1/13/2014

Gestire i malintesi

Quando c’è un diverbio con una persona a cui vogliamo bene, tendiamo comunque a leggere i comportamenti dell’altro in un modo che confermi l’opinione che abbiamo di noi stessi: se ho paura che l’altro non mi ami, li interpreterò come rifiuto; se ho paura che non mi stimi, li interpreterò come mancanza di fiducia in me. Ma sono tutti castelli che ci costruiamo noi: se sapessimo metterci nel cuore dell’altro, piangeremmo di commozione nel vedere quanto siamo amati e stimati.
Invece, con questa idea in testa -che l’altro non ci ami o non ci stimi- reagiamo aggredendolo o deprimendoci. E con queste reazioni costruiamo, rispettivamente fuori o dentro di noi, le condizioni per confermare il fatto che le cose stanno proprio come pensavamo. Ne ricaviamo la magra soddisfazione della vittima, che prova un sottile piacere nel sentire compassione di se stessa di fronte all’oltraggio del mondo, nel darsi come unica amica di se stessa di fronte all’abbandono del mondo: ma non è che un altro modo di soddisfare in maniera egocentrata e autosufficiente il proprio bisogno di affetto. Oppure l’altro sottile piacere di sentire che avevamo ragione, che nessuno ci fa fessi e noi sappiamo come stanno veramente le cose: un modo malato per consolidare la nostra autostima.

Confrontarsi con la realtà e le sue ragioni è difficile perché chiedere un chiarimento passa attraverso il mostrare la propria ferita e rendere così evidente il proprio bisogno, proprio nel momento in cui accusiamo l’altro di ferirci, di essere insensibile, di negarci quel che, secondo le nostre aspettative, avrebbe invece dovuto darci.
Ma, partendo da una diversa esperienza di vita, l’altro ha un diverso modo di esprimerci affetto e stima. E forse è proprio l’accogliere questa diversità, lasciarci riempire il cuore da un modo sconosciuto e inaspettato di rispondere al nostro bisogno, che può rompere quell’automatismo istintivo innescato dal fantasma di un’antica ferita che suscita l’ossessivo bisogno di una risposta nei modi richiesti da un io rimasto infantile.
E ci accorgeremo che questo doloroso passaggio di umiltà, di uccisione del nostro io con le sue miopi esigenze, ci apre a un mondo nuovo e vasto, in cui riceviamo proprio perché ci lasciamo dare e prendiamo quel che ci viene dato, abbandonando il filtro delle nostre attese e delle nostre preclusioni.

C’è da dire comunque che il problema non si risolve una volta per tutte soltanto perché se ne è preso coscienza: momenti di stress, il sorgere di difficoltà fanno riemergere quei problemi che dicono la paura di non ottenere il soddisfacimento del nostro bisogno.

Come possiamo aiutarci l’un l’altro? Se conosco l’altro, cioè se in qualche modo ho imparato a capire il suo bisogno, da parte mia posso comprendere le sue reazioni ed evitare di controreagire alla sua aggressività o depressione nel modo che confermerebbe l’ipotesi malata che ne sta alla base, per aprire invece un dialogo in cui portarlo a rendersi conto che tutt’altri sono i miei sentimenti di fondo nei suoi confronti. E’ questo un momento di massima gratuità, di scelta di fondarsi esclusivamente sulla propria solidità senza nulla pretendere, per il momento, dall’altro, in attesa che, grazie proprio a questo intervento, si ripristinino le condizioni per la reciprocità.

                                                                                                  Michele Bortignon

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