Non mi sono mai considerata una madre chioccia, cioè
troppo apprensiva, o troppo ansiosa.
Anzi, ho sempre pensato che amare
significa anche saper lasciare andare.
Forse però bisognerebbe sentire il parere dei diretti
interessati, ovvero dei miei figli...
Dopo un primo sguardo meravigliato da parte loro per
l'insolita domanda, ho avuto la conferma che effettivamente non sono una
madre soffocante… almeno su qualcosa
siamo d’accordo!
Mi chiedo ora: qual è la differenza tra l'essere madre e
l'essere accompagnatrice?
Se Dio ci è padre e madre significa che in sé ha entrambe le
caratteristiche di genere che distinguono l'essere genitore: ovvero
l'accoglienza, la disponibilità, la protezione, che distinguono la madre, e la
direzione, l'autorevolezza, la fermezza, tipiche del padre. Accompagnare
significa avere entrambe queste caratteristiche, dosate all'occorrenza; a dire
quando usare l'una o l'altra sarà il tuo sentire e il Suo Spirito.
La differenza, a questo punto, tra l'essere madre o
accompagnatrice non è differenza data da un “sentire materno”, ma da un “essere
chioccia".
Essere madre e non chioccia significa lasciare libero il
figlio, o chi accompagni, di fare le sue scelte: se vuole sbattere il naso a
tutti costi è libero di farlo; gli servirà, forse, più che avere chi lo ferma
in tempo anche contro il suo volere. Essere madre e non chioccia significa
indirizzare senza forzare: significa aprire strade senza ficcarci dentro le
persone; significa non anticipare i bisogni risolvendo i problemi, ma essere
disponibile ad affrontare insieme i problemi e le difficoltà. Essere madre e
accompagnatrice significa accettare anche le conseguenza di lasciare libero
l’altro, cioè di non essere immune dal dolore che ti coglie quando ti accorgi
che il figlio sbaglia. È doloroso quando ti rendi conto che non sta agendo per
il suo vero bene e capisci che non lo puoi fermare perché non vuol essere fermato o che non lo puoi
consigliare perché non sente ragioni.
Difficile dosare severità e dolcezza, vicinanza e giusta
distanza. Come distinguere il giusto consiglio dall’invadenza? O la giusta
premura dell’eccessivo coinvolgimento? Come capire quando “forzare” e quando
lasciar perdere?
Attenzione:
il rischio, sia con i figli che con chi accompagni, è di voler rispondere non a
un bisogno dell’altro, ma a una tua paura: di abbandono? Di essere bravo e
capace? Di essere il salvatore del mondo? Ma la via che Gesù ci addita porta
all'amore e non al successo; a dare, non a soddisfare i propri bisogni.
Le
persone vanno accompagnate, non tirate a tutti i costi. Soprattutto deve
esserci un desiderio da parte dell’altro, anche un piccolo germoglio, ma deve
esserci qualcosa. Sta all’accompagnatore o al genitore stuzzicare l’interesse,
ma se non c’è nell’altro quel minimo di volontà di camminare è inutile; forse,
semplicemente, non è il momento per quella persona, per quel figlio.
C'è una giusta distanza che permette di stare vicino senza
soffocare, che permette di affiancare senza tenere sempre per mano: è lo stile
di Gesù. Guardiamo a Lui, al suo modo di accompagnare. Vediamo nel brano dei
due discepoli di Emmaus la pedagogia di Gesù (Lc 24,13-35).
“Mentre conversavano e
discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro”.
Gesù affianca i due discepoli sulla strada verso Emmaus e cammina assieme a
loro. Percorre la stessa strada, gli stessi passi, la stessa polvere a sporcare
i piedi, la stessa afa, la stessa fatica. Gesù si fa raccontare, li lascia
spiegare («Che cosa sono questi discorsi
che state facendo tra voi lungo il cammino?») e solo dopo racconta e spiega
(E, cominciando da Mosè e da tutti i
profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui). Gesù
non li precede, sia nelle riflessioni che fisicamente, ma li affianca. Non
anticipa i loro bisogni, ma li lascia emergere. Non dà subito risposte, ma lascia affiorare domande.
Non consola immediatamente, ma lascia sfogare. Alla fine non chiede di restare, ma accenna ad andare
oltre e si ferma solo perché invitato (Egli
fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi,
perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto»). Solo se accolto e
chiamato entra “Ecco: sto alla porta e
busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui,
cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).
La giusta distanza nell'accompagnamento possiamo riassumerla
in un'immagine. È una scena ben nota a tutti. È quella di una madre/padre che,
lasciate le mani del suo bambino, lo incita a muovere i primi prassi, pronto a
sorreggerlo appena lo vede barcollare. Non gli tiene la mano, ma è veloce ad
afferrargliela appena lo vede in difficoltà.
Non è questa anche l'immagine di Dio con i suoi figli? Per un istante ti ho abbandonata, ma ti
raccoglierò con immenso amore.. (Is 54,7)
Alla
fine se hai agito con amore, se vuoi il bene di quella persona e hai fatto ciò
che in quel momento per te era possibile fare, non cadere in inutili pensieri
tormentosi. Ricordati: non puoi tendere la mano a chi non vuole afferrarla. E,
soprattutto, tieni presente che... Dio esiste, ma non sei tu!
Maria
Rosa Brian
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