Erano passati due giorni e don Manuel non era più uscito dalle mura del convento di san Domenico. Quel succedersi di provocazioni, attraverso tanti avvenimenti che quasi gli si accalcavano attorno, era troppo per lui.
Finora la vita gli si era presentata così chiara e così univoca attraverso le pagine di libri che dipingevano un mondo ben strutturato tra luci e ombre che delimitavano il bene dal male! Ma nelle situazioni che si era trovato a vivere negli ultimi giorni, male e bene sembravano giocare a nascondino, mettendosi l’uno nelle vesti dell’altro, così da rendere assolutamente inadeguati gli schemi che aveva a disposizione per distinguere l’uno dall’altro. E, a complicare il tutto, il cuore chiaramente gli suggeriva l’opposto di quel che la mente, applicando tali schemi, sembrava affermare.
«Sono venuto per capire» si diceva, «ma qui capisco cose che non posso riferire… se non voglio io stesso passare dalla parte dell’inquisito».
«Magari sei tu che sei sbagliato…» gli suggeriva una voce fastidiosa. «Sei talmente ingenuo da prestare ascolto al cuore? Pensi che, se fosse vero quel che ti dice, chi ne sa più di te non l’avrebbe già riconosciuto? Lascia perdere, non pensare, raccogli dati e basta».
Ma se subito questa voce lo tranquillizzava, il malessere tornava poi più forte di prima, togliendogli la pace. E, in mezzo ad esso, si faceva strada una voce più sottile, eco lontana di una Parola anch’essa ascoltata in antiche Scritture, ma al cui ascolto il cuore, e non solo la mente, aveva vibrato. E questa voce gli diceva: «Continua a cercare, ma cerca per capire, cerca per trovare, cerca per vedere».
Con questo desiderio nel cuore, don Manuel decise di tornare all’ospedale di Santa Lucia.
«Sento che non riesco a capire Iñigo se rimango ancorato a ciò che già so, a quello che ho sempre considerato giusto e normale» disse a Jeronima. «La sua storia mi sta risucchiando dentro di sé mettendo in crisi la mia. Una crisi che avverto dalla battaglia in corso dentro di me tra un vecchio che strepita perché non vuol morire e un nuovo che avanza calmo ma con decisione. Entrambi rivendicando di essere la verità».
«La mia specialità è curare i corpi» gli rispose Jeronima. «Per le questioni dell’anima è meglio che tu parli con Sança, che, oltre a essere la nostra madre spirituale, ha aiutato anche Iñigo nel suo cammino verso Dio».
L’anziana beghina ormai non si muoveva più dalla casa comune annessa all’ospedale. Tanti anni prima era arrivata dal reclusorio di Santa Margherita a Barcellona, per stabilire un beghinaggio anche a Manresa. All’inizio, l’esperienza intrapresa con alcune compagne del posto che si erano unite a lei era stata vista con diffidenza: che novità era mai questa, di donne che vivevano in comune cercando Dio in “santa conversazione” tra loro e con Lui, al di fuori di ogni celebrazione liturgica e della mediazione del clero? E poi la libertà di interpretare liberamente le Scritture lette nella lingua volgare! Ma presto questa diffidenza lasciò spazio al rispetto e alla simpatia quando si vide che la loro spiritualità si concretizzava nei più umili servizi di assistenza ai bisognosi: la cura dei malati, l’accompagnamento alla morte, l’insegnamento ai bambini poveri. Per la prima volta dei laici vivevano religiosamente, conciliando contemplazione e azione nel sociale: contemplativi nell’azione. Ben presto, con la loro serietà e competenza avevano acquistato una funzione sociale insostituibile, riconosciuta dalle autorità civili con specifiche concessioni di incarichi pubblici.
L’aspetto dell’anziana, quale apparve a don Manuel all’entrare tra i muri della sua stanza, mostrava che non si era certo risparmiata nella sua vita: il suo fisico asciutto parlava di un’incessante correre là dove c’era bisogno di lei. E che quel che le veniva chiesto lo facesse con gioia lo si indovinava dall’orientamento delle sue rughe, incise dal sorriso con cui incoraggiava i suoi malati ad affrontare la loro situazione senza perdersi d’animo.
E con quello stesso sorriso, sottolineato da uno sguardo vivace che i bianchissimi capelli rendevano ancor più luminoso, l’anziana si rivolse a don Manuel, dopo che questi le ebbe confidato il suo problema, «Perché non chiedi a Dio? Perché non parli direttamente con Lui?».
«Io lo prego, invoco il suo aiuto, ma… non ho mai pensato che Lui possa rispondermi!».
«Lui, come del resto anche il suo nemico che ti spinge al male, stanno già parlando in te. Quelle “voci” che si esprimono attraverso i tuoi stessi pensieri, suscitati da sensazioni ed emozioni, creando quella “battaglia” di cui mi hai detto, cosa credi che siano?
Anziché prenderne paura, comincia semplicemente a distinguerle e a capire di chi sono voce. Anche a Iñigo era successo lo stesso e stava vivendo la tua stessa confusione. La prima volta che mi parlò di sé mi confidò di una visione che aveva avuto.
Iñigo aveva un’immaginazione molto viva e gli piaceva tradurre in immagini le proprie sensazioni. Dunque, raccontava che, quando qui all’ospedale aveva cominciato la sua nuova vita di servizio, a volte vedeva accanto a sé, fluttuante nell’aria, una specie di serpente punteggiato di occhi luminosi. Non gli spiegai la sua visione (sapevo che Dio stesso gliel’avrebbe fatta capire quando fosse stato il momento!), ma voglio rivelarne a te il senso, perché mi sembra una profezia che può indicarti ora la strada che cerchi.
Nella Bibbia il serpente è un simbolo ambiguo: dà la morte (ricordi Adamo ed Eva diventati mortali per averlo ascoltato?), ma anche la vita (appeso da Mosé sul legno, guariva quanti avessero alzato a lui lo sguardo). Il serpente visto da Iñigo fluttuava nell’aria: non ti ricorda l’immagine dello Spirito, che scende dal cielo in forma di colomba o di lingue di fuoco? Dunque, qualcosa di spirituale. E’ coperto di occhi: uno sguardo che ti segue controllando tutto ciò che fai. Tutto questo non ti fa pensare alla Chiesa gerarchica, che può dar vita quando ti aiuta ad alzare lo sguardo a Cristo, ma dà morte quando pretende di sostituirsi alla tua coscienza? Dopo la visione che ebbe al Cardoner, in cui Cristo gli si mostrò in trasparenza nel volto del povero da restaurare a propria immagine, Iñigo capì, davanti alla croce del Tort, che questo serpente, nel suo tentare di sovrapporsi al Crocifisso dinnanzi al quale si era inginocchiato, era il demonio».
Don Manuel si sentiva annichilito: la visione di Iñigo, interpretata da Sança, gettava una luce così chiara, ma anche così scomoda, sulla sua situazione, che scegliere era doveroso, ma anche tanto difficile.
E, ancora, le voci tornarono a farsi sentire: «Ma sei matto? Cosa vai a sentire da questa vecchia visionaria?! Pensa alla tua carriera nella Chiesa: lì hai un ruolo, un posto in una struttura che da secoli media la salvezza di Dio. Vuoi ridurti alla nullità che è diventato questo eretico, inutile a se stesso e al mondo?».
L’altra voce non era nemmeno una voce, ma più una sensazione, come di una carezza calda che ti scioglie di commozione, come di una luce che penetra le tenebre dissolvendo il timore.
Don Manuel riuscì a distinguere, ma non a scegliere. La paura, con cui per anni aveva convissuto, imparando a chiamarla sicurezza, lo teneva ben stretto tra le mani. Sarebbe stato come uccidere suo padre. No, non poteva farlo.
Indovinando la lotta che si stava svolgendo dentro di lui, Sança rispettò il suo silenzio.
«Non temere» gli disse, «verrà il giorno in cui le lacrime romperanno i sigilli con i quali la paura ti ha bloccato il cuore. E la libertà ti renderà uno con il tuo Signore».
«A che serve la mia fede se non riesce a darmi la libertà di essere me stesso in ciò che sento fa bene a me e fa star bene gli altri? Dove sto sbagliando? Che cosa non riesco a capire?». Questo si chiedeva don Manuel uscendo sconvolto da quel colloquio. Non c’è fallimento più grande di vedere il bene e sentirsi impotenti a raggiungerlo.
«Dammi un segno, Signore. Così mi sento soffocare! Non so cosa fare, dove andare…». E intanto camminava a testa bassa, immerso in questi pensieri, senza una meta, disorientato nell’andare come lo era dentro di sé. Fu così che si trovò davanti alla cattedrale de La Seu. Alzò gli occhi e restò senza parole, affascinato dalla grandezza e dalla bellezza dell’edificio che si stagliava contro il cielo. Il sesto acuto dell’arco d’ingresso sembrava indicare la direzione, invitandolo a entrare.
L’interno era altrettanto maestoso. L’ampia navata centrale era delimitata da due file di altissime colonne, che in alto si diramavano nelle costolature di sostegno della volta.
Don Manuel chiuse gli occhi e le colonne divennero tronchi di alberi altissimi, ancorati al suolo da robuste radici, i cui rami si immergevano nell’azzurro del cielo.
Come vivevano quelle piante? Come avevano potuto crescere così alte, diritte, imponenti?
La terra su cui erano piantate non era che foglie morte, rami marci, sassi, vermi e formiche; eppure da qui ricavavano la linfa che la chioma, impastandola di luce, trasformava in nutrimento.
Spostandosi nel suo giro, attraverso una vetrata il sole lo colpì con un suo raggio; e la luce che gli penetrò dentro gli sembrò recargli un messaggio: «Tutto ciò che nella tua vita consideri morto, marcio, sterile, tutto quel che ti fa schifo e che ti rode dentro… quando lo innalzi a Dio, nella sua luce si trasforma: l’amore gli ridà senso, la speranza gli apre un avvenire, la fede gli offre una strada su cui camminare.
E’ questo rapporto tra la terra e il cielo a tenere in piedi l’uomo; ed è il rapporto con Dio di tanti uomini, gli uni accanto agli altri, a formare e a sostenere la Chiesa».
Don Manuel lasciò che quella luce gli scaldasse il cuore, a lungo, assaporandone la carezza. E capì che la direzione del cammino non occorre cercarla: nasce da sola in un cuore che ha gustato cosa gli fa bene.