9/04/2015

Lamentarsi o reinventarsi?

In un momento in cui la crisi economica fa perdere a tanti il lavoro, nemmeno dovrei lamentarmi di un semplice declassamento. Ma, si sa, ognuno sente il proprio di problema.
Ho attraversato il mio momento di accettazione solo esteriore, poi di rabbia e infine di lamentela, di brontolamento. Ma... si può continuare a vivere nella recriminazione? No: non è questa la promessa-chiamata di Dio, che in me vede un figlio che sa vivere nella gioia, nella pace, nella libertà interiore. E la strada per raggiungerle so che è quella della mia missione, del mio compito nella vita, in cui sono pienamente me stesso quanto più sono Lui per gli altri.
Sì: quando distogliamo gli occhi dalla direzione della nostra vita, le inevitabili difficoltà che incontriamo nel nostro percorso appaiono abissi aperti sul nulla del non senso.
Al presente contingente devo allora dare un senso, rendendolo costruttore del più vasto ambito che è ciò che sono chiamato ad essere. E ciò trasformando il disastro in opportunità, l'inciampo in esperienza di vita, la morte in risurrezione.
Il cristiano non è esente dalle difficoltà né dal loro impatto emotivo, ma, dopo la normale reazione istintiva, decide di accoglierle come sfida a un di più.
Il primo passo in questa direzione è capire che cosa mi ferisce nella nuova situazione.
Prima il lavoro era fonte di gratificazione e di autostima perché professionale, creativo, autonomo e responsabile. Ora mi trovo a esercitare mansioni ripetitive, banali, controllate e in cui vengo talora ripreso per punti di vista diversi sul come fare le cose.
Il secondo passo è quello di “redimere” questa situazione, ossia trasformare il negativo in positivo cogliendone le potenzialità. Il pensare che posso imparare pazienza, docilità, umiltà, obbedienza non mi dispiace, ma nemmeno mi soddisfa: sembra solo un premio di consolazione. E allora comprendo che questo secondo passo è solo psicologico: non c'è l'anima del cristianesimo, che è la Pasqua, il passaggio dalla morte al totalmente inaspettato e sovrabbondante della risurrezione, possibile solo quando si imbocca la via del farsi uno con Cristo. E, con Cristo, la sfida autentica è quella della libertà da se stessi per essere uno con gli altri.
Il rischio, come mi sta accadendo, è invece quello di ripiegarmi lamentosamente su me stesso occupandomi dei miei bisogni. Ora che mi è stato tolto il sostegno del senso della mia validità, saprò collocare la mia forza soltanto nell'”io sarò con te” di Dio? Questa domanda non ha senso per il cristiano: è suggerita dal demonio, che insinua la paura per la possibilità che ciò possa anche non accadere.
“Non ti ho io comandato: «Sii forte e coraggioso?» Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada” (Gios 1, 9), rammenta Dio a Giosuè che si pone i suoi dubbi di fronte all'entrata nella terra promessa. Giacobbe diventa Israele, “forte con Dio”, non perché ci prova, ma perché questa è la sua storia con Dio, quella che san Paolo chiamerà “elezione”. Si tratta allora di riconoscere che Dio c'è già nella mia vita per compiere ciò che ha cominciato… se io lo lascio fare, cercando di non porgli troppi ostacoli tenendomi aggrappato a ciò che soddisfa i miei piccoli bisogni, a ciò che tacita le mie piccole angosce. E allora decido semplicemente di essere fedele a chi mi è fedele, di essere radicalmente e per sempre con Lui, ricollocandomi al mio centro, sul mio punto di forza, in ciò che da senso alla mia vita, continuando ciò che è stato il meglio per me finora. Ogni tanto bisogna rifare questa scelta di Dio…! Certo, serve qualche taglio per liberarmi dalle illusioni del mio piccolo precedente benessere; ok, lo faccio, fidandomi che “sul monte Dio provvede”: c'è una salita da fare per verificarlo. Quel Dio che fa il primo passo per offrirmi la sua prospettiva, attende il mio primo passo per incamminarmi su di essa: soltanto allora c'è reciprocità, c'è relazione adulta, c'è la corresponsabilità di un cammino. E su quel monte, guardandomi indietro, vedrò che tutto questo avrà avuto senso, sarà stato il mio “meglio”, il solo modo in cui potevo rendere la mia vita bella e feconda di frutti.
Praticamente, per me questo significa passare dal considerare il mio lavoro come elemento costitutivo del mio io al porlo come elemento costruttivo della mia missione. Non dare importanza alle mie realizzazioni perché aumentano la mia autostima o ai miei errori perché la diminuiscono, ma a ciò che in esso vivo per sintonizzarlo sullo Spirito di Cristo. E in quest'ottica sì posso allora recuperare la valenza dell'umiltà, della pazienza, della docilità, dell'obbedienza che la situazione mi richiede, sentendole costruttive della mia identità in Dio, in vista della cristificazione della missione che mi è stata affidata.
Non voglio trovare la mia Vita in ciò che mi dà il mio lavoro, ma nell'essere unito a Dio in ciò che faccio. Basta dare la colpa agli altri, brontolare e lamentarmi (che è un autodistruggermi!); ce la vediamo io e te, Signore, in vista di quello che stiamo facendo assieme. Ti offro allora il mio lavoro come palestra di approfondimento della mia umanità, per donarla agli altri più ricca di esperienza concreta.

Parafrasando San Francesco…
Frate Leone, scrivi che, quand’anche tu realizzassi grandi imprese per il Regno di Dio, non è lì la perfetta letizia. Ma quando in ciò che stai vivendo accetterai con pace le difficoltà e le sofferenze che la vita pone sul tuo cammino trasmettendo pace attorno a te, scrivi che lì è perfetta letizia, perché farai vivere in te il Dio della pace e sarà Lui, proprio in questo modo, a costruire il suo Regno in mezzo agli uomini.


                                                                        Michele Bortignon

1 commento:

  1. Due piccole sottolineature.
    Prima:
    "...voglio trovare la mia Vita nell'essere unito a Dio in ciò che faccio...". Grazie, penso sia questo il segreto di tante vite nascoste, umili, semplici, ma ricche di questa forza interiore che riesce a dare un senso all'apparente banalità del quotidiano.

    Seconda:
    E guardando giù dal monte ringraziare perché , ciò che all'inizio sembrava duro, difficile, odioso, o peggio ancora insignificante, si rivelerà, alla fine, il miglior fertilizzante per dare frutto. Fede é ringraziare durante la salita prima ancora di arrivare, prima ancora di poter guardar giù.

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