Quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che
indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale: la vita
cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri (EG 10).
Quando invece la vita interiore si chiude nei propri interessi e non vi
è più spazio per gli altri, anche i credenti si trasformano in persone
risentite, scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e
piena (EG 2).
Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci
mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni
volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente
illuminata la fede per riconoscere Dio. Come conseguenza di ciò, se vogliamo
crescere nella vita spirituale, non possiamo rinunciare ad essere missionari.
L’impegno dell’evangelizzazione arricchisce la mente ed il cuore, ci apre
orizzonti spirituali, ci rende più sensibili per riconoscere l’azione dello
Spirito, ci fa uscire dai nostri schemi spirituali limitati.
Contemporaneamente, un missionario pienamente dedito al suo lavoro sperimenta
il piacere di essere una sorgente, che tracima e rinfresca gli altri. Può
essere missionario solo chi si sente
bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri.
Questa apertura del cuore è fonte di felicità, perché “si è più beati nel dare
che nel ricevere” (At 20,35). (EG 272)
Sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e che con Lui
è più facile trovare il senso di ogni cosa. È per questo che evangelizziamo. Il
vero missionario, che non smette mai di essere discepolo, sa che Gesù cammina
con lui, parla con lui, respira con lui, lavora con lui. Sente Gesù vivo
insieme con lui nel mezzo dell’impegno missionario (EG 266).
La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo
ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre
di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona
amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio
di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci
(EG 264).
Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni esperienza autentica di verità
e di bellezza cerca per se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva
una profonda liberazione acquisisce maggiore sensibilità davanti alle necessità
degli altri (EG 9).
Se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita,
come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri? (EG 8).
Sebbene questa missione ci richieda un impegno generoso, sarebbe un
errore intenderla come un eroico compito personale, giacché l’opera è prima di
tutto sua (EG 12).
Gesù vuole evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con
le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio (EG 259).
Uniti a Gesù, cerchiamo quello che Lui cerca, amiamo quello che Lui ama
(EG 267).
Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto
spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire
che ciò diventa fonte di una gioia superiore. La missione è una passione per
Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo. Quando sostiamo
davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo tutto il suo amore che ci dà dignità e
ci sostiene, però, in quello stesso momento, se non siamo ciechi, incominciamo
a percepire che quello sguardo di Gesù si allarga e si rivolge pieno di affetto
e di ardore verso tutto il suo popolo. Così riscopriamo che Lui vuole servirsi
di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato. Ci prende in mezzo
al popolo e ci invia al popolo, in modo che la nostra identità non si comprende
senza questa appartenenza (EG 268).
Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne
sofferente degli altri, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto
con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza.
Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e
viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un
popolo (EG 270).
Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di
illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare (EG 273).
Se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già
sufficiente a giustificare il dono della mia vita E acquistiamo pienezza quando
rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi! (EG 274).
Per mantenere vivo l’ardore missionario occorre una decisa fiducia nello
Spirito Santo, perché Egli «viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26).
Ma tale fiducia generosa deve alimentarsi e perciò dobbiamo invocarlo costantemente.
Egli può guarirci da tutto ciò che ci debilita nell’impegno missionario. È vero
che questa fiducia nell’invisibile può procurarci una certa vertigine: è come
immergersi in un mare dove non sappiamo che cosa incontreremo. Io stesso l’ho
sperimentato tante volte. Tuttavia non c’è maggior libertà che quella di
lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare
tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove
Lui desidera. Egli sa bene ciò di cui c’è bisogno in ogni epoca e in ogni
momento. Questo si chiama essere misteriosamente fecondi! (EG 280)
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