4/01/2025

Ma cosa significa che Cristo è morto per noi peccatori?

Pasqua: il Signore muore per me, per tutti noi peccatori -dice Paolo (2 Cor 5, 14).

Ma cosa significa che muore per me? Sì, mi piace pensare che qualcuno mi ami a tal punto, ma subito dopo mi prende un senso di colpa: perché qualcuno dovrebbe morire a causa mia? Guardo alle stupidate che ho fatto nella mia vita, ma, anche mettendole tutte assieme, non mi sembrano poi tanto gravi da causare la morte (sia pure metaforica) di qualcuno, tanto meno di Lui! E poi la cosa mi puzza da ricatto affettivo, quasi mi dicesse: «Con tutto quello che ho fatto per te, come potresti essere meno che buonissimo?». No, non è da Gesù.

Nemmeno mi convince la spiegazione dell’espiazione vicaria: afferma che Gesù avrebbe espiato al posto nostro i nostri peccati, lasciando che la giusta ira di Dio si riversasse su di lui anziché su di noi. Così però il Dio di misericordia annunciato da Gesù si trasformerebbe in un freddo ripianatore di conti!

Mi è presa allora la curiosità di chiarire quel che dice Paolo in quel passo della lettera ai Corinti (ma così anche in tante altre parti) e mi sono ritirato fuori il caro vecchio Rocci, il mio vocabolario di greco del liceo. Nel greco antico, si sa, ogni parola assume sfumature diverse a seconda del contesto, per cui in italiano può essere resa con parole diverse. E allora, spulciando tra i vari significati, trovo che quell’ “ὑπὲρ” può essere tradotto anche con “a favore, a difesa, in sostituzione, al posto di noi peccatori”. Sì, già questo mi convince di più, perché mi apre una prospettiva di significato. Traducendo meglio il versetto, “...l'amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto al posto di tutti e lo ha fatto perché tutti eravamo morti”: nelle situazioni difficili, che esigono una scelta per il bene che però ci mette in contrasto con la mentalità del mondo e, conseguentemente, mette in crisi i nostri bisogni di sicurezza, di stima, di affetto, noi ci nascondiamo o voltiamo bandiera, abbandonando l’amore. Rinunciare alla soddisfazione dei nostri bisogni, seppure in vista di un bene più grande, lo sentiamo una morte. La morte ci spaventa e scappiamo. E così viviamo una vita da morti viventi. Ma in Gesù l’Amore rimane fedele alle sue scelte, affrontandone le conseguenze. Lui ce l’ha fatta, Lui è andato fino in fondo, senza paura, Lui la morte l’ha affrontata. Lui sempre va avanti e ci mostra come si fa. Intanto lo fa Lui al posto nostro, perché possiamo poi farlo anche noi.

E l’esito di questa scelta -la risurrezione- mi mostra che è la scelta giusta. Una risurrezione che è un modo di vivere assolutamente diverso da quello di prima, dominato dalla paura e da voglie senza senso che mi vedono al centro del mondo. Paolo parla così di questo nuovo modo di vivere, impregnato della presenza di Gesù: “Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5, 15. 17). Nelle angosce che mi fanno agire in maniera disperata, se credo al mio desiderio che Dio mi stia vicino per aiutarmi a superare la paura, Cristo si fa accanto con la sua alla mia croce. E così la mia croce si riempie del ricordo della sua grazia che mi sostiene, cosicché la dolcezza di questa esperienza vince l’amarezza della sofferenza. E tutto è diverso, tutto è nuovo. Posso rimanere nella mia croce perché lì ho incontrato Lui e con Lui posso cercare il modo di renderla esperienza di vita nuova. E anche posso affiancarmi alle croci degli altri perché so che vi incontrerò Lui e lì saremo assieme. Posso decidere di seguirlo in quella che -ora l’abbiamo capito- potremmo chiamare la sua morte vicaria, entrando nelle situazioni dove gli altri non hanno il coraggio di entrare, rimanendo dove gli altri fuggono, in una parola, rinunciando al peccato, che è fuga dalla fatica di rimanere a vivere quel che è giusto vivere e come è giusto viverlo. Nella lettera ai Romani, Paolo lo dice così: “Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rm 6, 3-6. 8. 11). Il nostro uomo vecchio, che vuol fuggire dal sacrificio di sé, lo anneghiamo nel battesimo, lo crocifiggiamo con Cristo, ossia lo forziamo in una situazione in cui non vuole entrare, credendo (ed è questa la fede!) che dove pensa di morire troverà invece, come l’ha trovata Cristo, una via per la Vita.

                                                                                              Michele Bortignon


3/15/2025

L’orma del pellegrino: cap.6 - La veglia d’armi

Ridisceso al monastero (ormai era quasi buio), Iñigo si preparò per la veglia d’armi. Ma era con uno spirito diverso che ora la stava affrontando: era svanita quella baldanza un po’ arrogante che lo spingeva a progettare il proprio futuro per Dio al di là di Lui. Ciò che aveva imparato dall’eremita poteva ben riassumerlo nelle parole di Isaia: “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell'abbandono confidente sta la vostra forza”1. Davanti alla Virgen morenita avrebbe dunque lasciato fosse Lui a parlare: a dirgli cosa lo chiamava a fare, non per Lui, ma con Lui.

Si inoltrò nella chiesa ormai immersa nell’oscurità. Ai lati della Vergine, i ceri che i monaci avevano lasciato accesi per lui gli indicarono la strada. Giuntole dinnanzi, si inchinò profondamente e con la destra tracciò su di sé il segno antico che diceva la sua volontà di compiere quanto stava per intraprendere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E, nelle fattezze scolpite da mani ispirate, cominciò a leggere il messaggio tramandato da secoli di preghiera appassionata al mistero di Dio.

Maria non era sola. Naturalmente! Lei, grembo in cui il Figlio di Dio era stato concepito ed era cresciuto, presentava al mondo quel figlio avvolto nel proprio abbraccio, carne della propria carne. Sì, era, quello, un Dio veramente capace di comprendere l’uomo perché nei movimenti di una stessa carne e di uno stesso sangue sentiva i limiti e le pulsioni, le paure e i desideri, i sogni e i bisogni della natura umana.

Un bimbo in braccio a sua madre: cosa ci può essere di più fragile e indifeso? Così si presenta il nostro Dio perché possiamo sentire accolta la nostra indifesa fragilità in un abbraccio che si prende cura e che il Figlio benedice, perché con il suo Spirito essa riprenda a camminare solida e capace nella vita.

Bruna era la pelle di entrambi: volti bruciati dal sole nel duro lavoro quotidiano. Essere uomini accanto agli uomini significa condividerne l’esistenza nelle attività da svolgere, negli affetti da nutrire, nei problemi da risolvere. La vita non è facile, e rende callose le mani di chi ne porta il peso; ma belle, perché in esse si leggono le tracce di un sudore che ha costruito umanità.

E questi volti di lavoratori erano incoronati: approvazione divina che glorifica l’umanità vissuta senza imbarazzo nel suo essere terra e sangue, perché in questa terra e in questo sangue Dio ha impastato il suo Spirito, rendendolo luce e forza di Vita. Lo sguardo di entrambi è rivolto a noi. Quando si è già in contatto di pelle, guardarsi l’un l’altro è chiusura intimistica. Fatti “uno” nell’intimo di una comunione di vita, possiamo guardare fuori di noi, attenti al bisogno di chi cerca ciò di cui noi sovrabbondiamo. E la sua fame farà emergere da noi ciò che lo nutre, saziando lui e lievitando noi.

Il mondo è nelle mani di questa madre. Non nelle mani di Dio, ma di una donna. Dio, che l’ha creato, in esso vuol continuare a operare unicamente per mezzo nostro, perché l’ha consegnato alla nostra responsabilità. Non a Lui dobbiamo chiedere miracoli, ma alle nostre mani e al nostro cuore.

Nella sua mano, il Cristo bambino tiene invece una pigna. Quel che appare duro legno, e spinoso, in sé contiene germi di nuova vita, e abbondante. Chiuso in se stesso, se si lascia avvolgere da un calore che ne scioglie le difese può aprirsi e scoprire dentro di sé ciò che non sapeva di contenere, senso al proprio essere e fonte di vita per altri: questo è l’uomo, quando si scopre e si accetta nella mano di Dio.

In ginocchio, il cavaliere di Loyola depose la sua spada e il suo pugnale ai piedi della Vergine e del Cristo, suo figlio. Altre armi gli avevano affidato in quel loro rivelarsi e consegnarsi a lui nella loro più intima essenza, nella loro missione al mondo, che ora volevano continuare attraverso di lui.

Sentì il suo cuore allargarsi a ricevere quanto gli veniva consegnato; e, con esso, una pace vasta e profonda, che lo penetrava rendendolo leggero, una piuma pronta a volare al soffio di un Dio che l’affidava al vento della vita.

Tacquero i pensieri di Iñigo, per lasciare che quella pace, più di loro sapiente, guarisse le sue paure, colmasse i suoi bisogni, tacitasse le sue ansie; e lo rendesse uno con Chi stava contemplando.

Non più parole: silenzio… pace… pace… solo pace.

Passò del tempo. Un attimo? Un’eternità?

E il suo sguardo tornò a posarsi sul loro, che ora percepiva porta su un infinito che lo chiamava a sé per farsi in lui via alla Vita.

Come poter far proprio questo loro sguardo sulla realtà? Come assimilarne la chiarezza, capace di far luce sugli inganni e intravedere, al di là di questi, le prospettive che si aprono a una pienezza di vita?

Fra’ Garì era caduto nell’inganno di parlare delle proprie vicende non con Dio, ma con il demonio, con la parte di sé presa nei lacci dell’istinto. E questi lo aveva appoggiato, sì, nel cercare il bene, ma… per vie più brevi. Sfocianti nell’abisso.

Con disagio e vergogna, il pensiero gli scivolò sull’incapacità di capire cosa fare che l’aveva preso qualche giorno prima, quando quasi stava pensando di uccidere una persona per una divergenza di idee su questioni d’onore.

«Maria!» invocò nel suo cuore, «Tu che meditavi nel tuo cuore ciò che ti succedeva, ottienimi da tuo figlio la capacità di accorgermi quando, come e verso dove sono trascinato dalla mia istintualità».

«Gesù, tu che, al pari di ogni uomo, sei stato tentato, ottienimi dal Padre la capacità di distinguere ciò che da Lui proviene da ciò che di Lui mi illude d’essere voce».

«Padre, tu che mi hai creato in tuo Figlio perché diventi tuo figlio, dammi un cuore capace di discernere, perché possa camminare sulla strada che mi porta a Te».

Di nuovo tacque. E, nel silenzio di ogni pensiero, sentì che in quella pace che lo invadeva c’era già la risposta. La pace. La pace vasta, profonda e duratura. Sì, la pace era il discrimine, il criterio per distinguere ciò che veniva da Dio.

Nel baluginare dell’alba, i monaci percorsero in corteo le navate semibuie, per disporsi quindi nel coro, attorno all’altare, ad accogliere, a nome della Vergine e del Figlio, la sua promessa di cavaliere.

Non più un’esposizione di impegni e promesse, ma un dono di sé a Dio, disponibile a una volontà da scoprire nella trama dei fatti quotidiani:

«Prendi, o Signore, e accetta

tutta la mia libertà, la mia memoria,

il mio intelletto, la mia volontà,

tutto quello che ho e possiedo.

Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono.

Tutto è tuo:

di tutto disponi secondo la tua piena volontà.

A me dà il tuo amore e la tua grazia:

questo solo mi basta».

Con la sua offerta di sé, la cerimonia era conclusa. I monaci si erano ritirati. Era rimasto solo.

E di nuovo si rivolse a Maria, per dirle ciò che in lei vedeva essere anche il proprio cammino, il cammino che adesso lo aspettava, e chiederle, in esso, di stargli accanto:

Ave Maria

compagna nel cammino

sorella nella fede

e madre nel dolore.


Grande il tuo sogno, Maria,

forte in te la tua speranza

per attirare il Signore

ad abitare il tuo corpo

e dar potenza a un amore

che del suo amore si fa segno.


Forse illusione è la tua:

come ti credi inviata

a donar carne al suo Verbo?

Ma ciò che Dio ha seminato

cresce da solo e dà frutto.

Lui lo difende e lo cura!


Fra le incertezze e le angosce,

tu lo volevi guidare.

Ma un’altra strada è la sua

e a seguirlo ti chiama

dove l’amor si fa pane

e condivide il dolore.


Tu t’affidasti, lasciando

ciò che sembrava più giusto

per creder buona una storia

che non capivi e feriva.

Ma, dalla morte, cambiato,

quel che donasti risorse.


Or grandi cose contempli,

frutto di un amore che tace

e dà spazio nel cuore

a un’altra voce che chiama

a spezzare ogni catena

e pace trovar nell’amare.


Al nostro fianco rimani

dove ti ha messa tuo Figlio

e con carezze di madre

a Lui rivolgi un cammino

che noi con fede vogliamo

muover sui passi del tuo.


Amen

1 Is 30, 15

3/01/2025

Che senso ha la vita?

Esserci. E’ il caso che ci ha gettati nella vita? Ed è sempre seguendo il caso che si snodano le nostre vite, fino a quell’abisso che ci rigetta nel nulla da cui siamo venuti? Questo il pensiero cinico che rischia di contagiarci quando le cose vanno storte.

San Paolo, che vive la vita come una missione da compiere, ha una visione finalizzata dell’esistenza: “Tutte le cose sono state create per mezzo di Cristo e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1, 16-17). Come dire che Cristo è il modello sul quale tutto, come in uno stampo, viene formato e verso il quale tutto converge. In quanto esistiamo, abbiamo dunque qualcosa in comune con Lui. Che cosa? Certo non l’aspetto, che anzi ci distingue l’uno dall’altro. Forse allora lo stile di vita, il modo di affrontare l’esistenza? Nemmeno: ci rendiamo conto che lo spirito non è certo quello di Cristo, quanto piuttosto l’istinto di sopravvivenza, il cercare di soddisfare i propri bisogni costi quel che costi, spesso a scapito degli altri.

L‘inno cristologico riportato nella lettera ai Filippesi (Fil 2, 5-11) chiarisce che il Cristo ha una natura divina (“la sua uguaglianza col Padre”) di cui si è spogliato per camminare con noi verso di essa, per insegnarci a rivestircene. Della natura divina fa parte tutto ciò che l’uomo non vive istintivamente, ma per lui costituisce un traguardo di umanizzazione che lo rende simile a Dio: l’amore, la bellezza, la misericordia, l’armonia… Quando l’umano raggiunge la propria profondità, lì incontra Dio, si immerge in Dio, diventa parte di Dio e Dio si incarna in lui.

Ma se il divino è l’orizzonte di ciò che esiste, che cosa allora accomuna l’uomo (e con lui il creato) a Cristo? La vita come missione. E qui ritroviamo l’esperienza di san Paolo. La vita: questo ventaglio di possibilità di essere su cui esercitare con responsabilità la nostra libertà per trasformare il nostro essere immagine di Dio in somiglianza di Dio, per divinizzarci.

Ma questa divinizzazione è impossibile all’uomo: non ne conosce la strada e non ne ha la forza, condizionato com’è dalla propria storia (è questo il significato del peccato originale).

Non siamo capaci di arrivare a Dio? È Lui allora a venire da noi, a farsi come noi, a mettersi concretamente nella nostra condizione per sintonizzarci con Sé, per sintonizzare (Paolo dice “riconciliare”, “rappacificare”) dentro di noi ciò che è della terra e ciò che è del cielo, la nostra libertà con le nostre possibilità, che in Lui vediamo realizzate. Come attua Cristo questa sintonizzazione? A noi preoccupati di soddisfare le esigenze di questo corpo di carne, Cristo, nella sua vicenda terrena e soprattutto nella sua Pasqua (“per mezzo della morte del suo corpo di carne” Col 1, 20-22), mostra che questo corpo di carne non è niente se non in vista della comunione alla natura di Dio che, come abbiamo detto, costituisce il traguardo della nostra umanizzazione.

Ma questa nostra divinizzazione (o, con un termine che ci è più familiare, chiamiamola “salvezza”) non sarebbe una vera sintonizzazione con il nostro Dio se si trattasse solo di perfezionamento individuale, di realizzazione personale, perché il nostro Dio è Trinità, è vita di relazione. A sua immagine, noi siamo esseri di relazione, con gli altri uomini e con il creato. E la nostra salvezza non è tale se non si realizza nella salvezza della rete di relazioni in cui viviamo. Che l’aspetta da noi: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,19-22). Come in Cristo tutto è stato creato, così in noi, ora animati dal suo Spirito, tutto viene salvato. Risorti, portiamo a risurrezione. Da qui il nostro compito nella vita: lasciarci salvare per poter salvare. Investito di fiducia, l’uomo, portato da Dio alla vita, è chiamato a ridiventare Dio, ma cosciente di se stesso, portando con sé un pezzo di creazione.

E tutto questo, ripete Paolo, potrà essere realizzato non da noi, ma da Cristo in noi, che alimenta la nostra speranza di essere in Lui, piena realizzazione di ciò che è assieme umano e divino: “Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo” (Col 1, 27-28).

E con questo rispondiamo alle tesi del cinico che ci hanno interpellato all’inizio: non dal nulla al nulla, ma da Dio a Dio! Più laicamente: esserci ha un senso. Troviamo il nostro.


Michele Bortignon

2/14/2025

L’orma del pellegrino: cap.5 - Montserrat

Le guglie rocciose del Montserrat si stagliavano nitide contro il cielo, al di sopra delle nubi che il recente temporale aveva lasciato dietro di sé. Gli sembrò di vedere in esse le torri di un’imponente fortezza, al servizio del cui signore egli si stava recando a offrirsi.

Lì avrebbe fatto la sua veglia d’armi, in preparazione dell’investitura a cavaliere che tanto ambiva ricevere per distinguersi, con grandi e valorose gesta, agli occhi del principe e della regina madre.

Sapeva però che Questi aveva scelto di somigliare all’ultimo degli uomini e aveva fatto della povertà il suo vessillo. Non, dunque, la tunica bianca, simbolo di purezza, non il mantello rosso, simbolo del sangue che era disposto a versare, non la cotta nera, simbolo della morte che non temeva, sarebbero stati il suo vestito da cavaliere, ma un sacco di tela ruvida e grossolana, lungo fino ai piedi. E, in luogo di spada, elmo e cavallo, il bastone, la borraccia e i sandali del pellegrino.

Questi erano i suoi progetti, e di essi erano pieni il suo cuore e la sua mente, che una fervida fantasia alimentava, facendolo immaginare in gara con i santi del passato nell’accumulare meriti a maggior gloria di Dio.

Giunto al monastero, prese accordi con un monaco per la confessione generale: sapeva che ogni cavaliere deve prepararsi alla vestizione rituale con un bagno purificatorio. Voleva fare le cose per bene, stigmatizzando i propri peccati per iscritto, così da essere sicuro di non omettere nulla. Il confessore lo lasciò fare - tre giorni gli occorsero per stilare il suo elenco “ad esecrandum”! - e alla fine gli impose come penitenza di visitare uno degli eremi sparsi per la montagna. Erano, questi, degli anfratti tra le rocce, rabberciati alla meglio con qualche sasso, in cui vivevano uomini che avevano scelto di servire Dio senza alcun progetto, lasciando fosse la vita con le sue esigenze a essere eco della Sua volontà.

«L’eremita è colui al quale si pongono le domande fondamentali sul senso della vita, alle quali egli stesso sta cercando risposta contemplando Dio all’opera nella realtà della natura e discernendo i diversi spiriti in lotta nella propria coscienza» gli disse il padre confessore. «Non è necessario che tutti diventino eremiti per servire Dio, ma, certo, per camminare con Lui occorre come loro diventare contemplativi e capaci di discernimento. Ti farà bene confrontarti con un’esperienza di vita fondata su una sapienza antica».

Il sole cominciava ad abbassarsi dietro il profilo dei monti quando Iñigo giunse all’eremo di San Juan. Su di uno scanso ricavato nella parete di roccia stava seduto un anziano, assorto in preghiera. Immobile, la schiena aderente alla parete, le mani sulle cosce con i palmi rivolti verso l’alto, sembrava anch’egli una delle tante forme che l’erosione aveva scolpito sul conglomerato.

Non si mosse finché il colloquio con il suo Signore, che stava svolgendosi dentro di lui, non esaurì le parole che dal cuore sovrabbondavano. Solo allora dischiuse gli occhi e si rivolse al visitatore: «Benvenuto! Quale ricerca ti sta portando a incrociare il mio cammino?».

«La maggior gloria di Dio!» rispose Iñigo senza esitazione. «Voglio poter fare grandi cose per Lui. Ancora non so che cosa, ma già me ne ha messo il fuoco nel cuore».

L’anziano lo guardò a lungo, con dolcezza e nostalgia, quasi riconoscesse in lui il giovane entusiasta che anch’egli era stato un tempo. «Tu vuoi “fare” per Dio. E’ giusto. E’ bello. L’ardore della tua età ha bisogno di sogni da inseguire. Purché non si chiudano a Chi, più grande dei nostri progetti, talora vuole entrarvi per aprirli, attraverso strade sue, a una prospettiva più grande.

Il bisogno di sentirci qualcuno può portarci a cercare noi stessi mentre ci illudiamo di cercare Dio. Per farti capire cosa voglio dire, ti racconterò la storia di Fra’ Garì, il primo eremita che visse fra queste balze rocciose.

Dice la leggenda che, tanto tempo fa, un cavaliere si ritirò in romitaggio fra le montagne di Montserrat. Juan Garì - questo era il suo nome, conduceva una vita molto austera, cibandosi di frutti del bosco e bevendo acqua dalla sorgente che sgorgava presso la sua grotta. Vedendolo progredire in santità, il demonio si indispettì e si propose di tentarlo per farlo cadere. Si travestì egli pure da eremita e procurò di incontrarlo, come per caso, fra le sue montagne. Fra’ Garì gli chiese chi fosse e dove abitasse, e questi gli rispose che viveva rinchiuso da trent’anni in una grotta piccolissima e che solo ogni dieci anni, com’era appunto quel giorno, si permetteva di uscire. Meravigliato di trovare un’ascesi superiore alla sua, Fra’ Garì lo elesse suo maestro e ogni sera andava a trovarlo per il resoconto di coscienza. Guadagnatosi così la sua fiducia, il demonio lo spingeva a mete sempre più ambiziose per dare gloria a Dio con tutte le sue forze.

Quando lo vide pieno di se stesso, pensò giunto il tempo di farlo crollare.

Entrò nel corpo di Richilda, figlia del conte Goffredo di Barcellona, indemoniandola. La povera ragazza gridava giorno e notte e il padre, disperato, la condusse da Fra’ Garì, chiedendogli di tenerla con sé un paio di giorni per provare a guarirla. Temendo la tentazione, Fra’ Garì non voleva accettare, ma, a fronte di tante preghiere e insistenze, e rassicurato in tal senso anche dal suo maestro, impietosito, la accolse. Al consueto aprire il suo cuore nel resoconto di coscienza, il demonio gli ridimensionò tutti i problemi che egli si faceva riguardo alla tentazione, cosicché, al tornare nella sua grotta, questa lo sopraffece ed egli violentò la fanciulla. Inorridito da quanto aveva fatto, tornò dal maestro, che gli mise in mano un coltello per ucciderla e seppellirla nascostamente, così che la cosa non si risapesse. Portato a termine il suo perfido intento, il demonio si fece conoscere per qual era, così da portare l’eremita, nel completo fallimento di ciò che credeva di essere, a disperare della propria salvezza. Ma questi, con l’ultimo barlume di coscienza, piangendo si recò a Roma dal Papa per implorare perdono.

Dopo averlo ascoltato, il pontefice gli disse «Il peccato è talmente orrendo che non so se Dio potrà perdonarti. Come una bestia hai peccato, come una bestia dovrai fare penitenza: torna a Montserrat camminando a quattro zampe; non lavarti, lasciati crescere unghie e capelli, non parlare, schiva le persone. E non guardare mai il cielo, perché non ne sei degno».

Impiegò tre anni per tornare a Montserrat, e lì visse da solo per altri sette anni, il corpo coperto da lunghi peli, tanto da sembrare un orso. Un giorno fu sorpreso da alcuni cacciatori che, scambiatolo per uno strano animale, lo catturarono e lo portarono a Barcellona con l’intenzione di farne dono al conte Goffredo, la cui sposa aveva appena dato alla luce un bimbo: la gabbia con dentro la strana bestia di Montserrat avrebbe fatto la sua bella figura fra le attrazioni della festa per il battesimo del figlio del conte! Al termine della cerimonia, questi ricevette con stupore il dono dei cacciatori, ma, quando la contessa passò davanti alla gabbia con il bimbo in braccio, questi, fra lo stupore generale, parlò e disse «Alzati, fra’ Garì: Dio ti ha perdonato!». Il conte ordinò che fosse immediatamente rasato e lavato. Tornato finalmente all’aspetto di uomo, fra’ Garì fu riportato al cospetto del conte che gli chiese che fine avesse fatto sua figlia: non l’aveva più vista da quando l’aveva lasciata presso di lui! Fra’ Garì confessò il suo crimine e chiese di essere punito, ma il conte, magnanimo, volle perdonarlo come Dio lo aveva già perdonato. Gli bastava solo sapere dove fosse stato gettato il corpo della figlia, per poterle dare degna sepoltura. Arrivati al luogo indicato, Richilda fu trovata viva e guarita, e il miracolo fu attribuito all’intercessione della Vergine, di cui ella volle diventare devota ritirandosi in un monastero che il padre fece costruire per lei a Montserrat.

Hai capito cosa ha salvato Fra’ Garì? La semplicità di un bimbo: Dio che, attraverso l’immagine di un bimbo in braccio a sua madre, vuol dirci che non ci chiede di “fare” per Lui chissà che cosa, ma di accorgerci di quanto Lui sta facendo per noi e di gustarlo. La bellezza ci riempirà allora il cuore inondandolo di gioia e di pace. E quando uno è in pace non può non essere buono».

Iñigo era visibilmente scosso. Intere notti passate a flagellarsi per fare penitenza e rinforzare la volontà, culminate in tre giorni di meticolosa ricerca dei propri peccati per far pulizia di fondo nella propria anima prima di impegnarsi in grandi cose per il suo Signore… ed ora questo anziano gli diceva che Dio era già alla porta della sua anima e bussava per chiedergli di lasciarlo entrare per far festa assieme?!

«Ho… ho bisogno di una strada» riuscì a biascicare con fatica. «E’ talmente nuova e strana questa cosa per me, che nemmeno saprei da dove cominciare…».

«E’ proprio quel che stavo facendo prima, quando sei arrivato. A fine giornata mi incontro con il mio Signore e assieme guardiamo cosa è successo oggi. E Lui mi dice una cosa tanto semplice: accorgiti, rallegrati, ringrazia.

E’ bello, e mi riempie il cuore di gioia, accorgermi, rallegrarmi e ringraziare Dio per tutto quel che di positivo è successo e che io ho contribuito a far succedere.

Ma, assieme al mio Signore, posso trasformare anche quel che di negativo è successo e che io ho contribuito a far succedere, decidendo cosa fare per viverlo nello Spirito di Cristo: mettendoci un po’ di fede, un po’ di speranza, un po’ d’amore. Ovvero, se qualcosa oggi non è andato come doveva andare, provo, nell’immaginazione, un diverso modo di viverlo, fino a trovarne uno che mi faccia sentire bene con me stesso e con gli altri; sarà la cosa giusta da fare per la prossima volta.

Dopo l’accorgermi di quel che di positivo e di negativo oggi è successo, il punto d’arrivo è dunque unico: rallegrarmi perché Dio è presente nella mia vita a donare e a per-donare, ed esprimergli personalmente la mia gratitudine perché Egli è il Dio con noi.

Un po' alla volta, questa preghiera sulla vita concreta di ogni giorno mi ha portato a vivere continuamente alla presenza di Dio, nello stupore di fronte ai suoi doni e nel discernimento delle sue chiamate all’interno delle situazioni che mi succedono. E, in questo modo, sento che vivo in pienezza la mia esistenza».

Con il cuore in un tumulto che ora non era più di smarrimento, Iñigo cominciò a capire che la gioia, la pace, la libertà interiore non sono una conquista del nostro impegno, ma germogliano spontaneamente in un animo che si lascia sedurre dalla bellezza di un Dio che in tutto opera.

E, come un ricordo lontano che riemerge quando il desiderio del cuore lo chiama, si ritrovò a sussurrare tra sé l’invito di Paolo: Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, e la pace di Dio custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù1.

1 Fil 4, 4-7

2/01/2025

«Proteggimi o Dio!». Sì, ma in che modo?

Mi è capitato di vedere una persona che distribuiva medagliette miracolose della Madonna, assicurandone la protezione. Ho provato un senso di ripulsa e mi sono chiesto: davvero è protezione chiedere un riparo da tutto ciò che ho paura succeda?

No, è una mancanza di fede: le situazioni della vita mi sono date come occasioni per imparare dalla vita che cos’è la vita e come viverla. Per quanto difficili e dolorose, se le evito resterò un immaturo. Come altrimenti interpretare l’ultima delle beatitudini? “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5, 11-12). La mia ricompensa è appunto questa: cominciare a vedere le cose dai cieli, da un altro punto di vista, nel loro senso profondo. E questo mi permetterà di capire come viverle.

San Paolo riprende questo “rallegratevi” nella lettera ai Filippesi: “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù“ (Fil 4, 4-7). Con quel “sempre”, suggerisce che anche le difficoltà sono il luogo in cui vivere questo rallegrarsi. Ma perché rallegrarsi? “Il Signore è vicino!”; e se è vicino posso sfogarmi con Lui, esporgli le mie preoccupazioni, dirgli il mio dolore, chiedere ciò di cui ho bisogno. E’ giusto: con un amico si fa così! Ma un amico vero non mi protegge dalla vita: sa che la pace sono io a dovermela conquistare vivendo questa situazione in modo nuovo, mettendo da parte ciò che la mia intelligenza, segnata da esperienze che la fanno reagire istintivamente, ora mi suggerisce. In Cristo Gesù, Dio, come un amico vero, semplicemente mi ascolta e custodisce i miei sentimenti e i miei pensieri: in Lui posso lasciarli decantare fino al momento in cui possano trovare la loro verità accordandosi con i suoi. Come non pensare a Maria che “da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2, 19)?

Questo silenzio, questa attesa è lo spazio in cui agisce lo Spirito Santo: il modo di essere, di pensare, di agire di Gesù, che vuole farsi carne in me, vuol farsi persona che agisce attraverso di me. E’ questo il dono che mi fa l’intimità di vita con Dio.

E lo Spirito Santo, il consolatore (Gv 14, 16), è anche il modo in cui Dio mi si fa vicino, mi con-sola, sta con me quando la tribolazione, l’afflizione mi fanno sentire solo. E lo fa mettendo a frutto la mia sofferenza per un bene che è di tutti, quando accosto la mia all’altrui sofferenza: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo” (2 Cor 1, 3-6). “Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita. Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2 Cor 4, 11-12.16). Dio “risorge” la mia sofferenza facendola servire a un bene più grande, a un bene comune. La sofferenza è esperienza di tutti, ma non è un destino malvagio! Come abbiamo detto all’inizio, può essere letta come occasione di maturazione, se qualcuno ci accompagna sulla strada per viverla come tale. Quante volte mi è capitato di poter aiutare persone in difficoltà perché io quelle stesse difficoltà le avevo già vissute e superate! E’ questo il Regno di Dio: una società in cui ci si prende cura gli uni degli altri nelle difficoltà, e queste difficoltà diventano il trampolino di lancio per creare un modo di viverle in maniera più solidale e umana.

Vorrei concludere in leggerezza rileggendo questi stessi concetti nella vicenda degli Acharai, raccontata da Michael Ende nel romanzo “La storia infinita”. Gli Acharai sono dei vermi di orribile aspetto che abitano in oscure caverne al di sotto della città di Amarganta. Angosciati per la loro bruttezza, la piangono in lacrime con cui sciolgono dalla roccia l’argento per costruire le torri della città, intessute in finissima filigrana di meraviglioso aspetto. Bastiano, che nella storia di Fantasia vuole essere ricordato per la sua bontà e il suo altruismo, li trasforma in farfalle: «Dovete diventare allegri e variopinti e non fare altro che ridere e divertirvi. Da domani in poi non vi chiamerete più Acharai, i Perpetui Piangenti, ma Uzzolini, i Sempre Ridenti». Molto tempo dopo, lo sciame degli Uzzolini gli turbina attorno schiamazzando «Grande benefattore! Grande benefattore! Ti ricordi del giorno in cui ci hai liberato, quando eravamo ancora gli Acharai? Allora eravamo le creature più infelici di tutta Fantasia, ma adesso siamo stufi di noi stessi! Ciò che hai fatto di noi all’inizio era piuttosto divertente, ma ora ci annoiamo a morte! Continuiamo a ballonzolare attorno e non abbiamo alcun punto di riferimento. Non siamo neppure in grado di fare un vero gioco, perché ci mancano le regole. Bello scherzo ci ha fatto la tua liberazione, gran benefattore! Ci hai imbrogliato, ci hai fatto diventare soltanto dei ridicoli pagliacci!». «Ma che cosa posso fare?» domandò il ragazzo «Che volete ora da me?». «Devi ritrasformarci» risposero quelle stridule vocette petulanti «Il lago delle lacrime si è disseccato e nessuno tesse più quelle finissime filigrane. Vogliamo tornare a essere gli Acharai!».

Forse dovremmo fare tesoro delle parole che vengono dette ad Atreiu quando gli viene affidata la missione di salvare Fantàsia: «Devi lasciare che accada tutto ciò che deve accadere. Tu devi soltanto cercare e domandare, ma mai sentenziare secondo il tuo giudizio. Non dimenticartelo mai, Atreiu!».

Michele Bortignon







1/14/2025

L’orma del pellegrino: cap.4 - Manresa

Le nove grandi arcate del “Pont Nou” superavano il rio Cardoner introducendo il “camino real”, proveniente da Zaragoza, nella città di Manresa.

Ancora un breve tratto di salita, lungo la carretera de Cardona, e don Manuel si trovò davanti alla mole del convento dei Domenicani.

L’ordine del santo di Guzmàn era quello più legato all’inquisizione, in quanto i frati predicatori erano nati proprio per contrastare l’eresia. In un primo tempo l’avevano fatto semplicemente con la forza della Parola e della coerenza tra questa e la propria vita; più tardi, dopo la svolta impressa da Gregorio IX° in seguito alla recrudescenza della lotta contro il catarismo, erano diventati accusatori e giudici in processi analoghi a quelli delle cause civili, fino ad arrivare all’uso della tortura, autorizzata da Innocenzo IV° con la bolla “Ad extirpanda”, per strappare agli eretici la confessione delle depravazioni commesse seguendo le proprie false dottrine.

L’ospitalità dell’ordine era dunque dovuta all’inviato dell’inquisitore generale di Toledo.

Lo scampanellìo al portone d’ingresso fece accorrere il fratello converso che in quel momento svolgeva il servizio di portinaio. Al riconoscere il sigillo dell’inquisizione sul documento che gli veniva presentato, aprì subito la porta e si precipitò ad avvertire il priore. Nel frattempo, il frate addetto alla “domus hospitum” lo stava invitando a entrare in chiesa: «La comunità è riunita nel coro per i vespri» disse. «Puoi parteciparvi; poi ti condurrò nella tua cella».

«Media vita in morte sumus.

Quem quærimus adjutorem nisi te, Domine,

qui pro peccatis nostris juste irasceris?

Sancte Deus, Sancte fortis,

Sancte et misericors Salvator,

amaræ morti ne tradas nos1».

Le note del canto gregoriano riempivano le navate della grande chiesa.

Don Manuel si fermò a osservarne l’architettura: poco oltre la metà dell’aula un tramezzo separava il coro dalla parte destinata ai fedeli. In esso si apriva un portale, sovrastato da una grande croce, che permetteva di vedere l’altare.

Si avvicinò, mettendosi a sedere in disparte, in una posizione che comunque gli consentisse di assistere alla liturgia.

«Ne proficias nos in tempore senectutis

cum defecerit virtus nostra,

ne derelinquas nos, Domine sancte.

Sancte Deus, Sancte fortis,

Sancte et misericors Salvator,

amaræ morti ne tradas nos2».

Il vasto spazio al centro del coro, attorno al quale si allineavano gli stalli, era occupato dall’invisibile presenza di Dio, simbolizzata da un leggìo, sopra il quale era aperto il libro delle Scritture. I frati erano completamente assorti in quella preghiera che concludeva la loro giornata, tutta scandita dall’orazione, come prescriveva il salmo: “Sette volte al giorno io ti lodo, e nel cuore della notte mi alzo a renderti grazie3.

«Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto.

Sancte Deus, Sancte fortis,

Sancte et misericors Salvator, 

Amaræ morti ne tradas nos4»

Il “Salve Regina”, cantato processionalmente, concluse la liturgia. L’assemblea si sciolse, ma, questa volta ciascuno per suo conto, i frati continuarono le loro devozioni con l’esame di coscienza, al termine del quale c’era chi visitava tutti gli altari, prostrandosi umilmente davanti a ciascuno e piangendo, e chi, in un angolo appartato, si disciplinava duramente per i difetti riscontrati, con verghe o con funicelle nodose.

Raggiunto dal fratello ospitaliere, don Manuel fu accompagnato alla sua cella. Essendo troppo tardi per cenare con la comunità, gli fu dato un pane e dell’acqua per ristorarsi.

«Il priore mi ha detto che ti riceverà domattina. Per ora riposati. “Il Signore ti benedica e ti custodisca”5. Buonanotte».

L’apertura strombata della stretta finestra affacciata sul chiostro lasciava penetrare nell’angusta stanza l’ultima luce del giorno. Controllò che la lucerna fosse al suo posto nella nicchia sul muro e, dato appena qualche morso alla pagnotta, crollò, stanchissimo, sul pagliericcio.

Dopo le lodi mattutine, il priore fece avvertire don Manuel che lo avrebbe atteso nel chiostro, dove era solito passeggiare in meditazione.

Era, quello, il momento che preferiva: un intimo colloquio col suo Signore al di fuori delle formule della preghiera liturgica. “Nolite loquere nisi cum Deo vel de Deo”6, aveva raccomandato Domenico, il loro fondatore. Perfino il parlare di Dio, in cui il verbo divino passava attraverso la parola umana, anche se era il carisma dei frati predicatori e il momento forte della loro spiritualità, non eguagliava nel suo cuore quel sommesso comunicarsi della sua anima, che era per lui un confidarsi, un fidarsi, un affidarsi. Solo qui si sentiva “uno” con il suo Signore nel parlare con Lui dei suoi figli spirituali, riguardo alle afflizioni che li angustiavano, alle tentazioni che li tormentavano, ai dubbi che li facevano vacillare. Uno con il suo Signore e uno con i suoi figli, sentiva che, nel suo cuore in preghiera, l’amore per l’uno e per gli altri permetteva l’incontro reciproco, facendo emergere la Parola che, vissuta, poteva dare salvezza. Come gli antichi Abbas, padre Guillermo Perellos raccoglieva le confidenze dei suoi frati nei loro pensieri più selvaggi e restituiva la pace, nella misericordia e nella fiducia che Cristo dava loro attraverso di lui.

Don Manuel lo scorse mentre, uscendo dalla penombra di un’arcata del chiostro, si fermava a gustare, gli occhi chiusi, una sciabolata di luce che penetrava tra le colonne. Il suo volto era rivolto verso l’alto, a cercare Colui che in tale luce, in tale calore gli si comunicava tangibilmente: carezza divina, forma concreta di un’inconcepibile trascendenza.

Quando, al termine di quel breve momento di eternità, il priore si accorse della presenza del nuovo ospite, gli sorrise: «Anche su di te il Signore faccia risplendere il suo volto e ti dia pace!»7. Le braccia aperte, gli andò incontro e lo strinse a sé in un abbraccio senza fretta, quasi a volergli trasmettergli quel calore di cui si era appena caricato nell’intimo. Pure, nel riceverlo, don Manuel sentì come una fitta nel petto, quasi che quel calore avesse dolorosamente risvegliato, per contrasto, un’area di gelo in cui tutto era bloccato, rimosso, luogo di fantasmi che non dovevano uscire allo scoperto. «Dunque, questo è un padre!» pensò, subito scacciando spaventato quell’idea come insopportabile.

«Padre…», e la voce gli tremò nel pronunciare quella parola, «Sono stato inviato per acquisire informazioni su una persona che, qui a Manresa, senza avere lo studio necessario e senza porre sotto il controllo della Chiesa il suo operato, ha aiutato nelle cose spirituali alcune anime. La faccenda ha dato nell’occhio, soprattutto perché sembra non si tratti di un’attività occasionale, estemporanea, ma pianificata nei tempi e nei modi attraverso un metodo contenuto in un suo manoscritto…».

«Si… credo di conoscere la persona che cercate. Un certo Iñigo. Ha abitato nella nostra foresteria per alcuni mesi. Una persona molto devota… Si è attirato le simpatie della gente, che ha saputo del suo aver abbandonato la carriera nobiliare per intraprendere la vita del pellegrino, in assoluta povertà. Si è fermato da noi finché il porto di Barcellona, chiuso per l’imperversare della peste in città, è stato riaperto. So che intendeva continuare il suo pellegrinaggio recandosi ai luoghi santi…».

«Ha avuto modo di conoscerlo da vicino finché è rimasto qui?».

«Certo: sono stato il suo confessore!».

«Può assicurarmi che, perlomeno, il suo spessore spirituale, la sua conoscenza delle vie di Dio gli dessero la capacità di accompagnare spiritualmente le persone senza indurle in errore?».

Non era una risposta facile da darsi. Nel passato, gli eretici, per il fatto di vivere poveramente come Cristo era stato povero, si erano sentiti investiti dello Spirito di Dio, e, con esso, dell’autorità di dirigere le coscienze. Una parte della verità era stata da loro assunta come il tutto e questo, appunto, aveva reso eretica la loro dottrina.

Anche Iñigo aveva creduto che imitare Cristo era vivere povero con Lui povero. Probabilmente anche per rendere più radicale quella sua rinuncia a un mondo di cui aveva sperimentato l’illusorietà. Quando il priore l’aveva conosciuto, era vestito di un sacco, trascurato fino a lasciarsi crescere incolti i capelli, a somiglianza degli antichi anacoreti del deserto.

Una volta erano entrati nel discorso di come aiutare le persone a incontrarsi con Cristo. Iñigo gli aveva allora parlato di una sua visione: pronti al combattimento stavano da una parte Satana con i suoi demoni tentatori, dall’altra Cristo con coloro che aveva eletti ad aiutarlo. Il primo incatenava gli uomini al desiderio delle ricchezze e del successo, fino a spingerli a rinnegare Dio. Dall’altra parte, Cristo chiamava i suoi amici ad aiutare tutti gli uomini conducendoli anzitutto a fidarsi di Dio e, se Egli per questo avesse voluto sceglierli, anche alla povertà materiale; poi al desiderio di ricevere umiliazioni e disprezzo, perché da questi nasce l'umiltà8.


Era quella la strada giusta? Oppure la vita spirituale era molto più complessa e, per aiutare le persone a risorgere dalle loro morti, occorreva una sapienza basata su una maggior delicatezza, comprensione, pazienza, dolcezza, ascolto?

Tutto quel che poteva dire è che Iñigo era una persona in ricerca. Onestamente in ricerca. Certo, appesantita da una storia che condizionava il suo modo di avvicinarsi a Dio. Ma non era, questa, la condizione di tutti?

Padre Guillermo, il priore domenicano “non allineato”, che aveva scoperto la tenerezza della misericordia di Dio, pensò che difficilmente il rigido funzionario dell’inquisizione avrebbe potuto capire per quali contorte e altalenanti vie a volte un’anima può uscire alla luce. E, soprattutto, che è proprio questa esperienza ad abilitarla ad aiutare altri che si trovino nelle sue stesse precedenti condizioni.

«Ascolta» gli disse, «Ti racconterò quel che Iñigo mi ha riferito di ciò che ha vissuto sulla montagna di Montserrat, quando, prima di arrivare qui, si consacrò alla “Virgen morenita”. Lasciamo prima che sia la sua vita a parlare per lui!».



1 A metà della vita siamo nella morte. 

Da chi dobbiamo cercare soccorso se non da Te, o Signore, 

che giustamente sei adirato per i nostri peccati? 

Santo Dio, Santo Forte, Santo e misericordioso Salvatore, 

Non consegnarci a una morte amara. 

2 Non scagliarci lontano da te nel tempo della vecchiaia.

Quando vengono meno le nostre forze,

non abbandonarci, Signore.

Santo Dio, Santo Forte, Santo e misericordioso Salvatore, 

Non consegnarci a una morte amara. 

3 Sal 119, 164. 62

4 Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo.

Santo Dio, Santo Forte, Santo e misericordioso Salvatore, 

non ci dare una morte amara. 

5 Nm 6, 24

6 Non parlate se non con Dio o di Dio

7 Nm 6, 25-26

8 EE.SS. n.136-146

1/01/2025

Fare il bene. Perché?

È inquietante pensare che proprio all’interno della relazione con Dio sia in agguato l’illusione. Il periodo della scoperta di Dio è entusiasmante: guardando con Lui il mondo, tutto si riempie di significato; fare con Lui ti riempie di soddisfazione.

Sì, può essere un buon avvio sulla giusta strada, perché fa gustare la bontà, la bellezza, l’utilità del bene, ma porta con sé un rischio: potresti continuare a fare il bene perché ti dà gusto, non perché è giusto. Non te ne accorgi, ma cominci a fare il bene per te e non più con il Signore: il bene che fai tiene conto dei tuoi bisogni, mentre quelli degli altri passano in secondo piano; e così, col tempo, si va trasformando in un non-bene. Inoltre, in questo tuo fare il bene in modo autocentrato ti aspetti una risposta dagli altri, esigi un ritorno all’impegno che ci metti: se non ci trovi gusto, soddisfazione, realizzazione, perché farlo?

Smarrito, volgi allora a Dio lo sguardo, a quel Dio che finora hai creduto fonte delle tue consolazioni. Ma Dio tace. È la notte dei sensi, la notte in cui ti ha fatto sprofondare il tuo rapporto sensuale con Dio, la crisi di una relazione con Dio funzionale ai tuoi sogni e ai tuoi bisogni, una relazione che sei tu a gestire, secondo i tuoi parametri.

Ma “Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,24): nella fede, nella speranza, nell’amore.

Ascoltare un richiamo e seguirne la direzione: questa è fede.

Guardare nella nebbia e giurare di aver visto uno spiraglio: questa è speranza.

Sentire che la meta è già dentro di te se non la cerchi da solo: questo è amore.

Fede, speranza e amore: il fuoco dentro di te che illumina la notte dei sensi aprendoti all’azione dello Spirito.

Attento però a non imboccare la via del protagonismo: è la direzione che accende in te la luce, non viceversa; ma non aspettarti nemmeno che faccia tutto Dio: la fiaccola deve protendersi verso la fiamma per potersi accendere.

Quando nasce il cambiamento? Quando ne avrai disperatamente bisogno.

La fede è mossa da un desiderio-speranza che si innesta su un fallimento-insoddisfazione: hai provato in tutti i modi, ma senza risultato, a risolvere il tuo problema con le risorse della ragione; ora provi a sperare che la risposta si apra nel percorrere un oltre che non conosci, ma che vedi vissuto da qualcuno nei cui occhi brilla una luce che ti affascina, segno che una risposta lui l’ha trovata.

Su questa fede puoi entrare nell’Oltre, nell’assurdo di scelte che, sulla base delle tue ragioni, mai avresti fatto, ma che, dai frutti, mostrano la loro validità e rivelano quindi la loro sensatezza. In questo modo la fede rifonda su nuove basi le tue ragioni e ti apre a una speranza più grande, verso cui cominci ad avviarti facendo scelte sempre più radicali.

Ma in che cosa hai fede quando hai fede in Dio?

La fede riposta in Dio è fede riposta nell’Amore.

Perché l’amore?

E perché Dio è amore?

Con le nostre scelte noi vogliamo confermare il nostro esserci e affermare il nostro essere.

Ci sono scelte istintive che ci affermano a scapito degli altri e quindi non possono durare nel tempo, perché gli altri prima o poi rivendicheranno i loro diritti calpestati.

L’unica scelta in cui possiamo affermare noi stessi affermando allo stesso tempo gli altri è l’amore.

Che cos’è l’amore? Prendersi cura. Semplicemente. Tenendo conto dell’altro.

Se qualcuno non si fosse preso cura di noi, adesso non esisteremmo.

L’amore è stato scritto nelle nostre fibre dalle cure dei nostri genitori; lo abbiamo poi dato e ricevuto nel rapporto con gli altri per aprire e scoprire nuovi mondi; per alcuni di noi, infine, si è reso persona nel nostro essere a nostra volta genitori.

Nell’amore siamo stati e ci siamo costruiti: se togli l’amore rimane il Nulla.

Sentiamo che l’amore è la nostra natura, lo stampo in cui siamo stati creati, e ci rendiamo conto che essere è essere-con, ma, assieme, avvertiamo in noi una forza, impastata di paura, che ci fa preoccupare solo per noi stessi.

In chi avverte in sé questa guerra e non vuol cedere le armi, lasciandosi andare alla deriva, nasce l’esigenza di un riferimento che lo rifondi sulla propria verità, ossia sul proprio essere amore.

Un riferimento che non può essere lui a costruire, perché avrebbe tutti i suoi limiti e quindi a nulla gli servirebbe; un riferimento che si rivela in tutte le esperienze d’amore autentico, tutte assommandole e tutte rilanciandole verso un di più, perché di ciò che è bello, di ciò che ci fa bene non abbiamo mai abbastanza.

Questo riferimento ha dunque la caratteristica di essere amore e di essere infinito.

A esso l’uomo ha dato il nome di “Dio”.

Questo è Dio, non quello che ti costruisci tu.

 

Michele Bortignon


12/14/2024

L’orma del pellegrino: cap.3 - Il mondo alla rovescia

Mentre la chiesa parrocchiale sorgeva sulla sommità del colle che dominava il villaggio, la piazza del mercato era stata ricavata in una grande conca che si stendeva ai suoi piedi, in cui nessuno aveva fabbricato perché, nella stagione piovosa, l’acqua che vi si raccoglieva formava un pantano impraticabile.

In occasione della festa, decine di bancarelle offrivano i prodotti più svariati, in un bailamme di grida, di odori, di tinte, di sapori che eccitavano i sensi a concedersi di provare ogni novità.

Data l’ora, la maggior parte della gente si accalcava verso la grande tenda della cucina, davanti alla quale lunghe tavolate erano già stipate di persone in attesa dei piatti che alacri inservienti erano pronte a distribuire.

A delimitare la zona, era appesa una grande tela che a colori vivaci raffigurava le meraviglie del paese di Cuchagna, magistralmente illustrate da un cantastorie per intrattenere gli avventori. Gli occhi e gli orecchi di tutti erano attenti a cogliere ogni dettaglio di quel mondo paradisiaco di cui il pranzo nel quale stavano per immergersi era anticipazione e promessa, sacramento laico di un sogno impossibile.

«Il territorio del paese di Cuchagna è nascosto in un remoto angolo del mondo, che nessuna caravella spagnola ha ancora scoperto» iniziò il cantastorie sulle note di una nenia antica. «Noi abbiamo scalato laggiù montagne fatte di formaggio tenero, duro e mezzano. Credetemi: ve lo giuro! Non potrei dire una sola bugia, per tutti i tesori che la terra nasconde! Là scorrono a valle profondi fiumi di brodo, che sfociano in un lago di zuppa e in un mare di sugo. Vi si vedono andare e venire barche di pasta sfoglia, i cui marinai calano reti di salsicce intessute di trippe di vitello con le quali pescano gnocchi, frittelle e polpette. I pendii dei monti son fatti di burro fresco e tenero, e sulle loro cime gli dei si dan da fare per nutrire gli uomini: alcuni grattugiano come neve il formaggio, mentre altri rotolano giù valanghe di gnocchi, che, rimbalzando sul formaggio, diventano grossi come botti. Devi allora sganasciarti le mascelle se vuoi riempirti la pancia con bocconi di tal misura! Altri dei tagliano la pasta e riempiono di lasagne pentole fumanti. Altri ancora, quando il brodo trabocca per l’eccessivo calore, tirano da parte i tizzoni e soffiano sulla schiuma. Insomma ognuno di loro si dà da fare a preparare le più gustose vivande, per cui da sotto si vedono dense nubi di vapore provenienti da mille paioli che borbottano appesi alle catene1».

Un lungo applauso omaggiò la conclusione della storia e l’arrivo delle vivande.

Per primi furono serviti i tortelloni di polpa di zucca con salsa calda al crespino, seguiti da salcicce di Navarra in crosta di pan di miglio, quindi quaglie alla castigliana con mostarda di melone, per finire con la torta di pan di Spagna ripiena di mandorle peste e scorzette d’arancia candite. Un generoso vino andaluso annaffiava i piatti, rallegrando gli animi e rendendo ardite le mani degli uomini, che non di rado si allungavano sulle rotondità delle inservienti.

Nel volgere di un’oretta, i canti di quanti avevano già finito il pasto, riuniti a capannelli, cominciarono a risuonare qua e là, incoraggiati dal passare di mano in mano di piccoli otri di pelle pieni di distillato di vinaccia. Altri avevano estratto i dadi, che veloci rotolavano sotto gli occhi avidi di quanti aspiravano a un bacio della dea bendata. Altri ancora si limitavano a bere ostinatamente, chi sprofondando nella più cupa tristezza, chi entrando in un circolo di inarrestabile ilarità.

Scoppiarono le prime zuffe, avviate da chi non si rassegnava alla propria sfortuna al gioco; molti erano accasciati sopra o sotto i tavoli, abbruttiti dall’alcool; qualcuno era andato ad appartarsi per godere di un fugace amore clandestino.

Seduto in un angolo, don Manuel guardava e non capiva.

Lui, così sempre studiatamente equilibrato, aveva, sì, sentito i classici latini affermare che “Semel in anno licet insanire”2, ma non ci si era mai trovato dentro.

Il suo imbarazzo doveva apparire abbastanza evidente, tanto che un tale, uno dei pochi ancora sobrii, gli si avvicinò con il proprio bicchiere ancora praticamente pieno, sedendoglisi accanto.

«Non le piace la nostra festa?».

«Non la capisco: non riesco a mettere assieme quel che è successo stamattina e quel che sta accadendo adesso. Sembra che il mondo si sia rovesciato, trasformandosi nel suo opposto. E la gente passa dall’uno all’altro con una naturalezza sconcertante, quasi con incoscienza».

«Ha la benché minima idea di cosa vivano queste persone lungo tutto il resto dell’anno? Fatica, dolore, paura, miseria. Un giorno all’anno possono fuggire da tutto questo. Taverna e vino sono la chiesa e la liturgia che danno accesso a un paradiso effimero, ma reale, fatto di cibo, gioco e sesso».

«E la Chiesa non cerca di cambiare le cose, o perlomeno di dare un senso a questa situazione?».

«La Chiesa? E dov’è la Chiesa? Qui, come quasi dappertutto, il vescovo non è residente e il parroco nemmeno. Diocesi e parrocchie non sono più funzioni, ma benefici da assegnare per il mantenimento di qualche nobile cadetto. Guardami, sono io qui il vicario del parroco: un contadino ignorante a cui è semplicemente richiesto di saper amministrare i sacramenti, presiedere la liturgia e la cui unica conoscenza teologica sono i dieci comandamenti. Dimmi tu cosa posso fare io! Chi potrebbe dire qualcosa, qui, sono i frati predicatori, che un po’ hanno studiato. Ma hai sentito anche tu stamattina: sono capaci solo di alimentare la paura per interesse. E così la religione non serve che a salvare dall’inferno quando si muore o a sperare in un miracolo quando le cose si mettono al peggio».

«Ma… e Cristo? Lui è entrato nella nostra situazione per insegnarci a viverla da Uomini!».

«Si… Cristo lo ricordano solo per i suoi meriti, da distribuire a sconto della pena per i peccati. Peccate pure - sembrano dirci, tanto ci siamo qui noi a cancellare tutto a buon prezzo. La Chiesa non è preoccupata di cosa facciamo, ma di come pensiamo. E allora noi pensiamo come dice lei e facciamo come diciamo noi. E così siamo contenti tutti».

«Contenti? Se la religione trasforma la fede in un formalismo, ruba alla gente il frutto del Vangelo: la pace, la gioia, la libertà interiore!».

«Sì, scusa, hai ragione: mi sono lasciato trasportare dall’amarezza. La nostra è una “contentezza” che lascia l’amaro in bocca. E’ come quando sei contento perché puoi bere fino a ubriacarti, e in quel momento ti senti padrone del mondo; ma poi, quando ti prende quel mal di testa che ti fa scoppiare il cervello, ti senti soltanto un coglione. Sei fuggito per un attimo, ma quando ritorni è peggio di prima, perché la caduta ti ha bruciato la speranza di poter volare».

«Che pena!».

«Veramente… Una pena infinita!». Battè i pugni sul tavolo e vi premette contro la fronte: «Dio! Dio… chi potrà restituirti a noi come Salvatore?!».


Una concitata discussione, sviluppatasi poco distante, attirò l’attenzione di don Manuel. «Andiamo a vedere cosa sta succedendo?», chiese al suo interlocutore. Avvicinandosi, cominciarono a distinguere le esclamazioni provenienti dal capannello di persone accalorate nel manifestare la propria approvazione a un tale, dall’aspetto più curato rispetto agli altri contadini, che stava esponendo animatamente il contenuto di un foglio che aveva affisso alla parete.

«Bravo!», «Giusto!», «E’ proprio quello che vogliamo!» gridavano i convenuti, accompagnando le parole con eloquenti gesti di rabbia contro il bersaglio di quella protesta.

«Guardate: i signori e i prìncipi sono l'origine di ogni usura, d'ogni ladrocinio e rapina; essi si appropriano di tutte le creature: dei pesci dell'acqua, degli uccelli dell'aria, degli alberi della terra. E poi fanno predicare tra i poveri il comandamento di Dio "Non rubare"; ma questo non vale per loro! Riducono in miseria tutti gli uomini, pelano e scorticano contadini e artigiani e ogni essere vivente; ma, per quest’ultimi, alla più piccola mancanza c'è la forca!»3.

«Cosa vuol dire?» chiese don Manuel al prete.

«Le terre che un tempo erano di uso comune, a servizio di tutti per praticarvi il pascolo, la raccolta della legna, la caccia e la pesca, i signori se le sono fatte proprie e guai a chi ci entra! L’unico “diritto” di noi contadini è di sopportare le angherie e le vessazioni di chi ci minaccia con le armi!».

Alzando le braccia e guardandosi attorno con fare imperioso, l’improvvisato predicatore ottenne silenzio. «Queste sono le nostre richieste» proclamò con voce stentorea indicando il foglio: «e dobbiamo essere uniti e concordi nel rivendicarle!». Quindi, soffermandosi nella lettura dopo ciascuna di esse per raccogliere l’approvazione del suo uditorio, enunciò gli “articoli di lamentela” dei contadini:

  1. Basta corvée: i servizi ai signori devono essere liberi e retribuiti

  2. Diminuzione dei canoni d’affitto e dei tributi fissi e occasionali

  3. Restituzione del diritto d’uso dei pascoli, dei boschi e della libertà di caccia

  4. Le pene devono essere applicate secondo diritto, non ad arbitrio dei signori

  5. Eliminazione del “mortuario”, il diritto dei signori di appropriarsi delle proprietà alla morte del capofamiglia

«Todo es para todos!»4 gridò, a conclusione della sua arringa, facendo scoppiare un’ovazione di plauso alle proprie parole.

Don Manuel e il prete del villaggio si guardarono l’un l’altro: era quello il modo in cui Dio stava rispondendo al grido di dolore del suo popolo?




1 Liberamente tratto e adattato dal cap.1 del “Baldus” di Teofilo Folengo.

2 Per un giorno all’anno si può anche fare i matti

3 Thomas Müntzer, Confutazione ben fondata

4 «Omnia sunt communia!» era il grido con cui in Germania Thomas Műntzer incitava i contadini alla rivolta.