Ed è proprio nel mistero della
verginità di Maria che mi voglio addentrare, per ricavarne un insegnamento per
noi oggi. Me ne ha dato lo spunto una frase di Sant'Agostino in uno dei suoi
sermoni (293, 1): “Prima la fede raggiunge la mente della Vergine, poi si
attua la fecondità in seno alla madre”.
La condizione della fecondità è
la fede, l’accoglienza della Parola da parte di un cuore che si rende vergine.
La fecondità è per noi e per gli altri: abbiamo bisogno che quel che facciamo
sia significativo, che costruisca bene in noi e attorno a noi, che renda il
mondo migliore di come l’abbiamo trovato.
Per diventare fecondi bisogna
rendersi vergini, abbiamo detto. Ma perché?
Ma il più delle volte così non è…
La realtà è complessa e va
affrontata con umiltà, senza la presunzione di sapere già.
Certo la novità, la complessità,
la difficoltà generano angoscia, che cerchiamo di sciogliere aggrappandoci alla
prima soluzione che ci sembra convincente. E qui entrano tante dinamiche che
finiscono per deviare le nostre decisioni.
La prima è quella del capro
espiatorio: anziché chiederci cosa fare per risolvere il problema, cerchiamo di
chi è la colpa per sfogare su di lui la nostra rabbia, per pretendere un risarcimento.
La seconda è il vittimismo: ci
sentiamo vittime di una diabolica macchinazione che opera a favore di
inconfessabili interessi, da cui ci difendiamo con il sospetto sistematico.
La terza è lo schieramento: ci
documentiamo sul problema, ma dando credito solo alle fonti che avvalorano la
nostra visione delle cose, trascurando il fatto che una teoria, per essere
scientificamente provata, dev'essere confermata con dati statistici.
Che cosa accomuna questi approcci? La mancanza di un’ipotesi alternativa: distruggono ma non propongono. Non portano una soluzione che abbia l’umiltà di fondarsi su sperimentazioni convalidate, su dati confrontabili; come se il buon Galileo non ci avesse insegnato nulla sul metodo scientifico.
E’ qui che entra in gioco la
verginità. Una soluzione al problema dobbiamo trovarla, se non in termini
generali, validi per tutti, quantomeno per il nostro inserirci in esso, per
capire come comportarci.
Abbiamo il diritto -e nessuno può
togliercelo!- di decidere per noi stessi, almeno fino al punto in cui le nostre
scelte non coinvolgono altre persone. Ma la nostra scelta, per essere moralmente valida, dev'essere presa con retta
coscienza. Ci si deve cioè rendere vergini, lasciando da parte le nostre
propensioni, e prendere in
considerazione le posizioni di chi può con competenza dire qualcosa sull'argomento
(e qui l’onestà valuta anche idee diverse dalla propria).
Guardando alle conseguenze su di
me e sugli altri che la mia scelta coinvolge, in coscienza, davanti a Dio,
prendo infine la mia decisione. In tal modo sarò altresì riuscito a motivarla e
quindi sarò anche disposto a pagarne il prezzo.
Una considerazione dev'essere fatta anche sul fatto che non tutte le nostre scelte possono essere “assolute”, ossia svincolate da ciò che ha democraticamente deciso la società in cui viviamo. Personalmente posso non essere d’accordo su certe norme che regolano il vivere comune, ma sono comunque tenuto a rispettarle. Democrazia è anche sapersi adattare alle scelte della maggioranza, quando non vanno contro la nostra coscienza in questioni fondamentali. Il preteso diritto a fare quello che vogliamo è figlio dell’individualismo esasperato di cui è impregnata la nostra cultura, che ci porta a fregarcene del fatto che viviamo in una società in cui dovremmo scegliere assieme il bene comune.
Michele Bortignon
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