Ogni due anni, cioè alla fine
di un ciclo di esercizi Kaire, per noi accompagnatori, puntualmente, si
presenta la difficoltà, unita all'incertezza, di partire con un nuovo gruppo.
Oltre alla difficoltà, più o meno evidente, di reclutare esercitanti, c'è
l'incertezza di non sapere fino all’ultimo momento se sarà un gruppetto esiguo
o un gruppo numeroso. Il desiderio di ogni accompagnatore, come quello di ogni
insegnante, è di avere una classe equilibrata: né troppi, né troppo pochi, e
mista: maschi e femmine; insomma vorremmo il gruppo perfetto.
Ma un gruppo Kaire non è una
classe e l’accompagnatore non è un insegnante.
Quest'anno, per non farmi prendere
dall'ansia dell'incertezza, ho giocato d’anticipo e la presentazione del
cammino Kaire l'ho fatta in primavera, prima ancora di finire con il gruppo
uscente. «Così avranno tutta l'estate per riflettere e poi chi sarà sicuro
partirà e io sarò tranquilla per tutto il periodo estivo»: questo è quello che
pensavo; ma non avevo fatto i conti con Dio.
Dei numerosi possibili
esercitanti, accorsi alla serata di presentazione, mi sono ritrovata con un esiguo
resto. E, più mi preoccupavo e mi davo da fare, meno ottenevo.
Io che caratterialmente sono
una che vorrebbe pianificare tutto per tempo, io che non vorrei lasciare nulla
al caso, io che tendenzialmente non mi prendo mai in ritardo, io che non organizzo
mai le cose all'ultimo minuto, ho dovuto fare i conti con l'imprevedibilità di
Dio e con un Dio a cui non sono mai interessati i grandi numeri, ma le singole
persone.
In effetti, la partenza di un
nuovo gruppo lo sentivo come un problema e come tale pretendevo che andasse
risolto a modo mio: per me era ovvio che il gruppo doveva partire e con un buon
numero di esercitanti. Ma non era un problema solo mio, anzi, non era nemmeno
un problema: è questo ciò che non avevo capito.
Aiutata a ricentrarmi,
riflettendo se la mia prospettiva fosse quella di dare esercizi per vivere oppure
quella di vivere in esercizi per darli se serve, ho capito che il Kaire
non è l’unico modo di accompagnare e che accompagnare non è l’unica mia
modalità per camminare con Dio.
Il numero degli esercitanti cambiava
qualcosa del mio essere accompagnatrice? Che cosa cambiava del mio camminare
con Dio se partiva un gruppo oppure no?
Il mio vivere con Lui, di Lui e
per Lui attraverso gli altri non cambia qualsiasi sia il modo in cui mi sentirò
chiamata a farlo. Accompagnerò sempre, anche solo chi mi vive accanto: è un mio
modo di essere. Certo che è destabilizzante riorganizzarmi in qualcos’altro e
mi chiedo: «Se non a dare esercizi attraverso il Kaire a cosa mi chiama?».
Nel momento in cui ho iniziato
a fidarmi e affidarmi a Dio, il problema non mi è più apparso come tale: era
tutto nuovamente in mano a Lui. Soprattutto
ero io ad essere nel palmo della Sua mano. Sì, ho capito che la cosa importante
era stare con Lui e decidere assieme a Lui; tutto il resto veniva dopo, era in
secondo piano.
Affido a Dio il mio timore, io
ci sono, desidero partire, ma basta, non me ne voglio pre-occupare, ma solo occupare
se mi verrà ri-affidato. Non era cambiato apparentemente nulla, se non la mia
disposizione d'animo e il mio atteggiamento interiore di fiducia e affidamento.
L'importante era Lui, camminare con Lui, non la strada che avrei percorso.
Quando si sta con chi ci ama e che noi amiamo, non è il luogo che conta, ma
l'essere presenti l'un l'altro.
Ecco, ero ritornata presente a
Dio, lo avevo nuovamente ricollocato al di sopra dei miei progetti, anzi glieli
avevo restituiti: erano “roba” Sua. Il senso di leggerezza e di libertà provata
era la testimonianza che avevo rimesso tutto al giusto posto, dando il giusto
peso alle cose. E, nel momento in cui ho smesso di aver paura di perdere
qualcosa, è stato allora che ho trovato ciò che avevo temuto di perdere.
Che cosa ho capito? Che con Dio
è inutile programmare e prendersi per tempo sentendo tutto il peso sulle proprie
spalle. Con Dio, un progetto, una attività non dipendono esclusivamente da me.
Quello che io posso considerare un buon risultato, perché segue la mia logica
umana, non è detto che sia un buon risultato anche per Lui. Ho capito che
accompagnare non è principalmente un servizio, ma un’opportunità che Dio mi dà
per crescere e le difficoltà sono uno stimolo a maturare umanamente.
Dio mi sta insegnando la
fiducia, la calma e il sapermi fidare e affidare; mi insegna a reinventarmi, a
ricentrarmi, a ridimensionarmi. Abbiamo sempre bisogno di un “ripassino” e lui,
volenti o no, ce lo fa fare.
È come se avesse voluto
ricordarmi che per lui sono importante perché sono io e non per quello che
faccio.
Solo se riusciamo a fermarci e a zittire il nostro io
impaurito riusciremo ad ascoltare la Sua voce di sottile silenzio che ci
sussurra: «Mi interessi tu perché sei tu, non per quello che fai».
Maria Rosa Brian
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