Non riuscirai a reggere! Tutto si risolverà in un disastro». La prima torna più tardi, timida, e sottovoce ti dice «Calma. Respira. Aspetta. Io sono con te. Pensiamoci assieme».

A quale dare retta? A chi grida o a chi sussurra? A chi ti mette a tacere con le sue ragioni o a quel disagio che ti chiama a continuare a cercare?

Anche ad Abramo è toccato questo discernimento.

Assecondando la gelosia di Sara, ha scacciato nel deserto Agar e il figlio che ha avuto con lei, destinando entrambi a una morte certa. E ora i sensi di colpa lo rodono e prendono la parola dicendogli di compensare morte con morte: non puoi realizzare i tuoi desideri compiendo un’ingiustizia! E’ così pressante questa voce, è così convincente nelle sue ragioni, che Abramo la prende per la voce di Dio.

Ma, anticipata dalla voce di Isacco, il bisogno innocente, si fa largo una seconda voce che, al di là di ogni ragione più o meno ragionevole, prende le parti della vita. La vita è l’ultima istanza, quella che mai dev’essere calpestata o messa in secondo piano; tutto il resto è manipolazione. Gli altri possono dire ciò che vogliono, i miei sensi di colpa, di inferiorità, di indegnità possono cercare di bloccarmi, ma il cuore -l’amore che mi apre alla vita- ha ragioni che la ragione non comprende. E quel che è in sintonia con la vita lo sento un bene, perché mi fa sentire bene con me stesso e mi dà una pace vasta, profonda e duratura, pur in mezzo agli inevitabili contrasti.

Gesù è ben consapevole di questa lotta che si svolge dentro di noi, e ci dice cosa distingue la voce di chi cerca di manipolarci dalla sua, che, come un pastore, ci guida al nostro bene: “Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza” (Gv 10, 10).

Ma che cos’è Vita?

Non posso dire che cosa è la Vita, ma posso sentirla dentro di me. Posso sentire che qualcosa di immensamente più grande di me mi possiede e mi fa immensamente più grande di me. Se la vita è Vita, c’è sangue che scorre in essa: c’è calore, c’è passione, c’è bellezza. E l’esistenza mi è data per sperimentare la mia capacità di trasformarla in Vita, una vita talmente piena da diventare eterna, ossia una benedizione per tutti e per sempre.

La Vita diventa così il criterio di discernimento delle scelte: solo ciò che dà Vita è vero, è giusto, è buono, è bello.

Michele Bortignon

8/11/2025

L’orma del pellegrino: cap.11 - Davanti allo specchio

Il giorno dopo, per la terza volta don Manuel tornò all’ospedale, da Jeronima. Voleva chiederle indicazioni per parlare con qualcuno che fosse stato seguito personalmente da Iñigo in quel percorso che chiamavano “Esercizi Spirituali”, per capire di cosa si trattasse.

«Puoi chiedere a Canyelles» gli rispose Jeronima. «Abita non lontano da qui, in calle Sobrerroca».

Giunto sul posto, gli venne ad aprire una donna sui quarant’anni, alta e magra. Fin dalla prima occhiata lo colpì una strana sensazione… come se quei tratti non gli fossero nuovi. Eppure era impossibile che l’avesse già conosciuta.

Scacciò quella sensazione e fece la sua richiesta: poteva condividere con lui l’esperienza spirituale che aveva fatto con Iñigo? Ne aveva bisogno per valutare se anche per sé poteva essere un modo per affrontare un certo problema, da cui fino ad ora non era stato capace di uscire.

«Volentieri!» rispose subito la donna. «Iñigo ci diceva sempre che la nostra esperienza di vita con Dio, tanto più quando si tratta di una risurrezione da una situazione di morte interiore, è un talento da spendere per aiutare altri, feriti dalla nostra stessa situazione, per dar loro la speranza che, appoggiandosi a Dio, ce la faranno anche loro».

Entrarono in casa. Passando davanti a una stanza, la donna ne aprì la porta. Un semplice letto e una sedia costituivano tutto l'arredamento. E, sulla sedia, un vaso con dei fiori freschi.

«Questa era la stanza di mia madre. E’ morta qualche giorno fa. Gli ultimi mesi sono stati un’agonia; e non solo per lei. Lottava contro la morte, che non riusciva a strapparle l’ultimo respiro, ma intanto l’aveva paralizzata in tutto il corpo. Con una famiglia sulle spalle come la mia, è stato impegnativo doverle prestare le cure continue di cui abbisognava; anche, e soprattutto, per la pena che suscitava. E, in questa situazione pesante, quel che era peggio è che non riuscivo a trovare conforto nella preghiera. Provai a rivolgermi a Iñigo, che alcune amiche stimavano molto per essere state aiutate spiritualmente da lui.

Già al primo colloquio, il discorso scivolò sulla figura di mio padre: «Il papà era autoritario, non mi ha mai mostrato affetto» gli confidai. «Ciò ha provocato in me distacco nei suoi confronti e una sottile paura di non riuscire. Mi sembra di non aver mai avuto desideri, perché papà mi diceva tutto quello che dovevo fare. Il mio destino era prestabilito da lui».

«Ma… si sente bene?». Don Manuel era impallidito improvvisamente e il respiro gli si era fatto affannoso. «Mi scusi. Adesso mi passa».

«Cosa sta succedendo?» pensò. «Questa storia è la mia…! Perché, Signore, mi costringi a guardarmi in questo specchio?». Provò a fare qualche respiro profondo, cercando di calmarsi. «La prego, continui…».

«Iñigo capì che l’immagine di mio papà si era riversata su Dio, per cui facevo fatica a sentirlo come amore quando pensavo a Lui come Padre. La paura di essere castigata mi impediva di rivolgermi a Lui per essere abbracciata e consolata ora che ne avevo bisogno perché stavo male. A confermarlo, un sogno continuava a ripetersi: «Mi trovo su una scala a pioli la cui base è avvolta dal fuoco, per cui non posso scendere. La sommità della scala porta nel buio. Al di là, una voce mi dice “Salta, che ti accolgo!”, ma io ho paura e non mi butto, per cui resto bloccata, senza poter andare oltre. Vorrei aver fiducia, tanto da saltare anche se non vedo dall’altra parte. Ma me ne manca il coraggio».

Iñigo mi propose di pregare il salmo 23 («Vi troverai un Dio che è padre che guida e madre che accoglie») e il 131 (“Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre”).

Nel salmo 23 mi colpì la figura del pastore col bastone: mi richiamava mio padre che mi castigava. Anche il salmo 131 non mi aveva reso “tranquilla e serena”: un Dio che castiga non poteva certo abbracciarmi!

Facendo il collegamento con la mia storia di adesso, sentivo comunque che Dio mi chiamava alla fiducia: «Il Signore mi sta chiedendo di aver fiducia in Lui, nel suo amore: il suo bastone non serve per castigare, ma per ricondurre all’ovile la pecora perduta. Mi sta facendo sentire che non sono sola ad affrontare la situazione pesante che sto vivendo; non mi fa mancare il suo appoggio, facendomi incontrare sempre qualcuno che mi dà una mano».

Per confermare e consolidare questo pensiero, Iñigo mi ricordò Isaia 49: “Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sui palmi delle mie mani…”: «Hai indebitamente sovrapposto l’immagine di tuo padre a quella di Dio; la parola di Dio esprime il suo volto autentico, che è amore e misericordia, non pretesa e castigo».

Un passo avanti per scoprire come questo amore era stato concretamente presente nella mia vita avrei poi potuto intuirlo nel brano del vasaio, raccontato dal profeta Geremia1: «Sentiti accarezzata e plasmata dalla mano dolce ma ferma di Dio» mi disse. «Attraverso quali esperienze Dio ti ha fatto diventare quel che sei? Quali talenti ha fatto maturare in te attraverso di esse? Scoprirai così che l’amore di Dio non è una teoria, ma si esprime concretamente nell’accompagnare la nostra vita».

Gustai moltissimo il brano di Geremia: «La mia vita doveva essere perfetta, conforme alla volontà di mio padre, senza poter sbagliare. Dio invece, quando il vaso si crepa, riprende tutto in mano e riforma di nuovo. Ho gustato la dolcezza delle sue mani che mi hanno modellata finora, il suo rincuorarmi, il suo accarezzarmi con fiducia e con amore. Questo mi ha rasserenata e mi ha dato una sensazione di libertà. Prima non riuscivo a dare un significato all’amore, perché era sempre subordinato a quello che dovevo essere; non mi sentivo amata per quello che ero. L’amore di Dio mi dà ora la forza di dare quello che sono io e non ciò che vogliono gli altri. Sento che Dio mi è vicino, ma la sua è una presenza delicata, non impone. Ho rivissuto ciò che mi era stato presentato come peccato e che mi aveva causato angoscia; Dio me l’ha fatto accettare con serenità perché Lui rimodella, non butta via».

«Qual è ora il tuo desiderio?» mi chiese allora Iñigo.

«Che Dio tiri fuori da me quello che sono e non ciò che dovrei essere. Inoltre di continuare ad approfondire e fondare in me questo suo volto che ora sto scoprendo e che mi dà serenità».

Iñigo riprese: «Vorrei farti incontrare un Dio che non condanna, ma che è dalla tua parte per risollevarti quando cadi e ti fai male. Ricordi quando Gesù ferma i giudei che volevano lapidare l’adultera2? Perché Gesù non la condanna? Come vede il peccato? Come dunque ti vede quando sbagli? Cogli il suo sguardo su di te, e gustalo: guardalo guardarti con bontà e umiltà».

Mettendomi al posto dell’adultera, mi accorsi che davo più importanza a quello che dicevano gli accusatori che non a ciò che mi diceva Gesù. «Come al solito: non riesco ad essere me stessa quando mi sento giudicata dagli altri. Come vorrei riuscire a fare ciò che è giusto indipendentemente da ciò che pensano gli altri!» gli confidai.

Restava la paura del giudizio: «Faccio fatica a cogliere su di me uno sguardo misericordioso. Se ho sbagliato mi aspetto un castigo. Gesù mi dice che il suo sguardo non è minaccioso, …ma io continuo ad avvertirlo tale».

Nell’episodio della peccatrice in casa di Simone fariseo3, Iñigo individuò il brano che avrebbe potuto aiutarmi a scindere lo sguardo d’amore di Dio da quello di giudizio degli altri, senza continuare a sovrapporli. «Devi imparare ad affrontare la difficoltà e la tensione appoggiandoti sull’amore di Dio: nel brano, il desiderio della peccatrice di fare ciò che è giusto (avvicinarsi a Cristo) deve realizzarsi sotto lo sguardo di giudizio del fariseo» disse.

E mi offrì anche un altro spunto: come la peccatrice accarezzava, lavava, profumava i piedi di Gesù, anch’io avrei potuto rivivere quell’esperienza di relazione fisica con Cristo accarezzandolo in mia madre ammalata, in mio marito, nei miei figli.

Pregando quel brano finalmente riuscii a sentirmi guardata con amore, senza sovrapporre a Dio l’immagine paterna. Era vero: il giudizio è del fariseo, non di Gesù!

«Continua a chiedere a Dio la libertà interiore di fare ciò che è giusto senza guardare a ciò che dicono gli altri, recuperando fiducia in te stessa» mi disse sorridendo.

Capii allora che potevo concludere il mio percorso spirituale: mi ero scrollata di dosso un peso enorme: accogliendomi come sono, Dio mi aiutava ad essere me stessa, non un’altra persona come prima facevo per accontentare gli altri».

Per don Manuel era stato uno sforzo immenso rimanere ad ascoltare quel racconto che lo riportava a guardare in faccia il proprio vissuto. Dopo aver frettolosamente salutato, scusandosi per non stare troppo bene, uscì in strada e, fatti alcuni passi barcollando, si appoggiò al muro di una casa, scosso da violenti conati di vomito. Buttò fuori tutto quel che aveva in corpo. Ma quel peso che aveva dentro… quello no. Quello continuava a pesargli come un macigno… e non solo sullo stomaco.

1 Questa parola fu rivolta a Geremia da parte del Signore: «Prendi e scendi nella bottega del vasaio; là ti farò udire la mia parola». Io sono sceso nella bottega del vasaio ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che egli stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso, come ai suoi occhi pareva giusto”. Ger 18, 1-4.

2 Gv 8, 1-11

3 Lc 7, 36-50