11/19/2014

La sfida della diversità

“Se non sai con esattezza dove andare, rischi di trovarti altrove e di non accorgertene”
: questo detto vale anche per la spiritualità, ossia lo specifico modo di vivere il nostro essere cristiani.
Nella nostra relazione con Dio, con gli altri, con noi stessi, con le nostre attività, a che cosa diamo particolarmente valore? Che cosa caratterizza il nostro modo di amare, di credere, di sperare? Come sono fatte le onde che danno un profilo specifico all’elettrocardiogramma della nostra fede? Queste onde ci sono in ogni caso (a meno che non siamo come quei “tiepidi” di Ap 3, 16 che il Signore sta per vomitare dalla sua bocca), ma le abbiamo scelte oppure le abbiamo subite, assorbite senza chiederci se esprimono ciò che Dio ci chiama ad essere?
P. Davide Maria Turoldo ha inventato una nuova beatitudine: “Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione”. Non si tratta di essere per forza dei bastian contrari, ma di rendersi conto che la Chiesa non è una massa indistinta guidata dalla gerarchia, ma una comunità articolata in carismi, che la rendono operativa come un corpo ben compaginato, in cui ciascuno è indispensabile con la funzione che è chiamato a svolgere, nata e specificatasi nella sua personale storia di salvezza.
Con quali attenzioni, con quali accentuazioni viviamo il nostro carisma e la missione che ne consegue? Per i religiosi, la grande scelta era la vita attiva o la vita contemplativa, con una serie di differenziazioni interne e/o intermedie a queste due categorie; ma anche i laici, riuniti nei movimenti, si caratterizzano per modi specifici di vivere religiosamente la loro laicità.
Ogni spiritualità prende le mosse da un’esperienza fondativa che ha risposto alle sfide della situazione umana e sociale che il fondatore si è sentito chiamato ad affrontare, introducendo una variante significativa alla spiritualità che già stava vivendo.
E’ stato così anche per il Kaire, che nasce dalla spiritualità ignaziana, caratterizzata dalla centralità del rapporto con Cristo, vissuto in maniera personale –da amici, attiva –da compagni di missione, intelligente –nel discernimento.
Ma da questa spiritualità il Kaire si distanzia nel modo di essere Chiesa. Ad Ignazio appartiene uno strutturarsi gerarchico della Compagnia da lui fondata, che si inserisce nella struttura gerarchica della Chiesa per un agire organizzato a cascata, reso possibile dal vincolo dell’obbedienza. Un’organizzazione, questa, che a suo tempo è stata utile per intervenire con efficienza ad arginare le spinte centrifughe operanti al tempo della controriforma.
Il nostro tempo è però caratterizzato dal diffuso abbandono di una prospettiva religiosa condivisa della vita e dalla conseguente relativizzazione della ricerca spirituale. L’uomo contemporaneo vuol essere protagonista del proprio cercare – e questo è un aspetto da valorizzare -, ma la relativizzazione estrema rende ogni soluzione uguale alle altre, valida per il qui e ora di chi la sta vivendo, spesso nel disinteresse per il poi e per gli altri.
Ecco allora che il Kaire valorizza la ricerca personale in una riappropriazione creativa, adattata ai bisogni del presente, della tradizione della Chiesa: in altri termini, una fedeltà al passato che si coniuga con una fedeltà al presente. E tutto ciò si esprime praticamente nel protagonismo laicale. Chi vive nella spiritualità del Kaire è soggetto attivo di pastorale all’interno di una Chiesa che la sua azione spinge a diventare più ministeriale e meno gerarchica, come il Concilio Vaticano II° aveva prospettato.
Questo, finora, ha significato staccarsi da una dipendenza diretta dalla Compagnia per esercitare autonomamente il ministero degli Esercizi.
Se il distacco è necessario per esprimere una nuova identità, quello stesso Spirito che ha spinto perché ciò che era unito si diversificasse per creare una cosa nuova, spinge poi per rimettere in dialogo la vecchia e la nuova realtà così createsi per arricchirle l’un l’altra della rispettiva diversità, novità utile a ciascuna per ampliare i propri orizzonti. E sarà questo il momento in cui ciascuna, dalla propria disponibilità al dialogo, verificherà se è più importante ciò che ha costruito o l’essere con il suo Signore, libera da se stessa per seguirlo senza sapere dove. Non è questa la fede?

                                                                                                 Michele Bortignon

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