4/15/2014

Il perdono

“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”
(Mt 5,11)

Perdono, lo dice la parola stessa: per-dono, cioè un qualcosa che si da gratuitamente, quel di più che si offre all’altro senza che questi se lo aspetti e senza aspettarsi qualcosa in cambio: sarà la gioia nel gesto del donare che ci ripagherà ampiamente del dono dato.

Come arrivare a perdonare, a non avere nessuna voglia di “fargliela pagare”, a non meditare nessuna vendetta, a non reclamare “pan per focaccia” o “dente per dente e occhio per occhio”?
L’essere centrati su se stessi, cioè mantenersi in equilibrio appoggiando saldamente il nostro centro su Dio ci permette di poter fare quel gesto di donare perdono.

Ma per quale strada? Dopo quale consapevolezza arrivare a perdonare?

Iniziamo dal punto di partenza di questo cammino interiore, e non solo, che ci porterà al perdono.
Prima di tutto è importante il bagaglio per questo viaggio, cioè quel terreno dove si è seminato il seme del perdono. Il perdono si semina in un cuore che a sua volta si è sentito perdonato e amato di un amore incondizionato.
Se mi sento amata, stimata, preziosa, perché Dio me lo ha fatto sperimentare attraverso delle persone concrete, o perché attraverso la preghiera -soprattutto contemplativa- ho gustato interiormente questo Amore, mi sento in pace con me stessa, mi voglio bene, mi accetto con i miei pregi e i miei difetti. Se ho imparato a volermi bene, a non avere una bassa autostima e, dal lato opposto, neanche a essere eccessivamente esigente con me stessa, ma so accettarmi e cerco di migliorarmi sentendomi principalmente amata e accettata da Dio, non ho bisogno di mendicare affetto, stima, sicurezza dagli altri.

Con questo zaino traboccante di amore, stima, affetto e perdono ricevuti, posso muovermi verso l’altro, verso chi, mentendo, mi ha offesa, incolpata, insultata.
Non ho nulla da perdere a perdonare, non ho nulla da difendere, mi posso umiliare, mi posso permettere di fare quel passo in più che l’altro non riesce a fare.

Se pongo il mio centro su Dio posso lasciarmi scivolare addosso il male ricevuto; le offese non riescono a toccarmi dentro perché, prima di reagire o sentirmi offesa, percepisco il male dell’altro, il suo bisogno di sfogarsi, le sue ferite mai risanate. In altre parole vedo nell’altro quello che, forse, un tempo ero pure io prima di essermi lasciata guarire da Gesù.
Se per prima mi sono lasciata perdonare da Lui, ora posso perdonare gli altri.

È facile perdonare chi mi è lontano, chi non vedo mai, perché lo posso fare a parole, a livello intellettivo, tanto poi quella persona è lontana e non devo rinnovare il mio perdono, non lo devo mettere in pratica quotidianamente; resta un bel proposito fatto a livello di testa.
E se il perdono devo regalarlo a un vicino di casa o a un familiare, dalla cui presenza non posso scappare? Qui il perdono “a parole” diventa concreto nei fatti. Qui sì devo entrarci con tutta me stessa, non è più solo questione di un proposito fatto, ma è sporcarsi le mani, è abbassarsi a lavare i piedi, è sperimentare a che punto sono nel mio cammino di umiltà, è portare la croce “«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23)” (il condannato alla crocifissione passava fra due ali di folla che aveva l’obbligo di insultarlo, calunniarlo, percuoterlo, sputargli addosso; e anche i parenti dovevano farlo).

E se devo perdonare chi non mi ha chiesto scusa e mai chiederà scusa? Chi non ammette che, magari, un po’ ha sbagliato pure lui? Chi non accetterà mai un chiarimento, un dialogo? Chi imperterrito continua a ferirmi e a vomitarmi addosso tutta la sua rabbia, tutto il suo malessere?
È facile in questa situazione perdonare a parole, sentendomi io la buona e la giusta e l’altro il cattivo, e incolpare chi non si apre, non accetta spiegazioni, non ascolta ragioni.
Sarebbe comodo fermarmi di fronte al muro che l’altro ha costruito e tornare indietro con la scusa che oltre è impossibile andare. È proprio ora, in questa situazione, che ho la possibilità di sperimentare la forza dell’amore. Se non faccio questo successivo passo di abbattere il muro, mi metto semplicemente a posto la coscienza dicendo a me stessa che ho fatto il possibile e che è l’altro che non si apre. Comodo, perché mi auto convinco che io sono a posto. Ma è qui che devo offrire quel super-dono, è ora che devo lasciarmi piano piano addomesticare dall’Amore.
Non si tratta assolutamente di un gesto enfatico ed eroico, non vi è trasporto verso l’altro. Non è l’amore romantico che trabocca dal mio cuore e invade l’altro: perdonare costa fatica, è un impegno, è un percorso che si decide di fare. È un mandar giù la saliva, è uno sforzarmi, e un po’ costringermi, è un chiedere la forza di fare il passo, di dire una parola che non sia di astio. È vincere contro il mio io che non vorrebbe abbassarsi, e poi sentire che Dio fa il passo con me ed è la Sua consolazione a riempirmi il cuore, a coprire le parole o i gesti di rifiuto che magari hanno ripagato i miei di incontro e di apertura.
A perdonare per primo è chi è stato ferito, non chi ferisce. Solo chi ha “parato i colpi” ha la forza di fare il primo passo, l’altro, chi “spara”, non ne ha gli strumenti, è troppo occupato a mantenersi in piedi, a restare a galla per riuscire a protendersi verso chi ha subito il suo attacco. Il primo passo non lo farà mai chi mi ha fatto male - è troppo spaventato da quel che ha fatto e dalle mie possibili reazioni -: deve farlo chi ha ricevuto il male, per creare il clima che può sbloccare la situazione e permettere all'altro di fare un passo.

Che cos’è che mi spinge a fare il passo oltre la metà campo per riallacciare un rapporto? È la libertà che solo il perdono può dare, cioè non far dipendere il mio agire dalla risposta dell’altro. È gustare la gratuità, sperimentare l’energia del perdono. È Dio che mi permette di capire un po’ di più quello che Lui da sempre fa con me e allora diventa un circolo che si auto alimenta: capire il Suo amore mi permette di amare, amare mi permette di capire il Suo amore.

Il trasporto del cuore non è necessario in un perdono autentico, perdonare costa fatica, è un impegno, è un percorso che si decide di fare. L'importante è che l'amore/perdono operi un allontanamento dalla paura, dalla rabbia, dall’amarezza e un avvicinamento alla pace. Questo è quel che compete a me. Poi il Signore potrà, per grazia, darmi anche gioia, che rende più facili le cose e magari porta anche al trasporto. Una grazia che nasce quando mi fa sentire che stiamo facendo, io e lui, la stessa strada.
Alla fine, forse potrò arrivare a ringraziare Dio per aver messo nella mia strada quella persona che con il suo modo di fare e di reagire mi permette di mantenermi nell’umiltà, mi aiuta a mettermi in discussione, a guardarmi dentro e a crescere nell’Amore.

                                                                             Maria Rosa Brian






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