10/23/2022

L'idea della morte nel trascorrere dei secoli


Si sta avvicinando novembre, il mese dei morti. Perché è considerato tale? Noi, con l’illuminazione artificiale che rende indifferente operare di giorno come di notte, quasi non ce ne rendiamo conto, ma per i nostri antenati dev’essere stato angosciante vedere le ore di luce diminuire sempre più, quasi che il giorno stesse agonizzando, col terrore che le tenebre vincessero. La morte del sole e la morte dell’uomo sono state così sentite un’unica cosa, un richiamo l’una all’altra.

Se con la stagione autunnale è questa esperienza sensoriale a darci il senso della morte, i nostri antenati hanno sentito che è così importante averlo sempre presente che hanno creato altri modi (potremmo definirli dei simbolismi sacri) per renderci presenti a questa esperienza.

Me ne sono reso conto durante un recente viaggio in Toscana. Dal paese di Sorano ho percorso la “Via Cava” che porta alla necropoli etrusca: un sentiero di quasi un chilometro, in salita a tornanti verso la sommità del colle, scavato nel tufo per una profondità di 5-6 metri. Nel percorrerlo, la sensazione è di oppressione, di star penetrando nelle viscere della terra, di correre il rischio di rimanere sepolti vivi, a tener compagnia a quei morti dai quali ci si sta recando.

Una sensazione analoga, seppur non così intensa, l’ho provata qualche giorno dopo, salendo per un sentiero fiancheggiato d’ambo i lati da alti cipressi: due muri verdi che salivano compatti verso il cielo. E guarda caso, sono sbucato nel cimitero del piccolo borgo nel quale mi stavo recando. Coincidenza? Non credo: una stessa struttura simbolica si esprime in maniere diverse ma suscita le stesse sensazioni. Con quale obiettivo? Credo che il messaggio che gli Etruschi volevano far passare è che la vita è breve, e sfocia irrimediabilmente in una morte che toglie ogni illusione; è pertanto un’occasione da non sprecare, e vale la pena scegliere con oculatezza il modo di vivere il tempo che ci è dato.

A questa struttura simbolica il cristianesimo si è sovrapposto senza cancellarla. Probabilmente, in questi viali di cipressi che portano ai cimiteri l’ha mantenuta e ripetuta considerandola valida a livello estetico, non so quanto comprendendone il significato. La tensione del cristiano è infatti più ottimisticamente rivolta verso la risurrezione, non solo come opportunità di una nuova vita, ma anche come “pareggiamento di conti”, come esigenza di giustizia. Una volta superata la soglia dalla quale non si può più tornare indietro a cambiare le cose, ecco il giudizio. Mi ha colpito vedere, in due stanze attigue nel museo di Cortona, da una parte un dipinto di san Michele arcangelo che con la bilancia pesa l’anima di un defunto, dall’altra un’illustrazione tratta dal libro dei morti degli antichi egizi, dove il dio Osiride sta facendo esattamente la stessa cosa. L’idea della continuazione della vita dopo la morte non è un’esclusiva del Cristianesimo, ma una speranza/certezza insita nell’animo di ogni uomo. Direi, anzi, che sia alla base di ogni fede religiosa e ne fonda l’etica, intesa come via a un positivo realizzarsi di questa nuova vita.


Michele Bortignon





10/01/2022

Chiamati alla fede

Quando qualcosa ci ferisce, quando una disgrazia ci colpisce, facciamo esperienza di impotenza: crolla la nostra immagine di persone forti e capaci che ci eravamo costruiti quando tutto filava liscio, quando riuscivamo ad avere la nostra vita sotto controllo. Lo scontrarci con i nostri limiti può sfociare nella depressione o diventare occasione di incontrarci con quel Dio che vuole salvarci facendoci uscire dall’illusione dell’autosufficienza per entrare nell’esperienza della fede in Lui.

Confessarlo unico salvatore è scegliere di lasciare da parte i tentativi di gestire la vita e la storia dal nostro punto di vista (decidendo anticipatamente cosa è bene e cosa è male, cosa realizza e cosa impedisce la nostra felicità), per accogliere tutto quel che ci succede come luogo in cui Dio si fa presente per darci la salvezza (che è per l’appunto la costante esperienza del “Dio con noi”), come appuntamento in cui possiamo incontrare Gesù Cristo, inviato dal Padre in ogni occasione di sofferenza per darci la mano a viverla con Lui, con il suo Spirito, e farla così diventare benedizione, passo importante sulla via della nostra risurrezione da una morte che viene da lontano. Ed è primariamente questo incontro ad essere fonte di salvezza, non tanto la remissione dei sintomi del nostro male. «Sono guarita non perché si sia risolto il problema» mi diceva un’esercitante «ma perché ho incontrato una Presenza».

“Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9): Gesù è il mio Signore perché si è fatto me nella mia situazione, è sceso a incontrarmi nella mia incapacità di uscirne da solo; mi è stato accanto fino in fondo (fino a diventarne vittima!) nei miei errori, per liberarmene; ha aperto, con la sua risurrezione, la mia speranza in una vita nuova, non più condizionata dal male ricevuto e fatto o schiacciata dalla sofferenza. Quella di Cristo è una kenosis continua: in ogni avvenimento scende a noi per portarci a sé (cfr. Fil 2, 5-11).

Nella difficoltà, nella sofferenza che stiamo vivendo possiamo dunque credere che Dio ci è accanto per affrontarla assieme, nel suo Spirito (con fede, speranza e amore), e trasformarla così in evento di salvezza. A noi Egli chiede di accogliere nel discernimento le mozioni dello Spirito, che ci guida a incarnare il Cristo nella nostra vita, per essere con Lui ad agire come fa Lui.

Possiamo allora prorompere in un canto di gioia (seguendo l’invito dell’angelo a Maria: «Kaire!») perché non siamo più soli con la nostra fatica, la nostra sofferenza, ma la nostra fede contempla il Dio fedele al suo amore, alle sue promesse di liberazione, il Cristo che ci rende partecipi alla sua risurrezione. Anche se adesso ci sentiamo nella morte, pure ci guardiamo già risorti, credendo che, vissuta in Cristo, la nostra passione sarà dal Padre trasformata in fonte di vita vera; una storia, questa, che, a partire da suo Figlio, il Padre realizza con ogni figlio (“Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” Rm 6, 5); per questo la risurrezione di Cristo è l’annunzio che apre ogni morte alla salvezza.

 Quando, nella fede, scegliamo di vivere la nostra situazione di fatica, di sofferenza uniti a Cristo, cambia il nostro atteggiamento verso di essa, e ci sentiamo guidati dallo Spirito a darle un senso. Possiamo allora perfino esclamare: «Che bella occasione per fare…, per dare…, per crescere in…, per rendermi conto che…, per scoprire cosa c’è che non va in…». Un’occasione, dunque, in cui Dio ci chiama a scoprire il modo di trasformare la fatica in amore, la sofferenza in gioia, l’oscurità in luce, proprio come ha fatto Gesù, che è passato dalla morte alla risurrezione vivendo la propria fatica, la propria sofferenza e la propria oscurità nella fede, nella speranza, nell’amore.

 Nella fede non si pretende che il Signore trasformi la situazione secondo i nostri desideri (anche se è legittimo chiederlo!), e nemmeno ci si accontenta di un minimo da sopravvivenza, ma ci si attende da Lui la risurrezione: una trasformazione assolutamente inedita, che realizzerà il nostro bene più autentico… che sarà probabilmente diverso da ogni previsione, perché Suo, non nostro.

 Ma, soprattutto, nella fede il Signore vuol farci sperimentare una nuova relazione con Lui: a chi gli si affida, dopo il primo, fisiologico, smarrimento, Egli risponde facendogli sentire tutta la forza e il calore del suo abbraccio. Non si capisce, non si sa cosa succederà e cosa ci aspetta, ma ci si sente nelle mani di Dio. E questo ci basta. Nella fede diventiamo progenie di Abramo, che “per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, sperando contro ogni speranza” Rm 4, 20.18a).

 Michele Bortignon


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