Quando c’è un diverbio con una
persona a cui vogliamo bene, tendiamo comunque a leggere i comportamenti
dell’altro in un modo che confermi l’opinione che abbiamo di noi stessi: se ho
paura che l’altro non mi ami, li interpreterò come rifiuto; se ho paura che non
mi stimi, li interpreterò come mancanza di fiducia in me. Ma sono tutti
castelli che ci costruiamo noi: se sapessimo metterci nel cuore dell’altro,
piangeremmo di commozione nel vedere quanto siamo amati e stimati.
Invece, con questa idea in testa
-che l’altro non ci ami o non ci stimi- reagiamo aggredendolo o deprimendoci. E
con queste reazioni costruiamo, rispettivamente fuori o dentro di noi, le
condizioni per confermare il fatto che le cose stanno proprio come pensavamo.
Ne ricaviamo la magra soddisfazione della vittima, che prova un sottile piacere
nel sentire compassione di se stessa di fronte all’oltraggio del mondo, nel
darsi come unica amica di se stessa di fronte all’abbandono del mondo: ma non è
che un altro modo di soddisfare in maniera egocentrata e autosufficiente il
proprio bisogno di affetto. Oppure l’altro sottile piacere di sentire che
avevamo ragione, che nessuno ci fa fessi e noi sappiamo come stanno veramente
le cose: un modo malato per consolidare la nostra autostima.
Confrontarsi con la realtà e le
sue ragioni è difficile perché chiedere un chiarimento passa attraverso il
mostrare la propria ferita e rendere così evidente il proprio bisogno, proprio
nel momento in cui accusiamo l’altro di ferirci, di essere insensibile, di negarci
quel che, secondo le nostre aspettative, avrebbe invece dovuto darci.
Ma, partendo da una diversa
esperienza di vita, l’altro ha un diverso modo di esprimerci affetto e stima. E
forse è proprio l’accogliere questa diversità, lasciarci riempire il cuore da
un modo sconosciuto e inaspettato di rispondere al nostro bisogno, che può
rompere quell’automatismo istintivo innescato dal fantasma di un’antica ferita
che suscita l’ossessivo bisogno di una risposta nei modi richiesti da un io
rimasto infantile.
E ci accorgeremo che questo
doloroso passaggio di umiltà, di uccisione del nostro io con le sue miopi
esigenze, ci apre a un mondo nuovo e vasto, in cui riceviamo proprio perché ci
lasciamo dare e prendiamo quel che ci viene dato, abbandonando il filtro delle
nostre attese e delle nostre preclusioni.
C’è da dire comunque che il
problema non si risolve una volta per tutte soltanto perché se ne è preso
coscienza: momenti di stress, il sorgere di difficoltà fanno riemergere quei
problemi che dicono la paura di non ottenere il soddisfacimento del nostro
bisogno.
Come possiamo aiutarci l’un
l’altro? Se conosco l’altro, cioè se in qualche modo ho imparato a capire il
suo bisogno, da parte mia posso comprendere le sue reazioni ed evitare di
controreagire alla sua aggressività o depressione nel modo che confermerebbe
l’ipotesi malata che ne sta alla base, per aprire invece un dialogo in cui
portarlo a rendersi conto che tutt’altri sono i miei sentimenti di fondo nei
suoi confronti. E’ questo un momento di massima gratuità, di scelta di fondarsi
esclusivamente sulla propria solidità senza nulla pretendere, per il momento,
dall’altro, in attesa che, grazie proprio a questo intervento, si ripristinino
le condizioni per la reciprocità.
Michele Bortignon
Michele Bortignon
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