A volte sembra proprio che la
vita, o Chi per lei, si accanisca contro le persone addossando loro pesi
insopportabili. Davanti a certe situazioni c’è veramente da restare senza
fiato. Potrebbe sembrare normale e scontato uscirsene con un: «Perché ancora?!», a cui non c’è risposta, con il
rischio di trarre conclusioni nostre e tirando in campo un dio cieco e sordo
che punisce chissà quale colpa, o il caso infausto e impazzito che non lascia
scampo né spiegazioni.
L’accompagnatore stesso per primo
ne è scandalizzato e intimorito, non sa cosa dire e cosa fare… finché non si
lascia essere semplicemente amore, abbandonando giudizi e recriminazioni,
smettendo di cercare e volere soluzioni e spiegazioni.
Nell’ascoltare queste situazioni,
deve lasciare che la persona possa sfogare le proprie emozioni: la rabbia, la
paura, l’angoscia devono potersi dire, devono poter essere urlate, piante,
gettate addosso a Dio e a chi glielo sta rendendo presente. Una prospettiva di
speranza, fatta balenare troppo presto, fa sentire la persona non capita, non
accolta nell’immensità del suo dolore. Come pure certe frasi troppo
semplicistiche e scontate la fanno cadere nella rabbia e nella solitudine. «Non c’è bisogno che mi dici che Dio
mi ama, che sono forte, che imparerò chissà cosa da questo dramma che sto
vivendo. Ho bisogno di sentirlo questo Dio, di viverla questa vicinanza,
fisicamente ed emotivamente»:
questo è ciò che dice, più o meno verbalmente, chi sta in una sofferenza.
L’accompagnatore, attraverso la
propria accoglienza, muta e, al limite, espressa in qualche gesto, può
permettere alla persona di sentire che c’è un’Accoglienza, una Vicinanza a ciò
che sta vivendo; e così essa, pian piano, permette a Dio di starle accanto
senza più accusarlo e bestemmiarlo.
L’accompagnatore si fa dunque
tramite di questo incontro: è l’abbraccio di Dio, è mediazione di Dio. Di un Dio crocifisso e risorto.
Di un Dio crocifisso ho bisogno
per sentire che non sono solo e non sono il solo ad affrontare il peso di un
mondo che mi è caduto addosso. A questo Dio come me schiacciato e impotente
posso cominciare a parlare per capire con Lui cosa posso fare. Lui ha già
percorso questa strada, sperimentando che ogni morte vissuta con un po’ di
fede, con un po’ di speranza, con un po’ d’amore si apre a una vita nuova,
diversa, spesso insperata. E’ un Dio risorto! La speranza allora è questa: se
Lui, che ora è in croce con me, è risorto, io con Lui posso e voglio risorgere…
Una prospettiva, questa,
attraente ma comunque pesante per chi ha solo la forza di sopravvivere. E,
allora, “momento per momento…”. Non riesco a farmi programmi, a pormi
obiettivi, ma, “momento per momento”, posso pensare e fare quel piccolo passo
che è a mia misura su questa strada che, pur recalcitrando, voglio far mia
perché l’unica su cui intravedo una speranza. Quando si è dentro ad una
situazione che sembra senza soluzioni, è inutile
fare progetti a lungo termine; meglio, piuttosto, guardare alla cosa più
imminente da affrontare. Anche questa è speranza: non lasciarsi prendere
dall’angoscia del futuro, ma fidarsi di un Dio che in qualche modo, magari
incomprensibile per ora, è presente e accanto a me per aiutarmi a fare il
prossimo passo.
L’accompagnatore fa quello che è
nella sua capacità di fare ricordando bene che a ognuno compete il proprio
campo di azione: lui non può fare tutto, ma solo ciò che è nelle sue
competenze. Il pericolo è di voler strafare rischiando di non fare neanche
quello che è nelle sue possibilità e, allo stesso tempo, di far venir meno
l’aiuto di altri competenti in materia. Ecco allora che, spesso, il passo
successivo è semplicemente affrontare l’urgenza, riferendo la persona a
specifiche professionalità che possano dare una risposta ai problemi che si
trova a vivere; o, ancora, attivando una rete di solidarietà che possa
alleggerire il carico che la sta schiacciando.
Altre volte la situazione non è
così tragica, ma può comunque amareggiare e non avere prospettive d’uscita. Il
rischio è quello di sprofondare nella depressione, nella recriminazione, nel
desiderio di vendetta contro chi me l’ha creata.
Alzare lo sguardo è allora la
prima cosa da fare: c’è altro e c’è un Altro!
Il problema c’è, ma non è il
tutto della mia vita. A volte può bastare accorgermi che è una bella giornata
di sole, che non mi mancano l’ascolto e la parola di un amico, che dal mio
cuore e dalle mie mani sono uscite tante cose belle…
E poi ho con Chi parlarne: non è
già questo un sollievo? Poter contare su un Dio che mi dice «Non temere: io
sono con te» e con la sua vicinanza nutre in me la speranza, la fiducia,
l’amore…
Darmi tempo è la seconda mossa
appropriata alla situazione. Le emozioni violente e istintive influenzano le
prime ipotesi di reazione, per poi calmarsi e lasciare via via più spazio alla
razionalità, alla creatività, a una bontà fattiva e concreta, anche se pungente
per l’amor proprio. E’ un po’ un dare spazio a quella nostalgia di Dio che mi
riporta accanto a Lui, che mai si è staccato dal mio fianco, voce di sottile
silenzio che suggerisce al cuore in tumulto quel che è vero.
Infine, per riemergere è importante
prendere in mano la situazione e non sentirmene vittima impotente: pur tra le
macerie, decido cosa fare e lo faccio! La vicinanza di Dio è per rimettermi in
piedi a lottare, non un rifugio che mi evita di impegnarmi. Dopo aver
rinunciato a reagire d’istinto, posso pensare, per agire con intelligenza e
creatività. Una strada che si chiude mi obbliga a guardarmi attorno e mi fa
scoprire l’esistenza di altre che mai avevo considerato; e potrei arrivare a
“benedire” la mia disgrazia, che si rivela porta di accesso a qualcosa di
meglio. In ogni caso, lo spazio di protagonismo che mi ricavo mi fa sentire
vivo e alla guida della mia vita.
E, nel frattempo, decido anche di
volermi bene: regalandomi quel che rallegra onestamente il mio cuore o tornando
a impegnarmi in ciò che mi appassiona scopro che un Altro mi dona tanto altro
per rendere bella e piena la mia vita.
Maria Rosa
Brian
Michele
Bortignon
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