Lo sappiamo che i nostri genitori, alla fine, ci lasceranno, che moriranno lasciando un segno indelebile dentro di noi. E tutti noi quel giorno vorremmo essere presenti, essere loro vicini, tenergli la mano e dire loro, per l’ultima volta, «Ti voglio bene», nutrirci delle loro ultime parole o dei loro ultimi sospiri prima di stringere la loro mano ormai inerme tra le nostre. Tutti vorremmo essere presenti nei loro ultimi giorni: accudirli e seguirli nei gesti semplici che i loro tanti anni rendono difficili. Vorremmo essere lì, seduti al fianco del loro letto, pronti ad accogliere ogni segno e ogni loro bisogno, vorremmo poter ricordare e ricambiare le cure che loro avevano per noi quando eravamo bambini. A me tutto questo, ora, è negato da un virus che non permette il più elementare ed essenziale gesto che ci rende esseri sociali: la vicinanza.
Non so come esprimere
l’impotenza accompagnata dalla lontananza, non so come spiegare o dire la
devastazione che mi abita in questi giorni di snervante attesa senza poter
consolare mio padre con la mia presenza.
Mio padre ha il covid19, ha
novant’anni, non è un vecchio: è mio padre. È in ospedale curato sicuramente
con tutta la dedizione e le attenzioni del personale, ma
non vede gli occhi di mia madre che è il suo angelo custode, non vede i visi
delle sue figlie, dei generi e dei nipoti. Il suo corpo è accudito, ma i suoi
occhi non sono nutriti con i volti noti e amati da una vita e questa cura
importante e necessaria non gli può essere concessa.
Mi sento inerme e impotente,
con l’aggravante di non poter vedere per sapere; il filo del dialogo è
interrotto dalla distanza a causa dell’isolamento. Isola: ecco la parola giusta
in questi giorni. Siamo isole che lanciano messaggi di fumo contro un cielo che
li inghiotte. C’è un linguaggio fatto di gesti, di mani che toccano, di occhi
che guardano e braccia che stringono che ora non ci sono dati e di cui ora
avremmo bisogno come l’ossigeno che questo virus si sta portando via.
Questo era il mio grido di rabbia e impotenza nei giorni dell’incertezza.
Mi sono chiesta spesso se oltre a una vicinanza fisica vi sia anche una vicinanza spirituale, un’unità di anima e cuore: è possibile pensare intensamente una persona e sentirsi con lei?
E poi: come essere vicina a
mio padre morente se le circostanze non mi permettono di esserlo fisicamente?
A un certo punto ho
abbandonato i pensieri rabbiosi fatti di “se, ma, perché” e ho abbracciato i
“voglio e posso”, aiutata anche da questa frase di Douglas Malloch: “Sii il
meglio di qualunque cosa tu possa essere”.
Voglio esserti vicina come
posso, papà, di più non posso fare. Lo posso nello spirito, lo posso in quel
Dio che è mio Padre e tuo Padre, papà.
Se Dio mi dice: “Io sono con
te”, lo dice anche a te, papà, e quel Dio diventa il ponte tra me e te. È lo
Spirito che ci unisce: è l’amore che circola, è la speranza che ci nutre e la
fede che diventa ossigeno.
Ecco che, durante una notte
insonne, il mio pensiero corre tra te e Dio e nell’invocare quel Dio e nel
pronunciare “padre” sento che questa parola così dolce ci rende una cosa sola,
ci fa unità.
Il giorno dopo, durante la
messa, sento che tu sei con me e lo Spirito diventa il ponte che ti fa essere
“presente” con me a quella messa. All’offertorio, sull’altare, metto la tua
sofferenza e lontananza. E il corpo di Cristo lo ricevo con te e in te, papà,
divento il tramite della tua ultima Eucaristia. Questa celebrazione, nella
domenica del battesimo di Gesù, diventa il tuo battesimo in Cristo: sei immerso
in Lui, avvolto nel Suo amore.
Poi… sei diventato tutto suo, tutto in Lui e tutto in me, in una unità che niente e nessuno mi potrà togliere.
Questo è diventato il mio canto di lode e di ringraziamento nei giorni della certezza che sarai sempre in me, papà.
MariaRosa Brian
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