12/24/2019

Perché un bambino...


 “Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.”. (Is 9,6)
Il profeta Isaia parla di un bimbo nato tra noi: qualcosa di piccolo, indifeso, bisognoso di cure. Subito dopo ci rivela il Suo nome: qualcosa di grande, potente, che si cura di noi.
Se mi prendo cura di questo Dio bambino che nasce in me, lo sentirò crescere dentro di me sino a sentirlo vivere in me come Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.
In questo Natale del Signore, la domanda che ci siamo fatti, e a cui abbiamo cercato di rispondere, è la seguente: alla luce della mia esperienza qual è il nome che posso dare a questo Dio bambino che sta crescendo in me? Dio lo sento vicino a me come? Con quale nome e perché?
Ecco le nostre riflessioni:

In questo momento della mia vita sento Dio vicino come Principe della pace. Come la neve ammanta tutto di bianco, così Dio mi avvolge con un mantello di pace che copre e sovrasta tutto il resto.   Mariarosa

Io lo sento Padre per sempre: per sempre… se fossi Lui, certe volte mi lascerei perdere e andrei in cerca di qualcun altro più saggio e più posato di me, più coraggioso e più impegnato di me. Ma Lui ha scommesso su di me e continua a crederci. Mah…! Allora è vero che sei mio Padre!   Michele

Dio fa parte di me. Lo chiamerò" Signore della luce e della pace", perché è riuscito ad accendere in me una luce speciale, portatrice di pace profonda. Sì, io e Lui siamo una bella squadra!   Pasqualina

Signore ti sento profondamente e intensamente quando dentro di me crescono e maturano armonia e rispetto verso me stessa e chi mi circonda, la tua delicata presenza porta speranza e illumina il mio cammino come una fioca lanterna che non si esaurisce mai....costante, presente, dolce amica. Come non ringraziarti e amarti e sentirmi amata.   Anna

Il suo nome sarà... Amico e fratello fidato, autista impareggiabile, Dio della Provvidenza, Re dell'Amore.   Renata

Mi piaci, sei in gamba, non arrenderti, mi fido di te, coraggio, ti amo. Il volto di Dio si nasconde nei molteplici abbracci, negli sguardi, nel mio fare per o nel lasciarmi accompagnare. Esso è un neonato da custodire, un bambino da educare, un ragazzo da accompagnare o un uomo da riconoscere nella sua identità. Sono le istantanee della mia vita in cui Dio era lì accanto a me. Sono io che, riempita di Lui lo porto agli altri. Per me Dio è Vita vissuta.   Katia

Penso, chiedo, cerco il suo nome dentro di me. Poi mi accorgo che Egli è IL PRESENTE nella mia vita, è l'Emmanuel ed è qui, ora. Il sempre vicino.   Claudia

Questa è la nostra esperienza di Dio, questo è il modo in cui lo sentiamo vicino a noi in questo Natale. E tu come lo senti nascere in te questo Dio Bambino? Di quale Dio hai bisogno in questo momento per rendere la tua vita serena e gioiosa?
Ti auguriamo di riscoprire Dio in quel Bambino.
Felice Natele del Signore!
Gli accompagnatori Kaire e gli amici dei gruppi “Tameion” e “Kaire ogni giorno”.




(foto: presepe di contrà Bariola a Valli del Pasubio)

12/01/2019

Scegliere


Qual è il bene più prezioso dell’uomo? La sua vita, intesa come luogo in cui poter costruire la sua avventura umana. La vita come spazio per una storia, la sua storia.
Ma tu questa opportunità la sai cogliere? La differenza tra vivere e lasciarsi vivere è il sapere dove vuoi arrivare e quale strada percorrere. E quando la tua strada l’hai decisa, devi poi difenderla: pressioni di ogni tipo cercheranno di fartene deviare, subdolamente cercando di convincerti che stanno facendo il tuo interesse.
Pressioni-passioni: raggiungono il loro scopo quando ti manovrano illudendoti che proprio seguendo loro stai esercitando la tua libertà e che il progetto di vita che hai deciso è in realtà una gabbia da cui liberarti. Un’illusione che ti bevi come miele, perché piena di emozioni e di eccitazione e a cui tu stesso costruisci basi razionali per poter sussistere, tanto ti coinvolge.
Quando poi il tuo progetto torna a motivarti, vorresti riuscire a tenere tutto assieme, senza rinunciare né a questo né a quelle. Ma non puoi camminare contemporaneamente su due strade diverse: ti trovi a saltellare dall'una all'altra senza avanzare né sull'una né sull'altra.
Difficile scegliere la ragione quando le emozioni si rivestono di ragioni.
Ma puoi liberare la tua libertà con la fede basata sul ricordo: il tuo progetto non l’hai costruito a tavolino, né l’hai assorbito acriticamente dall'esterno, ma hai abbracciato delle verità che ti hanno emozionato e, messe assieme, hanno delineato la persona che vuoi essere. Ciò che è vero è bello. Metti dunque la tua fede nella Bellezza che vuol farti suo, dandoti emozioni più sottili ma persistenti, che trovano eco in ciò che sei e ti sostengono in ciò che vuoi essere.
Puoi rendere fedele la tua libertà risvegliando e rivivendo l’amore per la Persona in cui hai visto incarnate queste verità e hai capito che avvicinandoti a lei ti avvicinavi alla persona che volevi essere. Quando ami ti coinvolgi con tutto te stesso in una promessa di eternità. Non giocarti allora per lo sprizzare di una sensazione, ma nel calmo fluire della profondità dell’essere.
Scegli dunque dove vuoi stare. E lotta per difendere la tua scelta.
Lotta quando è il momento di lottare: in bilico tra l’assecondare o meno la tentazione, mettendone in atto i suggerimenti. Quando invece sono solo i pensieri a tormentarti, lasciagli fare il loro lavoro e tu fa il tuo: se è notte, dormi; se è giorno, occupati d’altro; ma non dargli corda, non entrare in dialogo con loro: ti sfiancano inutilmente cercando di farti sentire un mostro indegno unicamente perché li hai avuti. Ma il tutto si svolge solo nella tua mente, non nella realtà; e solo i fatti sono buoni o cattivi.
Tienilo sempre presente: sei fragile, ma sei libero. E la vera gioia sta nell'essere protagonisti del proprio sogno. L’alternativa è qualche sprazzo di piacere su un fondo di amarezza e banalità.

 Michele Bortignon

11/01/2019

Quando ci saltano i nervi


Proviamo a interrogarci sulle cause di certi scoppi d’ira che a volte, nelle relazioni con gli altri, non riusciamo a controllare.

Avere opinioni diverse è lecito, e se ci confrontiamo, aperti ciascuno a capire che cosa per l’altro è importante e a trovare un punto d’incontro, le divergenze sono gestibili.
Ma ci sono delle modalità manipolatorie che ci fanno saltare i nervi e ci trascinano sul loro campo a rispondere a tono e magari proprio per ottenere la vittoria a qualsiasi costo.
Succede di solito quando l’altro sente in pericolo qualcosa a cui tiene ma non ha argomenti per difendere le proprie esigenze. Tipicamente si tratta di bisogni di natura istintuale che, portati alla luce, si mostrerebbero incapaci di realizzare il suo bene anche domani, non solo oggi; il bene anche per gli altri, non solo per lui.
Bisogni che lo dominano senza mostrare il proprio volto, cosicché lui pensa di essere tanto più libero quanto più, invece, sente chiari, di pancia, motivi che si reggono però soltanto su una loro logica interna, che non regge a un confronto oggettivo con quello che è il bene autentico: come abbiamo detto, quello che è bene per me anche domani, non solo oggi; quello che è bene anche per gli altri, non solo per me.
Gli è più facile allora trovare vie di fuga dal confronto, che però gli diano la sensazione di avere in mano la situazione e di vincerti:
  • disprezzarti, deriderti e offenderti;
  • fare confronti, sottolineando le tue debolezze (ma anche tu… ma tu peggio…);
  • alzare la voce e cercare di prevalere col tono;
  • irridere la tua posizione, trattandoti da stupido o da esagerato;
  • portare il discorso lontano da ciò che si sta trattando, parlando di argomenti correlati ma secondari.

“Il diavolo scappa quando gli scopri il gioco”, si dice. Mentre il suo tentativo è invece quello di coinvolgerti nello stesso gioco: usare gli stessi mezzi che usa l’altro, possibilmente con più forza e più astuzia.
E se, invece, gli scoprissimo il gioco?
«Perché mi stai offendendo, deridendo, denigrando, perché giri il discorso? Dammi invece delle ragioni che io possa capire e mettere assieme alle mie per trovare ciò che è bene davvero! Se non ne hai, dovrò continuare per la mia strada e fare come ho deciso di fare». E glielo dico a voce bassa, con tono tranquillo ma deciso.

Questo, naturalmente, implica che tu per primo abbia chiarito a te stesso le tue ragioni. Non è facile, perché le stesse dinamiche inconsce che agiscono su di lui agiscono anche su di te. Inoltre, a renderti difficile affrontare il problema e preferire piuttosto lasciar perdere, sottometterti, rinviare ci si mettono i sensi di colpa e di abbandono: «Non dovrei ribellarmi, litigare con chi mi vuol bene e a cui voglio bene…; …poi ognuno se ne andrà per la sua strada e sarà un disastro; chissà cosa mi succederà se non faccio come dice lui!». L’ansia ti spinge a risolvere subito; ma ciò che è affrettato non viene dalla Verità che vuol fare verità.
Normalmente le prime analisi e soluzioni che ti vengono alla mente sono sbagliate, perché ispirate dalla rabbia che porta alla rivalsa o dalla paura che porta alla sottomissione. Queste forze ti vogliono vincitore o anestetizzato, non parte di una strategia che porta alla soluzione. Le riconosci perché senti soddisfazione o tranquillità, ma non pace.
Aspetta. Datti tempo. Ciò che non è da Dio perde la sua evidenza e sparisce.
Un po’ alla volta ti si renderanno evidenti le dinamiche malate che vi accomunano, tu e lui; non solo tu, non solo lui.
Tu continua a cercare di capire, a chiarire. 
Che cos'è importante per te, su cui non puoi transigere?
Che cosa è importante per lui, su cui puoi venirgli incontro?
Come ci si può dividere i compiti per affrontare il problema (ossia chi fa che cosa)?

Ciò che è vero sa rendere evidente la propria verità, però devi posarlo sul tavolo con delicatezza, quasi con noncuranza, a evitare levate di scudi a difesa dell’opposta posizione. E soprattutto, dal momento che difficilmente l’altro riuscirà a farlo, media tu la soluzione tenendo conto delle sue esigenze. Sentirsi ascoltato, tenuto in considerazione, lo renderà a sua volta disponibile.

                                                                                                 Michele Bortignon

10/01/2019

Cercasi colpevole

«È colpa sua! È stato lui/lei!» Fin dall’inizio, ancora nel giardino di Eden (Gen 3,12-13), l’uomo e la donna cercano di scaricare colpe e responsabilità sull’altro: c’è sempre qualcuno peggiore di me e più colpevole di me. Si tratta di un meccanismo innato di autodifesa che ci spinge sempre a trovare un responsabile, un colpevole, un capro espiatorio al posto nostro. Un capro espiatorio appunto, come si legge nel Levitico: “Aronne poserà entrambe le mani sul capo del capro vivo, confesserà su di esso tutte le colpe degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. Così il capro porterà sopra di sé tutte le loro colpe in una regione remota, ed egli invierà il capro nel deserto” (Lv 16,21-22).
È comodo e dà sollievo addossare tutta la colpa all’altro, farlo passare per un “mostro”, vederlo come tale e assumere noi il ruolo di innocenti. Siamo noi i buoni e dunque abbiamo diritto a un Dio che ci consola, ci coccola e ci dà ragione. Vorremmo un Dio che ci prende in braccio e ci dice: «Povero bimbo mio, ti hanno fatto la “bua”? Brutti cattivi, vieni qui che ti coccolo». Ma siamo sicuri sia proprio questo l’atteggiamento di un padre? E siamo sicuri sia proprio questo ciò di cui abbiamo bisogno? È questo l’atteggiamento che ci fa crescere come persone responsabili? Certo, non possiamo negarci il bisogno di essere consolati, ma un Padre, dopo questo primo momento di tenerezza, ti rimette in piedi e ti fa guardare alla situazione in cui ti trovi sì per colpa di altri, ma… anche per colpa tua, e ti invita a uscirne rinforzato in quei tuoi limiti e carenze che hanno provocato o acuito il problema, a uscirne cresciuto, avendone ricavato un’esperienza di vita.
Ogni caduta ci serve per rimetterci in piedi più esperti e maturi di prima; altrimenti a cosa serve? Dio non ci vuole a terra a leccarci le ferite, commiserandoci per il nostro triste destino, a lamentarci di come gli altri siano cattivi, ingiusti e ostili con noi, altrimenti questo sarà sempre il cliché che adotteremo in ogni situazione. Diverremmo persone lamentose, sempre pronte a incolpare il tempo, il governo, la società per tutto ciò che non funziona. Avete presente chi alla domanda: «Come va?» risponde: «Si tira avanti»? Ecco: questo è l’atteggiamento di chi ha rinunciato di vivere da primo attore la propria vita e, recitando la parte della vittima, si accontenta appunto di “tirare avanti”.
Dio ci vuole protagonisti con Lui della nostra storia, pronti a riconoscere i nostri errori e le nostre colpe. Riconoscerle prima di tutto con noi stessi: i primi con i quali dobbiamo essere sinceri siamo noi. Poi riconoscere le nostre colpe di fronte gli altri, saper dire: “Ho sbagliato, è colpa mia” e assumersene le conseguenze. Infine riconoscere i nostri errori davanti a Dio: Lui li conosce e li ha già dimenticati; il confessarli serve a noi, appunto per riconoscerli e tenerli ben presenti. Chi non ammette i propri errori è condannato a ripeterli; cambiare situazione, cambiare partner non serve; e diventerà sempre più difficile pensare che ogni altra situazione non fa per noi, che ogni altro partner è sbagliato.

Concludendo possiamo dire che non ci serve un capro espiatorio, non abbiamo bisogno di un “mostro” per farci sentire buoni. Ciò che ci serve è la capacità di guardare a noi stessi con onestà e sincerità e da questa capacità trarre l’energia per rimetterci in piedi, senza lasciarci schiacciare dalla colpa o consolare dal falso buonismo di chi ci compatisce e ci giustifica sempre.

A questo punto, diverso sarà anche il nostro atteggiamento verso chi si trova dentro un problema o una situazione di errore. Non commiserazione, ma, dopo la giusta comprensione, avere anche il coraggio di passare da antipatici, ma, per il bene che vogliamo alla persona, guardare assieme a lei, senza falso pietismo, i suoi errori e le sue responsabilità in quella situazione per aiutarla a uscirne più solida, libera, matura e pronta a riprendere in mano la sua vita con gioia, pace e libertà.

                                                                                                          Maria Rosa Brian

8/31/2019

Alpinismo e spiritualità


Durante le mie ultime vacanze ho passato qualche giorno in Val di Funes. Nel centro visite del parco Odle Puez una delle installazioni mostrava un’intervista a Reinhold Messner, nativo di quella valle, in cui questi parlava, tra le altre cose, di filosofia dell’alpinismo.
La cosa ha subito attirato la mia attenzione: l’alpinista che sono stato si è messo in dialogo con l’accompagnatore spirituale che sono ora, trovando nessi e parallelismi tra alpinismo e spiritualità.
Uno pensa che arrampicare sia semplicemente salire una parete; o che avere una vita spirituale sia semplicemente avere una relazione con Dio. Ma perché, e, conseguentemente, come lo si fa?
Iniziamo dall’alpinismo.
Nel secolo scorso si susseguirono, e parzialmente si sovrapposero, due forme di alpinismo: l’alpinismo eroico e l’alpinismo sportivo.
Per l’alpinismo eroico l’obiettivo era la conquista della cima, anche a costo della vita. In quest’ottica, la montagna era solo un supporto della cima e dell’affermazione di chi la saliva.
Per l’alpinismo sportivo (penso soprattutto al suo rappresentante più puro che fu Paul Preuss) arrampicare non è una “lotta con l’alpe”, ma una danza sulla roccia, in cui voglio riempire di bellezza ogni mio gesto all’interno della bellezza che mi circonda. Per questo, rischiare fino alla morte non ha senso, ma si cerca la sicurezza (Preuss diceva che si può salire solo dove si è poi in grado di scendere). La montagna è una controparte non da vincere, ma da rispettare, per cui passo unicamente dove mi lascia passare, senza forzarla con mezzi artificiali. L’obiettivo non è più la conquista della cima ma la bellezza dell’esperienza che vivo in montagna.

La modalità “eroica” di vivere l’alpinismo mi richiama tanto la spiritualità in cui tutti siamo stati educati nel secolo scorso, dove modelli erano santi dagli inarrivabili esempi, martiri, asceti o comunque estremisti dello Spirito. E, più laicamente, gli eroi che si sacrificarono per la patria (ho ancora in mente le storie di Muzio Scevola, Orazio Coclite e Pietro Micca).
Il sacrificio era via alla perfezione, gratificato dall’approvazione sociale e religiosa.
Oggi la situazione è completamente diversa: chi si lascerebbe entusiasmare da una buona novella annunciata al modo eroico? E come si può presentare questo stesso messaggio a una coscienza frantumata dal relativismo, inconsciamente schiava della mentalità veicolata dai media, incapace di instaurare relazioni che non siano virtuali, che cerca il proprio piacere nell’attimo fuggente senza minimamente preoccuparsi del futuro, nemmeno del proprio?
Sarò cinico, ma bisogna saper aspettare che la vita dimostri l’inconsistenza delle sicurezze a cui questa persona si era appoggiata, avviando, nel conseguente disorientamento, una ricerca. In quel momento è importante che essa incontri un orizzonte di senso alternativo, ma che lo incontri vissuto, non solo proclamato. E vissuto come risposta a questi tempi, inculturato nel qui e oggi della storia.
In che modo? Qui forse ci viene in aiuto il parallelo con l’alpinismo sportivo.
L’uomo d’oggi non è più interessato a conquistare il futuro, ma a vivere il presente. In questo presente ha confuso piacere e bellezza e si è trovato deluso, confuso e scoraggiato.
Vogliamo provare a fargli riscoprire e gustare la bellezza? …cosicché cominci a sentire il desiderio di viverla nei suoi gesti, di raggiungerla e realizzarla con le sue scelte?
La Bellezza può essere un altro modo per cominciare a parlare di Dio a una persona che, nella sua diffidenza verso tutto ciò che sa di istituzionale, si metterebbe sulle difensive. Con la chiave della bellezza si può scandagliare nella vita ciò che è vero e vale la pena di essere vissuto.
Alla bellezza si arriva attraverso l’armonia e l’equilibrio, ma non senza una passione che chiama a mettere in gioco tutte le energie: non è più eroismo, ma uso sapiente delle proprie risorse in vista di una Vita di livello superiore.

Michele Bortignon

8/01/2019

Che cos’è il battesimo

Che cos’è il battesimo? Me lo sono tornato a chiedere in occasione del sacramento impartito alla mia nipotina Rebecca. Ma andiamo per ordine e prima proviamo a dire cos’è un sacramento.
Quando, in un momento particolarmente forte della vita, sentiamo il bisogno che Dio ci sia accanto per affrontarlo e, di lì in poi, per vivere ciò che ad esso consegue, la Chiesa ci si fa accanto per renderci presente Gesù con i gesti e le parole che Lui stesso farebbe e ci direbbe in quell’occasione. Uno di questi momenti forti è la nascita di una persona. Ad accoglierla non ci sono solo i genitori, ma tutta una comunità, che, nel sacramento, vuol renderla partecipe di ciò in cui essa crede perché l’ha sperimentato fonte di vita.
Sono i genitori, che di questa comunità fanno parte, a scegliere ciò che sentono bene per lei. Può darsi sia anche un adulto a chiedere di ricevere il sacramento. In entrambi i casi si tratta di una scelta, di una scelta di campo che inserisce in una ben precisa prospettiva, quella di Gesù. Una scelta che è alla base di tutte le altre, è il discrimine di validità di tutte le altre. Importante, dunque, chiarire qual è questa scelta.

Noi, in genere, cerchiamo di orientarci nella vita scegliendo ciò che ci sembra bene sulla base di quel che ci hanno insegnato e ci consigliano, dell’accettazione sociale di quel che facciamo, del piacere che ci procura, del soddisfacimento di bisogni che sentiamo impellenti. Non conseguire quel che desideriamo lo sentiamo come una  morte del nostro io.
Ebbene, Gesù, con la sua vicenda umana, più ancora che con le sue parole, proprio questo è venuto a dirci: se per affermare il tuo diritto a esistere devi far fuori un altro, non sei sulla strada della Vita. La Vita solleva sulle sue ali chi si fa uno con l’altro. Non solo per la bellezza di sentire che attraverso di te passa la vita, che diventa vita nell’altro, ma soprattutto perché la morte -scelta!- di quelle tue strutture esistenziali (la paura, l’egoismo, l’aggressività…) che ti arroccano a difesa di quel che tu pensi per te sia tutto, ti apre a un mondo nuovo, fatto di prospettive impensate perché mai finora percorse. E’ questa la risurrezione? Non una soluzione del problema, non ricevere una compensazione alla tua rinuncia, ma un affacciarsi improvvisamente su un panorama che ti toglie il respiro e ti riempie i polmoni di aria fresca. E tutto quel che prima ti occupava e ti preoccupava non ha più peso. Sì, c’è ancora, ma si affronterà, si risolverà… intanto immergiti in questa freschezza d’alta quota, nel calore di un abbraccio che ti contiene –vedi tu come vuoi esprimere questa novità che ha il peso e lo spessore della vita autentica, di fronte alla quale quel che cercavi, ossessionato e arrabbiato, si dissolve come bruma al mattino.
Respira. Gusta. Ringrazia. Sei risorto.
Hai scelto di morire sulla fiducia di Uno che ti ha dato fiducia.
Sei risorto perché la sua storia diventa storia di chiunque sceglie di vivere con Lui la propria storia.
Questo vuol dire San Paolo quando, parlando del battesimo, afferma: “Se siamo stati completamente uniti a Cristo con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6, 5). “Se dunque siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con Lui” (Rm 6, 8).
Un significato, questo, in cui il rito del battesimo ti inserisce attraverso elementi simbolici:
L’unzione con l’olio crismale dice che, prima di scegliere Cristo, sei tu a essere stato scelto da Lui come luogo in cui Egli vuol far vivere il suo Spirito.
L’acqua, nella sua duplice valenza di portatrice di morte e di vita, rimanda al passaggio che attraverso entrambe sei chiamato a compiere.
La veste bianca è il simbolo della vita nuova di cui sei chiamato a rivestirti.
Ora hai tutta una vita davanti per avventurarti a vivere quel che hai scelto, passando per grandi cadute, piccole conquiste, deserti di scoraggiamento e oasi di fiducia.
Non importa dove sarai in grado di arrivare (fuggi il desiderio di perfezione: Dio ti vuole con Lui, non come Lui!): Dio ti ha scelto, tu hai scelto Lui. Siete Uno: è questa l’unica cosa che conta.
                                                                                         Michele Bortignon

7/01/2019

Accompagnamento spirituale e accompagnamento psicologico

Nell’accompagnare le persone c’è una meta e c’è un modo, diversi tra chi accompagna spiritualmente e chi accompagna psicologicamente. Proviamo allora a capire come si differenziano accompagnamento spirituale e psicologico relativamente al cammino che propongono alle persone.
Che la persona inizi una psicoterapia, un counseling o un cammino spirituale, indipendentemente dalle motivazioni che ve la portano, il punto di partenza è probabilmente il medesimo: non sta bene con se stessa, desidera essere qualcosa che adesso non è. E qui incontriamo subito la prima differenza.
La psicologia cerca di capire con la persona qual è il suo orizzonte di riferimento per condurvela, per farla abitare in esso con una certa serenità. Classico è l’esempio della patata di Karl Rogers, che, nel buio, cresce verso la luce percepita. Ma ciascuno vede la propria luce, sulla base di quanto sente bene per sé.
Nella spiritualità, invece, l’orizzonte di riferimento è dato e unico: Gesù Cristo, che in sé mostra cosa significa essere persona, realizzando l’istanza più originaria dell’uomo: l’amore.
Anche nell’accompagnare verso la meta, psicologia e spiritualità si differenziano, ed è  importante tener presenti queste distinzioni in modo da non scivolare in linguaggi differenti dal proprio.
La psicologia fa leva sul binomio comprensione-volontà: che sia il capire come fare e farlo, come suggerito dalla psicologia comportamentista, o il coscientizzare i condizionamenti dei meccanismi inconsci per liberarsene, com’è l’operare della psicanalisi, in entrambi i casi la persona ha a che fare con delle idee e viene ricondotta alla propria esclusiva responsabilità nel gestirle. Anche in campo religioso questo approccio è comune e, anzi, finora il più utilizzato: c’è una legge, devi impegnarti a rispettarla.
Tra questo approccio e la spiritualità c’è la caduta da cavallo di San Paolo, in cui l’esperienza centrale è quella di un Dio che parla e muove l’agire dell’uomo relazionandosi con lui. Il suo non è un semplice dirti cosa fare, ma un fartelo sentire tuo: quel che Lui dice e opera fa vibrare la parte di te che senti più vera, la mette in risonanza con Sé e la eccita a diventare più grande di se stessa entrando in comunione con Lui. In una parola, è il suo Spirito che danza col tuo arrivando a un abbraccio che li fa uno.
Spiritualità è dunque questo dialogo fra persone, in cui le idee ci sono, certo, ma assieme ad emozioni, sentimenti, affetti, sensi; com’è in qualsiasi relazione umana tra persone concrete.
Nell’accompagnare spiritualmente, è bene dunque usare un linguaggio che inserisca la persona in questa dinamica e la faccia crescere in essa.
A questo scopo, la prima cosa da fare è eliminare il verbo “dovere”. Le cose non si fanno per dovere, ma perché affascinati, coinvolti, attirati a fare; a volte anche spinti con forza, quasi senza via di scampo: senti che Dio ti prende per lo stomaco e non ti lascia; qui sì devi scegliere, ma sempre nell’ambito di una relazione, non di fronte a un imperativo categorico. E’ Dio l’ispiratore e il motore delle nostre azioni, mostrandoci in Sé e facendoci vivere con Lui qualcosa di così bello e liberante che non possiamo non riviverlo spontaneamente nelle nostre relazioni con gli altri.Ecco allora che il dovere è sostituito dall’accorgerci di quanto Dio già fa per noi e con noi, gustarlo intimamente e lasciarlo emergere in ciò che facciamo. E’, questo, l’opposto della supponenza di chi crede di poter fare da solo. Il primo tranello, appena visto, era il credere che la volontà guidata dalle idee sopperisce alla motivazione; il secondo, che incontriamo subito dopo, è credere che la volontà può tutto. No: possiamo fare quando ci rendiamo “capaci” di Dio aprendogli le nostre incapacità, cosicché sia Lui a fare, in noi e attraverso di noi. Entrano perciò nel linguaggio altri verbi di relazione: chiedere, implorare, affidare, confidare, ringraziare, lodare. “Per grazia di Dio sono quello che sono” dice San Paolo (1 Cor 15, 10), “e la sua grazia in me non è stata vana”: il mio agire è frutto del suo agire in me.
Chi accompagna tesse dunque con pazienza la trama dell’agire della persona nell’ordito della relazione con Dio, cosicché l’uno nell’altra si motivi e sia reso vero, fino a che l’uomo si divinizzi lasciandosi muovere dallo Spirito di Dio e Dio si incarni nell’agire dell’uomo.

                                                                           Michele Bortignon

6/01/2019

La speranza. Per vivere da protagonista.


«Quanti esercitanti puoi accompagnare? Quelli per cui riesci a pregare». Così Ignazio. Ed è vero: la persona che accompagni, solo se ce l’hai nel cuore e nei pensieri, gestandola dentro di te come tua figlia, alla fine potrai partorirla tra le braccia di Cristo.

Stavo dunque pregando per una mia esercitante, provata dalle difficoltà della vita, che cercava di recuperare uno sguardo positivo sulla stessa. Perché, se ti lasci abbattere, con te cade anche tutta la tua famiglia.
Ma come aiutarla?
«Dovrebbe avere fiducia nella vita…», mi sono detto. O, meglio, in Chi ci aiuta a darle un senso. E questa si chiama fede.
La fede, però, uno non può darsela. E nemmeno è un dono, come qualcuno afferma: se tale fosse, perché a Lui sì e a me no? No: la fede è figlia della Grazia: quando mi sento amato gratuitamente, comincio a fidarmi di chi vuole il mio bene; e, passo successivo,  faccio mio il suo spirito, il suo modo di essere e di fare, sentendolo bene anche per me.
Ma non è facile scoprire di essere amati. Le disgrazie e le difficoltà, quelle sì le vediamo subito: ci scoppiano davanti riempiendoci di sofferenza e di paura. E ci bloccano nella commiserazione, nello scoraggiamento, nella depressione. Allora… è tutto uno schifo?
Eppure… se un po’ alziamo la testa, forse ci accorgiamo di una vicinanza, di un gesto o una parola amica, o almeno della Vita che comunque va avanti, portando anche tanta bellezza.
Eppure… se non guardiamo solo a noi, possiamo cogliere lo sguardo di chi conta sul nostro prenderci cura di lui; e il suo bisogno ci tira fuori e rafforza le nostre risorse, rendendoci solidi nella vita.
Questo “eppure” si chiama speranza. E’ il raggio di sole nella nebbia, è l’aurora che si fa spazio fra le tenebre, è la carezza che ci coglie di sorpresa, è la certezza interiore che altro ci aspetta.
La speranza è reattiva: muove. Verso dove? Lei non lo sa. Per questo ha bisogno di appoggiarsi alla fiducia, che sa benissimo con chi camminare.
La fiducia sceglie. Sceglie a chi affidarsi, in chi confidare. In chi, se non in quella forza, così reale da essere avvertita come una persona, che ci dice “Non temere: io sono con te!”, che agisce concretamente, e spesso inaspettatamente, attraverso chi ci è accanto, che ci spinge a rendere Vita l’esistenza?
Via via che la fiducia ricava un bene da questo suo affidarsi, la speranza da cui è nata si trasforma in certezza. Certezza che, alla fine, tutto sarà bene, perché non siamo più soli ad affrontarlo.
Ancora strariperanno le difficoltà, scrosceranno le disgrazie, soffieranno le avversità, ma quella casa non cadrà, perché ora è fondata sulla roccia.

Questa è dunque l’equazione delle virtù teologali:
Se mi sento amato, trovo che la vita ha un senso, e questo mi apre alla speranza.
La speranza abbraccia la fiducia per trovare una strada su cui camminare.
La fiducia non può che rivolgersi verso Colui che mi ha amato per primo.
Camminando con Lui, divento Lui e comincerò ad amare a mia volta.

C’è un abisso tra il vivere la vita da vittima e viverla da protagonista.
Ed è questo che cambia il mio modo di vederla.


                                                                                      Michele Bortignon

5/01/2019

Come vivere il presente tra paure, dolore e sofferenze



Desidereremmo tutti poter vivere una vita serena, tranquilla, senza problemi. Ma la realtà è un’altra e spesso ci troviamo dentro a situazioni, soprattutto di malattia, che ci rendono questa vita difficile, quasi impossibile e insopportabile. Quando il dolore fisico o psicologico invade la nostra vita coinvolgendoci in prima persona, quando gli attori principali del dramma siamo noi, la nostra reazione è di paura e di rifiuto. Ma questa reazione al male sarebbe un voler negare la realtà, un nascondere la testa sotto la sabbia e fingere che non ci sia il problema; d’altra parte non possiamo nemmeno permettere al dolore di farla da padrone e invadere tutta la nostra vita rovinandoci l’esistenza in modo definitivo. Correttamente dovremmo dire: «Il mio male c’è, ma io non sono il mio male; io non sono solo la malattia e la malattia non è tutta la mia vita». Ma come riuscire a rendere vita vissuta quest’affermazione di principio? Come affrontare la paura, il dolore e la sofferenza che questa mia malattia mi provoca senza lasciarmi travolgere dalla sua negatività?

Gesù mi dice semplicemente di credere in Lui; che non significa rassegnarmi, arrendermi alla malattia e non lottare, ma sentire che alla fine tutto sarà bene perché Lui è con me. E io con Lui faccio la mia parte, innanzitutto cercando risorse: guardo in faccia la realtà e  quello che la mia vita mi offre; con quello che ho a mia disposizione (intelligenza, energia, positività, voglia di vivere e di star bene) e con quello che gli altri mettono a mia disposizione (aiuto, capacità, intelligenza, energia, positività; il tutto riassumibile con il sostantivo amore), mi costruisco la vita migliore che posso. L’amore di Dio è la vicinanza di chi mi vuole bene, è l’aiuto degli altri, è un amico che si interessa, è chi offre le sue capacità, è chi si preoccupa per me e chi si occupa di me.

Ancora, l’amore di Dio è Cristo che ha liberamente accettato di vivere il dolore, la sofferenza e la paura, ha lottato e li ha vinti nella sua Pasqua. Posso allora decidere di vivere un atteggiamento interiore di fiducia e apertura verso Lui che mi insegna a percorrere la sua stessa strada. E con Lui scelgo di addomesticare il dolore, accogliere la sofferenza, allearmi la paura.

  • Addomestico il dolore. Lo vedo come ingrediente inevitabile di questa vita. Il dolore è selvaggio, non sai né quando arriva, né quando e se se ne va. Allora chiedo la forza a Cristo: Lui sa che cos’è il dolore. Gli chiedo di aiutarmi a non lasciarmi sopraffare da esso, a non permettere che il male riempia tutto il mio orizzonte.

  • Accolgo la sofferenza. La sofferenza è un male interiore. Sosto nella sofferenza, le parlo, le chiedo che cosa mi può offrire, che cosa mi insegna, come mi fa crescere, cambiare, evolvere.

  • Mi alleo la paura. La paura è forza vitale: mi salva e mi protegge. Ma, se sfocia nel terrore, mi blocca. E allora cerco di conoscerla per usarla come alleata nel proteggermi da ciò che potrebbe farmi male.

Dolore, sofferenza, paura sono sentimenti che mi possono servire se sono io a controllarli, mentre mi schiacciano e mi uccidono se mi lascio dominare da loro perché non ho imparato a conoscerli. Alla fine sono io a decidere se esserne preda o dominatore: la scelta è mia.

E, ancora, cerco di vivere qui e ora: non lascio che il futuro mi crei preoccupazioni (appunto pre-occupazioni) che sono solo ipotesi e probabilità. Vivere qui e ora significa gustare, accogliere, apprezzare quello che ho adesso, quello che vivo adesso: amore, amicizia, vicinanza, affetto, aiuto, ecc…; tutto il bello e il bene che c’è nella mia vita.
Guardo la strada dove metto i piedi, mi concentro sul passo che sto facendo, mi gusto il paesaggio che sto guardando. Solo questo passo. Ho l’energia per fare questo passo presente, immediato. Non consumo le mie forze a pensare a come ho fatto i passi precedenti o a come farò i futuri. Vivo qui e ora.

Quando il passato si fa invadente e soffoca il mio presente, non faccio altro che riconoscerlo, capire perché torna a invadere il mio “qui e ora”; cerco di capire di quali bisogni è voce, di quali ferite non rimarginate si fa eco. Guardando a Gesù, che vuol fare nuove tutte le cose, accolgo il suo perdono, il suo invito a perdonare e prima ancora a perdonare me stesso. A questo punto la smetto di recriminare e, invece, colgo e sottolineo la lezione che la mia storia mi porge. E lascio andare ciò che è passato. È passato e basta; punto a capo.

Quando è il futuro a farmi paura, mi rifugio tra le braccia di Dio e mi sento sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre (Sal 131, 2). Mi lascio cullare, contenere, proteggere; mi fido, proprio come un bimbo si fida di sua madre. Il futuro non lo posso controllare, non posso prevederlo; posso solo fidarmi. Fidarmi di un Dio con me, che non mi abbandona mai: se c’era nel mio passato, c’è nel mio presente e ci sarà nel mio futuro.

Tutto questo spetta a me interiorizzarlo e assimilarlo. La scelta definitiva è sempre e solo la mia; ma a Lui posso chiedere la forza dello Spirito per sentirlo e sperimentarlo DIO CON ME.


                                                                                                  Maria Rosa Brian





4/21/2019

Uno sguardo oltre le apparenze


“Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!” (Gv 20,2)


Quante volte guardiamo alla vita con gli occhi dell’abitudine, quante volte guardiamo e non vediamo, oppure vediamo solo la realtà del momento senza quello sguardo d’insieme che ci permette di capire. È stato così anche per Maria di Magdala, Pietro e l’altro discepolo: il loro era uno sguardo fermo all'apparenza, erano incapaci di vedere dentro alla realtà ciò che Gesù aveva loro detto più volte: che doveva morire e che sarebbe risorto il terzo giorno.
Partendo da questo versetto di Giovanni, ci siamo chiesti: quando nella nostra vita siamo riusciti a guardare una situazione di morte vedendoci dentro già una rinascita? Quando cioè l’esperienza di risurrezione di Gesù, o di persone che conosciamo o una "risurrezione" che abbiamo già sperimentato sulla nostra pelle, ci ha permesso di guardare oltre le apparenze con uno sguardo di speranza e aprire la via a una nuova risurrezione vedendola già in quella situazione di mancanza o di morte che stavamo vivendo. Nell'ultima situazione di morte che ho vissuto dove ho trovato Gesù che mi dava la mano per risorgere con me?

L’ultima volta che ho visto tutto nero e tutto sembrava scivolare nel disastro e nell'irrimediabile, mi è bastato alzare lo sguardo, lasciarmi abbracciare dal sole e lasciarmi dire dalla natura: “Alla bellezza non ci sarà mai fine perché io, la natura, mi rialzo e rifiorisco sempre”. Maria Rosa

Hanno portato via il Signore dal mio cuore e non so più dove cercarlo. È quando mi sento di avere una pietra al posto del cuore perché penso di non amare i miei figli come quando erano piccoli, perché la presenza di mio marito non mi emoziona come quando eravamo fidanzati. È quando attorno a me vedo tanta sofferenza. E mi chiedo cosa vale la pena nella vita. Ma un “angelo” mi ricorda: "Vale nella tua vita solo ciò che fai con Amore". Elisabetta

Quando il dolore batte duro facendomi sentire vecchio anzitempo, ascolto la Voce che mi dice «Guardati attorno: c’è tanto che dà bellezza alla vita. Vale la pena di cercarlo e lasciare da parte il tuo male». E mi accorgo che ho ancora tanto da dare e da ricevere. Michele

Basta poco! Un groviglio d’incomprensioni, aspettative, fatiche, silenzi, bisogni e ferite possono diventare muro alto e spesso e buio. Poi succede che un “angelo” mi si fa accanto e con me guarda dentro al sepolcro degli eventi e mi chiede cosa cerco, quali sono i  bisogni. E basta questo per far sgretolare una pietra pesante di separazione che allontana nelle relazioni personali. Sentirsi amati rende tutto possibile, anche risorgere. Tutto il resto a poco a poco si fa. Claudia

Ho trovato Gesù sotto il peso della croce metafora della sofferenza che stavo vivendo in questo periodo di vita, mi ha preso per mano sorridendomi, accompagnandomi lontano dai percorsi bui e tetri verso sentieri di luce divina ...Maurizio

In questa Pasqua del Signore l’augurio che vi facciamo è di uno sguardo che sa scorgere un germoglio di rinascita anche nei terreni e nelle situazioni più aride della vostra vita. Buona Pasqua!
                                                                                                           Maria Rosa Brian
                                                                                                                                     

4/01/2019

Anche a me serve un deserto?


Il deserto: per Israele, quarant’anni di cammino prima di entrare nella terra promessa con qualche speranza di vincere i popoli che vi erano insediati.
Una storia di guerriglie tra beduini vecchia di migliaia di anni, che, pure, continuiamo a leggere, scrutandone il significato.
Perché?
Perché anche la nostra vita è continuamente in cammino tra una situazione che non sopportiamo più (l’Egitto) e una che sogniamo (la terra promessa).
Ma quando questa terra promessa cerchiamo di costruirla a nostra misura, ci scontriamo con la “misura” degli altri e scoppiano guerre senza esclusione di colpi.

L’aggirarsi per il deserto per quarant’anni diventa allora metafora di un tempo intermedio, necessario per un cambiamento intelligente.
Innanzitutto, cos’è questa “terra deserta, arida, senz’acqua”?
E’ la disponibilità a mettere in discussione le mie soluzioni, quelle prospettive così “giuste” che -guarda caso!- per gli altri tali non sono.
Dura, ma necessaria, decisione quella di accantonare quel che mi disseta per cercare qualcosa che non so.
Il deserto diventa, così, tempo in cui far sbollire la rabbia, calmarsi e mettersi in ascolto, attendendo una Parola al di là delle piccole guerriglie che intraprendiamo per soddisfare i nostri piccoli interessi.
Una Parola che ci mette tempo ad emergere, ma, quando lo fa, si riconosce dalla pace che l’accompagna e che ti avvolge.

Il deserto è necessario per allontanarmi da ciò che preme su di me emotivamente, per riacquistare lucidità, freddezza di pensiero, oggettività. Nel combattere con l’altro sono le mie paure a guidarmi; con Dio, che mi porta a rifondarmi su ciò che è essenziale, posso guardare alla situazione con una prospettiva “dall’alto”, considerando non solo la delusione del presente, ma da quale storia assieme io e l’altro veniamo e verso dove vogliamo andare.

Con Dio riconosco i “demonietti” che gettano benzina nel fuoco del litigio: modi inadeguati di gestire la situazione rinfacciandosi vecchie colpe, ferendo l’altro nei suoi punti di fragilità, agendo una violenza fisica, verbale, psicologica.
Nel deserto si tace per pensare e si pensa… a volte per tacere.

Mi ritiro nel deserto per pensare un diverso modo di essere.
Ci vado con il mio Signore, per caricarmi di un diverso modo di essere.
Rientro poi nella vita, per sperimentare un diverso modo di essere.
Senza i due precedenti, quest’ultimo passaggio è azzardato e velleitario.
E che cosa sono i primi due se non la preghiera?

E dalla preghiera, che è questa comunione con Dio, che cosa esce?
Non una soluzione (era una soluzione al problema quella che cercavo!).
No: dalla preghiera esce una riconciliazione, perché la relazione viene prima di qualsiasi soluzione. Quando ci si mette in comunione con Dio, questa comunione diventa comunione con l’altro. Comunione, non sottomissione, non sopraffazione. Né vincitore né vinto.
Prima sì, prima volevo vedere vincere le mie ragioni, anche schiacciando l’altro; e l’altro faceva altrettanto con me.
Non voglio più giocare questo gioco.
Si può andare avanti mediando in modo intelligente.

A volte, però, c’è un muro.
Qui, a volte, Dio può aprirmi gli occhi su una prospettiva spiazzante: usare questa situazione per crescere umanamente.
E allora abbasso le armi e lascio che l’altro spelli vivo il Nemico che vive in me. E’ il mio battesimo: accetto che venga ucciso il mio uomo vecchio perché ne nasca l’uomo nuovo.
L’uomo vecchio che deve vincere per sentirsi qualcuno. Prigioniero del proprio io.

Chissà… un giorno riuscirò a liberarmi del mio io prima che lo faccia la morte?

Michele Bortignon



3/01/2019

Giudizio o fiducia: che cosa fa crescere?


Per capire se una cosa è giusta o sbagliata siamo soliti semplificare la realtà individuando delle situazioni standard con cui confrontarla. Ecco allora che, per esempio, la famiglia di riferimento è quella della pubblicità in televisione, e tutte le situazioni che da questa si discostano le sentiamo, se non sbagliate, perlomeno non proprio giuste. Con la conseguenza che chi vi si trova suo malgrado si sente oltretutto caricato di pesanti sensi di colpa e di fallimento.
Dal Vangelo sappiamo che chi classificava le situazioni per giudicarle erano i Farisei, ai quali Gesù contrappone una morale non dei casi, ma della persona: è bene ciò che realizza il bene della persona (“Non l’uomo è fatto per il sabato, ma il sabato per l’uomo”).
Gesù non stronca con un giudizio tutto ciò che è irregolare rispetto allo standard culturalmente condiviso, ma si chiede: «Come si può far crescere questa situazione verso un bene superiore, dove, cioè, vivano un amore, una fiducia, una speranza sempre più grandi, per condurre queste persone alla pace, alla gioia, alla libertà da ciò che le condiziona?». Egli sa andare al di là del giusto e dello sbagliato: la salvezza non è la situazione di chi è conforme a uno standard, ma il cercare di vivere nella fede, nella speranza e nell’amore la situazione in cui ci si trova.
La vita non è così facile da incasellare! Sull’Oreb, Elia riconosce che Dio non è come finora se l’era immaginato e con il mantello si copre il volto (che rappresenta la sua identità; ossia evita di giudicare) quando si rende conto che il silenzio è l’autentico luogo di Dio. Dio ti è accanto quando entri nel silenzio solo cercando di conoscere e di capire quel che è successo o che sta succedendo. Con uno sguardo di futuro guarda allora non al fatto in sé, ma a dove esso ti conduce, se come ti costruisce è ancora ciò che sei e che vuoi essere.
Anche la Voce di sottile silenzio che ti invita a non giudicare non giudica: non sei davanti a un giudice che continuamente ti classifica a posto o colpevole, per cui tu debba continuamente recuperare una perfezione che ti renda “accettabile”. Non è vita stare immobili per non sbagliare. Vita è provare per scoprire cosa succede se… e trovare dove la vita è vera e dove è illusione, comunque sapendo camminare alla giusta distanza tra un lasciarsi andare a un’istintualità incontrollata e una rigidità puritana che vede con sospetto la gioia suscitata da piccole cose molto umane.
Il Buddha pervenne all’illuminazione osservando il suonatore di uno strumento a corda intento ad accordarlo: se la corda era troppo lenta non produceva suono; se troppo tesa rischiava di spezzarsi; solo alla giusta tensione produceva il suono per cui era stata costruita. Il suono nasceva dal giusto mezzo.
Ecco dunque dov’è il giusto mezzo: se la tua vita produce una melodia, allora tutto ok; altrimenti, anziché spaventarti o deprimerti (le forti emozioni negative non vengono da Dio!), semplicemente pensa ad accordarla meglio.

Michele Bortignon

2/01/2019

Una vita di coppia… diversa?


La più grande causa di frustrazione nella vita di coppia è quando ti senti costretto dall’altro a vivere in una situazione che non ti garba: quel che per te è un fastidio, per l’altro è un piacere o una necessità; quel che per te è sbagliato, per l’altro è la cosa più giusta da fare; quel che per te è importante, per l’altro è un’inezia trascurabile.
Ti urta, ti fa incazzare quel che percepisci nell’altro come insensibilità, come mancanza di un po’ di volontà di venirsi incontro, come presunzione di possedere la verità; accuse che, naturalmente, ti vengono tal quali rivoltate contro dall’altro.
Certo, è un bel pensiero affermare che la diversità è arricchente…; ma quando per me questa diversità si presenta come assurdità? Addirittura come un farsi del male da parte di chi la sta compiendo?
Dopo aver tentato il tentabile, non c’è che il rispetto. Come Mosè che si toglie i calzari di fronte al manifestarsi del totalmente Altro, guardando al mio coniuge riconosco che totalmente altra rispetto alla mia è la sua storia, sono le sue esperienze, che, in certi aspetti della sua vita, lo stanno portando su una strada totalmente altra rispetto alla mia. In certi aspetti, non su tutto: attenzione qui al rischio di generalizzare, pensando che allora tutto sta crollando. Quello che crolla qui –ed è bene che crolli!- è la visione romantica della coppia come di “un corpo e un’anima sola”, perché il rischio è che uno sopraffaccia e l’altro si adegui, volente o nolente.

Ognuno ha diritto alla propria vita e l’interesse a una vita comune. Paradossalmente, allora, la vita in comune è migliore quando ciascuno si fa la propria; certo dedicando spazi alla condivisione e alle esperienze forti vissute assieme: è questo a costruire la coppia, non il banale stare sempre uniti. Uno sta meglio con l’altro se prima è stato bene con se stesso nel fare quel che lo appassiona o nel fare le cose come gli va.
L’errore è nell’aspettarsi che l’altro o l’essere coppia sia ciò che dà senso alla vita: se lo carichi di questa aspettativa, lui sarà stressato e tu deluso.
Ognuno deve avere il proprio baricentro in se stesso, non nell’altro o nella coppia - che questo baricentro si chiami Dio o sia il suo dio (lavoro, successo, soldi, religione, …).
Il rapporto di coppia è altro. Non è una tana in cui ripararsi, ma è un campo in cui coltivare le comuni risorse per farle fruttare all’esterno; è un luogo di conflitto in vista di una reciproca maturazione. E l’affetto è la forza centripeta che impedisce che queste due forze centrifughe facciano deflagrare la coppia. Questa dinamica relazionale si chiama “famiglia”. E’ nel fare famiglia che si crea unità, non in romanticherie appiccicose.

Se le cose stanno così, “let it be”: Devi liberarti dall’avere costantemente un progetto su come devono andare le cose e lasciarti portare dal flusso della vita. Let it be: lascia che sia. Lasciati sorprendere. Controllando ottieni la monotonia del previsto e attriti con chi non la pensa come te.
L’unico maestro sono le conseguenze. Ed anche l’unico discrimine tra la verità e l’errore. Abbi fiducia in loro. E magari potrebbero anche smentire la tua ipotesi! I conti si fanno solo alla fine, dal punto di vista di Dio, oggettivo, non dal tuo o da quello del tuo partner, frutto di esperienze diverse.
“Let it be” e lasciarti sorprendere… ok, ma non viene da solo. Quel che devi metterci tu è un sollevare lo sguardo e guardarti attorno. Non c’è solo il rapporto di coppia, che ora tu stai caricando della responsabilità di farti felice. Guardati attorno: non c’è solo quello! Al di là c’è la Natura, ciò che ti appassiona, tante persone a cui vuoi bene; e soprattutto c’è il mistero della vita (chiamalo Dio, se vuoi) che sta alla porta e bussa per aprirti al nuovo, al vero, al bello. La Vita ha tanto da offrire!
E’ partendo da qui che -forse!- potrai reintegrare l’amicizia con il coniuge: condividendo la vita che ti riempie. Semplicemente e solamente. Soprattutto senza aspettative. Se è vita vera saprà attirarlo, portandolo ad un modo di essere più vero. Probabilmente non il tuo e forse nemmeno il suo. Sarà una mediazione senza bisogno di mediare.
Perciò, non perdere tempo in recriminazioni, piagnistei e vendette: nutriti di tutto ciò che ti dà vita.


Michele Bortignon

1/01/2019

Aspettative, pretese, manipolazioni...


Ho sempre affermato, e ancora lo penso, che non aspettarmi nulla dagli altri mi permette di ricevere tutto come un dono e di vivere le relazioni con grande libertà e rispetto.
Se mi aspetto qualcosa in cambio, e ho delle attese o pretese sugli altri, alla fine, di sicuro, tali attese non saranno colmate e ne resterò delusa, con il rischio di recriminare ed esternare all'altro, magari in modo violento, che cosa mi aspettavo da lui. Quante liti e quanti diverbi, quante incomprensioni e disaccordi si potrebbero evitare eliminando le nostre aspettative sugli altri!
Ma non sempre tutto è così semplice! Ci sono aspettative che ho imparato a gestire, ad esempio non attendermi qualcosa in cambio per un piacere o un servizio fatto, non aspettarmi un “Grazie!” o un “Brava!”: ecco, il bisogno di conferma riesco più o meno a controllarlo. Diverso, e più difficile, è accettare che l’altro non faccia quello che io ritengo sia in suo dovere fare. Ci sono situazioni in cui vorrei che l’altro facesse la sua parte, quella che per me è giusta e che gli spetta. Gli spetta... appunto: è una mia aspettativa.
Ciò che mi aspetto dall'altro rientra nel mio modo di vedere le cose, nel mio normale modo di agire, che proviene dalla mia storia e dal mio cammino, non dal suo. Di sicuro vedere l’altro non agire come io vorrei mi lascia delusa, arrabbiata, frustrata. Parlandone assieme per capirci, nel confronto, l’altro porta le sue ragioni e motivazioni che, ovviamente, avendo lui agito in maniera opposta rispetto a quello che mi aspettavo, non corrispondono alle mie ragioni e motivazioni.
Ma le aspettative sono tutte uguali e tutte negative? Ne distinguerei due tipi.
Il primo tipo è la pretesa: io sono al centro e cerco in tutti i modi che l’altro faccia la mia volontà; la manipolazione si basa essenzialmente sul ricatto affettivo: ti do attenzione, affetto, stima, solo se fai come dico io.
Il secondo tipo è l’attesa: mi aspetto che tu svolga il ruolo che abbiamo, più o meno esplicitamente, concordato; il compito che ciascuno dovrebbe naturalmente svolgere all'interno di una collaborazione, di un’amicizia, di un rapporto di coppia perché la relazione funzioni. Riportarti a questo tuo compito con la mia aspettativa è farti crescere e assicurare che le cose tra noi vadano per il meglio; senza questo tipo di attesa non c’è relazione, ma disinteresse, freddezza, distacco.
Determinante è, dunque, capire di che tipo è l’aspettativa che abbiamo verso l’altro, chiunque sia: figlio, genitore, collega, amico, marito, ecc. E’ un’aspettativa che va a colmare i miei bisogni (stima, affetto, sicurezza) oppure è un’aspettativa che va a migliorare e far crescere me, l’altro e la relazione tra noi?
Nel primo caso mi chiedo perché sto ancora a mendicare stima e affetto; nel secondo, invece, prendo atto che la nostra relazione è più importante dei suoi personali e dei miei personali interessi. Accetto allora un confronto e uno scambio di opinioni e promuovo una progettualità comune. L’importante è spiegarsi, chiarirsi e accettare anche la posizione dell’altro come compatibile con la mia o trovare un compromesso.

Potrebbe però essere che questo compromesso non si trovi. Cosa fare allora? Insistere? Arrendersi? Gesù dice: “Se vuoi” (Mt 19,17.21) perché l’Amore ama e lascia liberi. “Se vuoi” è un invito, non un obbligo; è una proposta, non un’imposizione.
Gesù mostra in sé l’alternativa, mostra come si può essere in maniera diversa, credendo che un giorno la vita, con le sue prove, rivelerà qual è la verità.

   Maria Rosa Brian