12/22/2023

L'abuso spirituale

Approfitto di un fatto di cronaca per una riflessione che sento importante perché riguarda qualcosa che può succedere a ognuno di noi. In campo religioso, poi, non è infrequente a causa delle relazioni di fiducia che qui si instaurano.

Sto parlando dell’abuso.

A fine mese verrà definitivamente chiuso la comunità delle suore di Loyola, i cui fondatori sono stati riconosciuti colpevoli di abuso spirituale.

Come si arriva a una situazione del genere?

Innanzitutto, cos’è l’abuso? L’abuso si verifica quando uno pensa di possedere, e poter quindi imporre, la verità, anziché cercare di costruirla assieme a chi vuol aiutare.

Quando questa mentalità si insedia in una persona, un po’ alla volta va a giustificarne anche i suoi interessi personali, per cui questa usa gli altri per realizzare i propri progetti, per soddisfare il proprio piacere, per confermare la propria validità.

L’abusatore manipola instillando sensi di colpa e di indegnità, rifacendosi alla virtù dell’obbedienza. Faccio un esempio che conosco bene: «Tu non puoi dare gli Esercizi, perché per dare gli Esercizi bisogna avere le virtù e a te manca quella dell’umiltà perché non sei sottomesso».

Al contrario dell’abusatore, che si dà un sistema di giustificazioni per cui si sente sempre nel giusto, la sensibilità dell’abusato lo porta a pensare di essere lui la causa del disagio che sta provando, dei problemi sorti tra loro, per cui cade nei sensi di colpa. E, poiché nel frattempo si è creato un legame affettivo con l’abusatore, la prospettiva di spezzarlo è estremamente dolorosa.

A identificare gli inizi dell’abuso è un senso di soffocamento, nell’impossibilità di sentire che è bene per me quel che mi viene richiesto; in più, mi sento vittima di sottili ricatti che mi impediscono di muovermi dalla situazione che si è venuta a creare.

Come uscire dall’abuso? L’unica strada sembra essere quella della denuncia intelligente, come suggerisce santa Teresa d’Avila: quando ti sembra che il tuo confessore non riesca a capirti, confrontati anche con un altro, e che il primo sappia che lo stai facendo; in questo modo starà più attento a quello che dice.

Confrontarsi con altre persone… in tal modo posso anche escludere la possibilità che sia io nel torto: perché no? Potrebbe anche essere che mi sto costruendo castelli paranoici su situazioni esigenti ma sane, perché inconsciamente rifiuto di mettermi in discussione.

Invece, se è l’altro a sbagliare, potrò separarmene a ragion veduta e senza sensi di colpa.


                                                                                      Michele Bortignon


12/01/2023

Il sentirsi sbagliati

«Il male agisce in te, ma non fa parte di te». Accanto alla coscienza della misericordia di Dio, per uscire dall’influenza delle forze negative che condizionano il tuo agire è essenziale che tu recuperi il senso della tua “alterità” rispetto ad esse. Certo nascono dalla tua storia e dalla tua attuale vita, ma non fanno parte della tua personalità.

Queste paure, queste angosce che ti rovinano la vita non sono parte del tuo carattere -e quindi ineliminabili-, ma nascono da condizionamenti a cui puoi contrapporti!

La tua ombra è proiettata da te, ma non fa parte di te. Puoi allora assecondare l’azione della luce perché la dissolva. Se invece l’ombra fosse parte di te non potresti combatterla: distruggendola ti distruggeresti. Inoltre il senso della negatività del tuo essere ti renderebbe incapace di scoprire le risorse che hai a disposizione per combattere il male o, se anche le vedessi, le avvertiresti inadeguate e sopraffatte dal male che tu sei.

Poter dire che tu non sei questo male, che questo male non fa parte del tuo essere, ma ne è solo un limite, una catena, una prigione che ti viene imposta dall’esterno, ti ridà l’autostima e la fiducia in te stesso necessarie a costituirti almeno controparte di ciò che ti sta distruggendo, per combatterlo con ciò che Dio ti ha donato in te stesso: qualità, capacità, sensibilità da Lui fatte crescere nel corso della tua storia.

«Non sei nata buona o cattiva, ma all’interno di questa tua storia il tuo cuore, la tua affettività è stata terreno di lotta tra le forze del male e quelle del bene, fra l’azione di situazioni contrastanti:

  • alcune ti hanno ferita negandoti sostanzialmente la possibilità di soddisfare i tuoi bisogni fondamentali (sicurezza fisica, dignità, affetto, stima, ecc.), attraverso persone che ti hanno scaricato addosso le conseguenze delle loro paure e delle loro angosce, facendole entrare anche in te;

  • altre ti hanno fatto crescere costruendo, o ti hanno fatto guarire ricostruendo, questa possibilità attraverso persone che hanno saputo traghettarti nell’amore, nella fiducia, nella speranza che loro stesse stavano vivendo.

In un senso o nell’altro, tutte queste persone ti hanno trasmesso il loro spirito, il loro modo cioè di relazionarsi con la vita, che, malato o sano, influenza ora il tuo modo di agire, portandoti verso l’autodistruzione o la realizzazione personale, verso il tuo personale inferno o verso la vita eterna, la vita cioè vissuta in pienezza.

In quanto a te esterne, le varie forze possono influenzarti, ma non toglierti completamente la libertà morale: una volta riconosciutane dai frutti la negatività, fa’ nuovamente della tua scelta di seguire Cristo il punto di partenza per un cammino di liberazione concreta dai condizionamenti che esse tentano di importi.

                                                                                                               Michele Bortignon


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11/01/2023

Il linguaggio del corpo

Che cos’è amarti? Avere premure per te come nucleo di relazioni: non ti amo se non amo tutto ciò che tu ami.

Se per amarti ti separo da ciò che ami e ti faccio mia/mio, ti uso per me, come strumento per soddisfare i miei bisogni, questo non è amore.

C’è amore tra universi parzialmente sovrapposti, in cui c’è incontro e distanza. Nell’amore c’è spazio per tanti, perché tutti mi portano e ti portano qualcosa.

Qual è allora la differenza tra una relazione matrimoniale e le altre? La stabilità. Il matrimonio è una relazione stabile, a cui si resta fedeli non perché utile o piacevole, ma perché l’ho scelta e fatta crescere come parte di me.

Il dono che porta la stabilità è il crescere della capacità di rimanere nei problemi finché o li risolvi o cambi tu, senza fuggirne.

Da che cosa viene creata la stabilità? Essenzialmente da una vita familiare: casa, figli, parenti, riconoscimento sociale. I rapporti sessuali sono entrati a far parte delle esigenze della stabilità perché attorno ai figli, che in essi sono concepiti, si crea famiglia; e un genitore non può essere presente in più famiglie. I rapporti sessuali creano, inoltre, coinvolgimento emotivo profondo, desiderio di condivisione di ogni altro aspetto della vita. Sono dunque più tipici della relazione matrimoniale. Diversamente si creerebbe un doloroso “vorrei ma non posso”, un’attrazione verso una totalità che in altri tipi di relazione è impossibile da ottenere.

In che occasioni si parla col corpo? La corporeità crea o esprime emozioni, in vista di un’unione con chi sento prezioso per la mia vita. Dunque:

  • la uso ritualmente per creare unione in un saluto;

  • la uso quando sono io / è l’altro travolto da una forte emozione, che l’essere uniti aiuta a stemperare e ad affrontare;

  • la uso, in un impulso di tenerezza, per celebrare la bellezza del sentirci uniti.

C’è un linguaggio del corpo in cui i gesti possono dunque dire:

  • «ciao, sono contento di vederti»

  • «ti sono vicino»

  • «ti voglio bene»

Ma i gesti possono anche dire «Voglio ricevere da te piacere e dartene»; non nascono, cioè, dalla simpatia, dalla vicinanza, dalla tenerezza, ma dalla pulsione erotica, che, come abbiamo detto, di per sé è orientata a creare famiglia.

Quando allora voglio parlare col corpo, devo chiedermi: cosa voglio dire con i gesti che faccio? Il linguaggio che uso esprime ciò che voglio dire? Voglio davvero e sono in grado di sostenere la prospettiva che quel linguaggio simbolicamente sta creando?

E’ importante discernere, da una parte per non creare situazioni in cui uso chi invece vorrei amare, dall’altra per esprimere compiutamente coi gesti ciò che voglio dire, senza lasciarmi bloccare dal timore che possano dire altro.

Ma la scelta di usare quel determinato linguaggio si può dire corretta solo dopo averne verificato i frutti. Che cosa, dunque, ci dice che stiamo usando correttamente il linguaggio del corpo in quella determinata relazione? Il fatto che questa cresca arricchendo contemporaneamente anche le altre.

Se un gesto d’amore è vero, fa crescere nell’amore chi lo fa, che diventa così più capace d’amore con qualsiasi altra persona. Dove c’è concorrenza, dove una relazione cresce a detrimento di altre, nasce il sospetto che le persone si stiano usando, non amando.

                                                                                    Michele Bortignon

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10/01/2023

Quando l’ansia mi travolge

Voglio che sia finita: non sopporto l’idea che se ne andrà. E allora la lascio cadere, la lascio morire. Potevo tenerla ancora, ma la lascio andare. Non voglio però che questa sia la verità”. Nel film “Sette minuti dopo la mezzanotte”, Conor, un bambino di dodici anni la cui mamma è ammalata terminale di tumore, sta raccontando il suo incubo ricorrente al mostro che ogni notte viene a trovarlo. Sente che la mamma sta scivolando in un precipizio e lui cerca di trattenerla afferrandole la mano. Impresa impossibile; e Conor è combattuto tra coraggio e disperazione.

Desideravi che tutto finisse anche se l’avresti persa. Desideravi solo la fine del tuo dolore; lo volevi eppure non lo volevi. Non è importante quel che pensi; la cosa importante è quel che fai. L’unica cosa è dire la verità. Devi affrontare il tuo incubo, le paure che vivi in esso e dire cosa ti fa paura, raccontare la tua storia e dire la tua verità”.

Riportando a noi la vicenda… Che cosa sono le ansie se non degli incubi in pieno giorno? Ti raccontano una storia che tra poco accadrà, dove tu vivrai un disastro; e così ti riempiono di paura. La prima soluzione che ti viene in mente è fuggire. Sì, che tutto sia finito presto e si ritorni alla normalità, alla tranquillità. La tensione di rimanere nel problema è angosciante, assillante, è troppa da sopportare. Piuttosto cedere, lasciar perdere, lasciare che siano gli altri a pensarci, non impegnarsi nella soluzione del problema. Pure Conor non vuole che questa sia la sua verità: le paure mi trascinano ma non voglio che mi vincano.

E allora il mostro (interessante che proprio questa creatura spaventosa sia invece quella che gli si dimostra amica e gli fa percorrere un cammino di maturazione) gli fa vedere che il primo blocco da superare è quello della paura delle paure. Come? Guardandole in faccia, imparando a conoscerle, capendo come funzionano con te. E soprattutto rendendosi conto che è normale, è umano avere paura di fronte a situazioni difficili.

Custodisci la paura. Non lasciarla libera -mormorò. Quando tutto accade veloce, impara a essere lento”. Così Lacroix a Peter, che sta affrontando la sua prima battaglia nel corso della guerra di indipendenza americana, dal romanzo “Manituana” del collettivo Wu Ming.

Se la lasci libera, la tua paura ti trascinerà di qua e di là, dove vuole lei, facendoti fare quel che mai avresti voluto. La paura non si può vincere, ma si può custodire come forza che spinge alla prudenza, alla riflessione, al discernimento. La paura può diventare forza di saggezza. Come? Piantando i piedi quando inizia a trascinarmi. Respiro a fondo, mi fermo in mezzo al turbinio dei pensieri, mi do tempo, tutto il tempo che serve, e decido di pensare. Solo al prossimo passo da fare, non di più. Decido di vivere da adulto responsabile, come vorrei essere: un adulto che decide senza essere condizionato dalle sue paure. Ora le conosco e so dove vogliono portarmi. Ecco: non è là che voglio andare.

L’ansia mi dice di risolvere tutto e subito per sgravarmi dal peso della paura. No: decido di rimanerci da uomo, camminando nell’uragano. Non sono una foglia, sono un uomo.

Ma dopo l’ansia sopraggiunge la disperazione: non c’è via d’uscita, non c’è speranza. E’ così che la penso perché so vedere solo la mia via d’uscita, immagino solo la mia soluzione al problema. Ma forse questo uragano serve proprio per disancorarmi dalla mia soluzione, per rendermi perdente secondo le mie idee e aprirmi a un’idea nuova. Una morte per una risurrezione. Non vinto, non vincitore, ma diverso. E quindi aprirmi alla speranza che, alla fine tutto sarà bene.

Mi hanno aiutato le parole di Lacroix a cambiare prospettiva nei confronti delle mie ansie: normalmente cerco di ridimensionare la situazione e mi dico che ce la farò come ce l’ho sempre fatta; in una parola, cerco di galleggiare tenendo la testa sopra l’acqua per evitare di affogare, in un atteggiamento che ha tanto di rassegnazione, di fatalismo. No: la mia vita è la mia battaglia e voglio combatterla, vivendola da protagonista. Voglio io tenerne in mano le fila, non le mie ansie, non le mie paure. Sono al mondo per farlo. Posso farlo. Voglio farlo.

E il primo passo sarà quello di cambiare strada: non cercando quella tranquillità che è assenza di problemi, ma cercando in Te la Vita, mio Signore.


Voglio gioire di Te,

Signore.

Non della pace

così spesso foriera

di un nulla che annulla.

Di Te voglio gioire!

Primo perché

mi hai messo con Te

esploratore di una via

nei problemi del mondo.

E ancora perché

Ti vedo: ci sei!

Il bello mi parla

e il bene Ti dice.

E quando ti cerco

l’amore ti trova.


                                                                                                      Michele Bortignon

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9/01/2023

Il dono della presenza reciproca

Il saluto di una popolazione africana del nord-Transvaal rende tangibile la rassicurazione offerta da ciascuno alla solitudine esistenziale dell’altro: chi saluta per primo dice «Sawu bonà» (io ti vedo) e l’altro gli risponde «Sikhana» (io ci sono). Finché tu non mi vedi io non esisto e solo vedendomi mi fai esistere.

Dunque è esperienza comune che cominciamo ad esistere quando siamo nel cuore di qualcuno, quando Qualcuno o qualcuno ci dice “sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo”. Ma anche, all’opposto, io ti vedo può significare: sento che tu ci sei, per me, con me; so che posso contare su di te.

Questo stesso urlo d’angoscia - «Ho paura! Ci sei, per me, con me?» - attraversa sottilmente e silenziosamente ogni richiesta di aiuto spirituale che ti viene rivolta, ma che attraverso di te cerca Dio come interlocutore. «Non temere: io sono con te» è la risposta d’amore di Dio. Una risposta però che diventa tanto più credibile quanto più vibra attraverso di te in una presenza che esprime coinvolgimento, premura, fiducia, speranza. Una presenza fatta anche di gesti e di sguardi, linguaggio immediato del cuore attraverso il corpo, che ad un altro corpo si comunica suscitando sensazioni che subito si traducono in sentimenti. Oltre le parole, per dire ciò che queste sono impotenti ad esprimere: un amore che è dono di sé. Le mie parole ti danno quel che ho, nel gesto ti dono quel che sono. Ma quel che sono, per essere autentico, dev’essere trasparenza, deve lasciarsi attraversare da quel che IO SONO: il mio gesto diventa allora il luogo in cui Dio stesso si comunica. Ci sono io, ma non sono io. Ci sono con tutto me stesso, ma ti trasmetto qualcosa che è oltre me stesso.

                                                                                                              Michele Bortignon


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8/01/2023

Ma il Signore non era nel vento

 

“Ma il Signore non era nel vento” (1Re 19,11) Questo versetto, tratto dal libro dei Re, narra di come il Signore si sia manifestato ad Elia non attraverso un vento impetuoso, nemmeno nel terremoto o nel fuoco, ma attraverso un mormorio di vento leggero. Mi sono venute in mente queste parole dopo la disastrosa e violenta grandinata di mercoledì 19 luglio che ha devastato la zona dove abito. Oltre ad aver distrutto coltivazioni, orti e giardini, ha sfondato tetti, vetri, auto e pannelli fotovoltaici: nessuna abitazione è stata risparmiata e nessuna auto che non fosse ben riparata si è salvata.

Queste parole della Bibbia hanno assunto un significato diverso dopo l’esperienza di devastazione e distruzione che ho vissuto. Avevo sempre interpretato questo brano pensando che Dio non si manifesta con effetti speciali, rumore o colpi di scena, ma nella quiete e nel silenzio di un vento leggero. Ora ho capito che Dio va cercato dopo la devastazione, dopo la distruzione, dopo il lutto, dopo la malattia ed è proprio in quel leggero e impercettibile silenzio di ricostruzione, di vicinanza, di aiuto che si fa sentire.

Cercalo dopo, cercalo quando ciò che non volevi è successo, cercalo quando ti sembra che tutto sia perduto, ma non aspettarti grandi cose, non aspettarti miracoli: accorgiti semplicemente di quel mormorio di vento leggero. Accorgiti di un aiuto, di un abbraccio, di un “come stai”.

La bella notizia è questa: dopo il disastro che ti capita, fermati un attimo, allontana il senso di catastrofico e sentirai la musica leggera della rinascita. È una musica dentro di te che avrà una forza che non credevi di avere.

MariaRosa Brian

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7/01/2023

Il discernimento delle tentazioni

Perché lottare contro il male? Perché ti vuol distruggere. Cosa significa distruggerti? Impedirti di essere quel che puoi essere, a immagine di Dio: un Amore personificato e personalizzato. Che, grazie a questo, vive nella serenità, nella gioia, nella libertà interiore. E’ questa la VITA.

Occorre allora un discernimento nei confronti delle tue tentazioni. Come? Proviamo a seguire Evagrio Pontico.

Quando qualcosa ti turba, ti agita, ti preoccupa eccessivamente, ti fa male o ti fa arrabbiare, o fa tutto questo alle persone con cui sei in relazione, fa attenzione: è il tuo demone che ti sta attaccando.

Porta allora la tua attenzione alle porte del cuore e osserva cosa succede.

Lascia venire avanti il tuo demone, senza spaventarti: Dio è con te!.

Osserva come agisce:

  • Che cosa ti dice, ossia: con quale pensiero ti turba?

  • Quale sentimento suscita in te per appoggiarlo?

Osserva dove vuol portarti:

  • a quali atteggiamenti, comportamenti, scelte?

Osserva da dove viene. Normalmente, la tentazione ti ripresenta una situazione che hai già dolorosamente vissuto in passato. E allora...

  • Di quali parole sono eco queste parole?

  • Di quali sentimenti sono eco questi sentimenti?

Sta calmo e studialo bene, accuratamente, fino in fondo.

Quando gli hai tolto la maschera, buttagli in faccia quel che hai capito di lui: da dove viene, cosa sta facendo, dove ti vuol portare.

Non sopportando questa umiliazione, sentendosi scoperto, fuggirà.

E così continua a fare le altre volte che si presenterà.

Non occorre che tu sia forte: aggrappati a Gesù e fa’ quel che lo Spirito ti fa capire.

In questo modo, il cambiamento non è qualcosa che sei tu a decidere, a programmare e a realizzare in funzione di quel che hai capito essere bene (sarebbe un approccio moralistico), ma deriva dalla presa di coscienza che, anziché comportarti secondo quanto richiede la situazione che stai vivendo, continui a recitare una farsa, una parte che hai imparato tanto tempo fa per difenderti come potevi da una situazione che ti stava uccidendo, ma che ora non è più adeguata a quanto stai vivendo, anzi, crea più problemi di quanti non ne risolva.

Nell’esaminare i tuoi pensieri, tieni presente che quello che il tuo demone ti dice non è sbagliato, anzi! Ma è indebitamente sottolineato, esagerato, apposta perché tu lo senta una tragedia o una cosa della massima importanza ed urgenza.

E’, invece, semplicemente un problema, a volte da affrontare, più spesso da ridimensionare con misericordia, perché ancora una volta si tratta del riemergere di antiche ferite che suscitano nuovi fantasmi.

Dio ti vuole sereno e responsabile all’interno delle situazioni che vivi, per risolverle con creatività, realismo e pazienza, in vista della felicità tua e degli altri.

                                                                                           Michele Bortignon

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6/01/2023

La fede nella risurrezione: bivio tra due approcci alla vita


La tentazione, a cui fa cenno Paolo riferendosi ad alcune persone della comunità di Corinto (1 Cor 15), di ritenere la risurrezione non indispensabile per la salvezza, è sempre molto seduttiva, soprattutto al giorno d’oggi, per la nostra mentalità razionalista. Di Cristo si apprezza il suo essere maestro di vita, esempio da imitare, amico che ci ama fino in fondo. Ma questa visione presuppone una sostanziale estraneità di Dio alla storia umana: siamo infatti convinti che la vita dobbiamo gestircela da soli, e di poterla portare a realizzazione se, dopo aver compreso che cosa è bene per noi, anche ispirandoci agli insegnamenti di Gesù, lo mettiamo in pratica con la nostra buona volontà.

L'esperienza ci dice però che da soli non siamo capaci di risorgere da certe situazioni di sofferenza o di fatica che ci uccidono, tutt’al più di rianimarci. La risurrezione è opera dello Spirito su una persona esistenzialmente morta per portarla a una vita strutturalmente diversa dalla precedente. Non si tratta di un miglioramento, seppur sostanziale. E’ un vivere non più auto-gestiti, ma etero-gestiti, come dice di sé San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2, 20). Dio risorge una persona per vivere in lei, per incarnarsi in lei. E questo, lontano dall’annullarla, la fa invece diventare pienamente se stessa, come Lui da sempre l’ha pensata e sognata (cfr. Ger 1, 5): radicalmente libera dai condizionamenti di un io malato.

Se non ci fosse risurrezione, non servirebbe la fede, ma solo buon senso, intelligenza, disponibilità a convenire su ciò che è giusto, valutando la proposta di vita che Cristo ci fa. Sarebbe l'adesione a una filosofia di vita.

Se Dio non è coinvolto nella nostra vita, come si crede quando si afferma che non esiste la risurrezione, viene allora naturale concepire la vita come impresa dell’uomo e non come risposta a una chiamata di Dio da discernere nelle varie situazioni che ci troviamo ad affrontare.

Adamo è il prototipo dell’empio: colui che si costruisce una propria giustizia perché non crede in un Dio coinvolto nella propria storia per farla diventare occasione di salvezza.

Gesù Cristo, invece, è il figlio: colui che nella propria vita, passione, morte e risurrezione ha vissuto l’affidamento radicale al Padre, alla sua volontà discreta nel qui e ora di ogni momento della propria storia.

A noi dunque scegliere quale uomo essere: Adamo o Gesù? Colui che programma il proprio destino o colui che si affida? Colui che affronta la vita come un caso da gestire o colui che la crede un cammino accompagnato dalla provvidenza divina? Colui che usa della propria libertà per difendere la propria vita, secondo ciò che ritiene giusto o sbagliato, o colui che l’utilizza per donarsi più pienamente all’amore accogliendo le mozioni dello Spirito di Dio?

Ma l’esito è scontato: in Adamo si muore, in una solitudine illusa di potenza; in Cristo si riceve la vita: l’esperienza e la prospettiva di un amore illimitato, che supera il confine della morte. La vita vissuta nella fede, qualunque morte si trovi ad affrontare, si apre alla risurrezione.

 

Condividere la gioia di Cristo risorto (EE.SS. n.221) non significa semplicemente gioire per la sua sorte, ma rifare la sua esperienza di risurrezione dalla morte per sperimentare la sua stessa gioia. Risurrezione che, esistenzialmente, è sperimentare che Dio risponde con fedeltà alla mia fede che lo crede capace di darmi la vita in una situazione di morte accolta come incontro con Gesù Cristo, in cui abbandonare nella tomba il mio spirito e nel suo Spirito risorgere.

Quell’allietarmi e gioire intensamente, che Sant’Ignazio fa chiedere come grazia, non è dunque soltanto l’obiettivo e l’esito dell’esperienza di risurrezione, ma l’esplicarsi concreto di un atteggiamento di fede che, nell’esperienza di morte che stiamo sperimentando, lo proclama salvatore, Dio fedele alle sue promesse, “capace di far risorgere anche dai morti” (Eb 11, 19): “Di questo gioisce il mio cuore: perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 16, 9-11).

 

Michele Bortignon

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5/01/2023

Situazioni difficili da giudicare….

 

«Solo chi lava i piatti rischia di romperli» diceva mio padre.

Assieme alla libertà, Dio ci ha dato la curiosità di provare alternative al “così fan tutti” per creare la nostra strada personale. E così alle volte ci capita di imboccare vie che ci risulta difficile classificare: giuste o sbagliate? Per alcuni aspetti giuste, per altri sbagliate…

Un approccio non spirituale ci porta a buttarci completamente dall’una o dall’atra parte:

  • spinto dalla vergogna e dai sensi di colpa dico che è tutto sbagliato. Con un pentimento frettoloso ne esco al più presto e non ci penso più;

  • spinto dall’istintualità dico che va bene tutto e trovo le mie giustificazioni per poter continuare come prima.

Perché dico che non è un approccio spirituale? Perché in entrambi i casi non c’è un colloquio con Dio, ma solo con me stesso, nel tentativo di sentirmi a posto.

Sempre questo bisogno ossessivo di sentirsi a posto… Come, quando se ne esce?

Quando, nel peccato, ci confrontiamo con la nostra umanità piena di fragilità senza scandalizzarcene perché la guardiamo con Lui, con un dispiacere colmo di riconoscente affetto per Lui che ci cammina a fianco, aiutandoci a trasformare il nostro peccato in una lezione di vita.

Da parte nostra, consentire alla misericordia di Dio di manifestarsi significa entrare in colloquio con Lui riguardo al nostro peccato. Senza fretta, senza cercare vie d’uscita, senza cercare giustificazioni.

Nella vita spirituale, il peccato non è un problema da risolvere, ma un luogo in cui capire cos’è la vita per imparare a viverla con Cristo, con lo stesso atteggiamento che, nella nostra fragilità, Egli ha avuto con noi.

E poi… chi mi dice che proprio ciò che imparo dai miei sbagli non sia il luogo in cui Dio vuole rivelarsi attraverso di me, fare del bene agli altri attraverso ciò che ho ricavato dalla mia sofferta esperienza? Questa diventa allora proprio il luogo da cui posso trarre quel particolarissimo bene da fare agli altri che è solo mio, che solo io posso fare. Un bene che, allora, è Dio con la vita a farlo attraverso di me e non sono io a deciderlo. Sono così passato dal fare io al permettere che Dio faccia in me e attraverso di me. Così si esce dal moralismo e si entra nella spiritualità.

Sono considerazioni, queste, che vanno bene quando la frittata è già stata fatta. Ora, se il rapporto con Dio è vero e profondo, non possiamo accettare che la sua misericordia diventi una protesi fissa per andare avanti a camminare. E’ bello che Dio ci aiuti a rialzarci, ma non che si sostituisca al nostro impegno personale. Un impegno, però, che, per non diventare doverismo, deve fondarsi su una motivazione che sentiamo dà senso alla nostra vita; una motivazione che, se viene a cadere, cadiamo anche noi come persone.

Questa motivazione la trovo quando ho capito che cosa la vita mi chiama ad essere, che cosa il mio esserci porta alla vita, con che cosa nutro gli altri, su che cosa poggia l’investimento di fiducia con cui gli altri si rivolgono a me. E’, questa, la mia vocazione, il mio ruolo nel qui e ora del mondo. Se i mie comportamenti lo distruggono, mi distruggo. E la gravità dei miei errori dipende da quanto questi incidono su questo mio personalissimo modo di dare il mio contributo alla vita.

Tutto risolto allora? Sappiamo come fare, perché farlo e lo facciamo? Eh… magari! La nostra vita è una continua lotta tra il bene e il male combattuta nella nebbia. Alla lunga, quale dei due prevarrà? Quello a cui avremo dato più da mangiare. Per questo non è tanto nell’imperversare della battaglia, quando siamo travolti da forze più grandi di noi, che possiamo fare qualcosa, ma nel tempo tranquillo, nutrendo il nostro pensiero del Bene che amiamo.

                                                                                       Michele Bortignon

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4/16/2023

La religiosità primitiva in Sardegna

Questo viaggio in Sardegna che sto facendo si è rivelato un’inaspettata immersione nel mondo della preistoria. In nessun altro posto ho trovato una così completa serie di reperti sull’epoca in cui l’uomo ha cominciato a lasciare testimonianze del suo modo di essere e di pensare. Da quei tempi remoti, la domanda che turba il cuore dell’uomo è sempre la stessa: “E dopo?”. E sulla risposta che gli antichi sardi hanno dato si è concentrato il mio interesse e la mia curiosità. E’ questo, in fondo, l’inizio della religione: il cercare una risposta agli interrogativi che trascendono la capacità umana di dare una risposta.

La prima raffigurazione di questa religiosità, risalente a 4500 anni prima di Cristo, nell’epoca detta “Neolitico medio”, è la dea madre, colei che dà la vita: una donna prosperosa, fianchi larghi e seni abbondanti. Ma non è solo la donna a dare la vita: anche la terra, producendo il cibo di cui l’uomo si nutre, assume questa valenza. Ecco allora che, abbinando le due sorgenti della vita, la risposta all’angoscia della morte è fabbricare una “macchina per la risurrezione”: nel grembo della terra, sempre nella roccia viva, vengono scavate le “domus de janas”, tombe a forma di grembo materno. A imitazione di questo, da una piccolissima porticina di accesso si interna un breve cunicolo che sfocia nella cella dove il cadavere viene inserito in posizione fetale, pronto per essere partorito a una nuova vita.

All’epoca matriarcale del neolitico medio segue, mille anni più tardi, nel neolitico recente, un’epoca patriarcale: la morte è vinta nel ricordo di chi non c’è più. E’ l’epoca delle “perdas fittas”, più comunemente note come “menhir”: il defunto viene ricordato da una stele che lo rappresenta. In alcuni casi (come, ad esempio, a Pranu Mutteddu) si nota una transizione: dietro al menhir c’è la domus de janas.

Più tardi, nell’età del rame (siamo nel 3000 a.c.), i menhir cominciano a essere scolpiti con sembianze umane stilizzate (cfr. museo di Làconi): due grandi sopracciglia e il cuneo del naso ne rappresentano il volto, mentre, dal luogo in cui si immagina la bocca, scende “il rovesciato”: il busto di un uomo con la testa verso il basso e due lunghe braccia ricurve all’indietro a formare un cerchio perfetto, quasi un gabbiano in picchiata; raffigurazione dell’anima che esce dal corpo al momento della morte, duplice presenza di questa persona nella vita presente e nella futura.

Anche Dio in quest’epoca cambia volto: il dio della vita diventa il dio trascendente che abita nei cieli, verso il quale ci si innalza salendo la scalinata della ziqqurrat di monte d’Accoddi e verso il quale si leva il fumo dei sacrifici degli animali immolati sulla grande pietra d’altare posta a lato del tempio.

Passano altri secoli ed eccoci all’età del bronzo medio, 1700 anni prima di Cristo. Inizia a svilupparsi la civiltà nuragica, caratterizzata da una marcata socialità: sorgono villaggi attorno al nuraghe, il castello che li difende. Il santuario assume le forme di un edificio o di un pozzo sacro, dove ogni offerente depone un bronzetto che lo rappresenta, raccomandandosi alla protezione del dio. Anche le sepolture cambiano: anch’esse sono ora collettive. Dietro al grande portale delle “tombe dei giganti”, la camera sepolcrale ospita decine di individui, mentre sul davanti l’esedra si sviluppa in due bracci, raffigurando le corna di un toro, simbolo di forza, di potenza invincibile, al cui interno si compiono i riti funebri. Quasi a dire: come singoli individui moriremo anche, ma come popolo nulla può vincerci. Lo dice anche la statuetta del nuraghe collocata al centro della capanna delle assemblee come simbolo identitario.

Ma nell’800 a.c. anche questa civiltà scompare, vinta o assimilata (non si sa) da quella dei Fenici, quindi dai Punici e infine dai Romani. Ma anche questi passano, travolti dai Saraceni e poi dagli Spagnoli, infine dai Savoia, che lasciano il loro segno distruggendo i boschi dell’isola per costruire le traversine delle ferrovie del regno.

Intanto come trova ancora espressione la religiosità popolare? Ne troviamo una traccia nelle tradizioni apotropaiche che segnano la fine del vecchio anno e la rinascita primaverile. A Mamoiada (ma in modi e con figure analoghe in altri paesi) i Mamuthones, brutti e neri, e che si rendono ancor più spaventosi con il clangore dei campanacci legati attorno al corpo, muovono la loro danza al ritmo e coi passi che vengono loro imposti dagli Issohadores, belli e dai vestiti colorati: è il bene che comunque vince il male, il nuovo che rimpiazza il vecchio, il ciclo delle stagioni che va avanti nonostante tutto.


4/01/2023

Perché certi… no?

 

Per te, che hai trovato la salvezza nella relazione con Dio, ossia una vita vissuta esternamente in modo pienamente umano e interiormente nella serenità e nella libertà interiore, è doloroso accettare che proprio chi ne avrebbe più bisogno rifiuti l’annuncio che salva.

Che cosa chiude il cuore di queste persone all'ascolto?

Certamente una grossa influenza ce l’ha una serie di situazioni ed esperienze che rende loro difficile sperare, credere, amare:

Non hanno speranza in una prospettiva diversa: la persona o i valori in cui avevano creduto le hanno deluse e ora vivono nella rassegnazione, nell'accontentarsi di ciò che ritengono immutabile.

Non hanno fiducia: non sono aperte al confronto, le loro idee sono assolute e irremovibili; manca loro la consapevolezza che ciascuno è segnato dalla propria storia e quindi condizionato, nella percezione della realtà e nelle scelte, da paure e da bisogni che gli sono propri, per cui non può possedere la Verità, ma soltanto, assieme ad altri, farsene umile cercatore.

Non hanno amore, chiuse nella difesa dei loro beni, mezzi di scambio per comperare quell'affetto, quella stima, quella sicurezza che non riescono a ottenere in altro modo; inoltre sono chiuse nella difesa del loro piacere, che spesso è fuga da una realtà in cui non sanno trovare nulla di positivo.

In loro stenta, e spesso non riesce, a farsi strada

  • la speranza, che li aiuterebbe ad attraversare la sofferenza;

  • la fiducia, che crea relazioni per affrontare le difficoltà;

  • l’amore, nella bellezza di amare e di essere amati.

La storia finora ha fatto loro trovare risposte più accessibili, di cui ancora non hanno sperimentato il basso profilo o l’illusorietà.

Ma potrebbe anche essere, molto più semplicemente, che l’annuncio non è accolto perché non parla il loro linguaggio, non è risposta alla domanda fondamentale che, comunque, ognuno di noi porta nel cuore: come posso essere sereno e interiormente libero? Ma, soprattutto, perché non sa porgere questa risposta senza servirsi di parole: direttamente attraverso una vita che parla al posto nostro. Solo su questa base l’annuncio diventa comprensibile e, anzi, cercato.

Non possiamo però affermare che da parte di nessuno ci sia un’accoglienza o un rifiuto completi di questa prospettiva. In ognuno di noi si agitano desideri e resistenze che portano a un’adesione più o meno completa e che comunque varia nel tempo. Non si può allora giudicare la situazione di una persona confrontandola con uno standard di santità che tutti dovrebbero raggiungere, ma dall’incremento di umanità che il suo cammino produce in lei.

Ciascuno infatti ha il suo gioco, e per vincerlo non è tanto importante il punto d’arrivo, quanto il giocarlo con quella fede nella vita (se non in Dio!), con quella speranza, con quell’amore che gli sono concretamente possibili nel momento e nella situazione che sta vivendo.

Se sapessimo guardare senza aspettative e pregiudizi, talora forse potremmo vedere che proprio chi nega Dio, con il suo essere e agire è talmente UOMO da rassomigliare a Cristo e inconsapevolmente viverlo.

                                                             Michele Bortignon

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3/01/2023

Vivere il presente tra paure, dolore e sofferenze

 

Desidereremmo tutti poter vivere una vita serena, tranquilla, senza problemi. Ma la realtà è un’altra e spesso ci troviamo dentro a situazioni, soprattutto di malattia, che ci rendono questa vita difficile, quasi impossibile e insopportabile. Quando il dolore fisico o psicologico invade la nostra vita coinvolgendoci in prima persona, quando i protagonisti del dramma siamo noi, la nostra reazione è di paura e di rifiuto. Ma questa reazione al male sarebbe un voler negare la realtà, un nascondere la testa sotto la sabbia e fingere che non ci sia il problema; d’altra parte non possiamo nemmeno permettere al dolore di farla da padrone e invadere tutta la nostra vita rovinandoci l’esistenza in modo definitivo. Correttamente dovremmo dire: «Il mio male c’è, ma io non sono il mio male; io non sono solo la malattia e la malattia non è tutta la mia vita». Ma come riuscire a rendere vita vissuta questa affermazione di principio? Come affrontare la paura, il dolore e la sofferenza che questa mia malattia mi provoca senza lasciarmi travolgere dalla sua negatività?

Se osserviamo bene, le emozioni negative sono suscitate soprattutto dalle recriminazioni per ciò che è stato, attraverso le quali cerco una causa al mio male, o dalla paura di un futuro immaginato disastroso, che partorisce angoscianti premonizioni. È quasi istintivo, quando si è in una situazione di malattia o di sofferenza, voler cercare a tutti i costi una causa rivangando il passato, oppure pretendere di pianificare e controllare il futuro.

Ma l’unico tempo reale è il presente: il passato non c’è perché è già stato e il futuro non c’è perché non c’è ancora. Occorre allora vivere qui e ora: non lasciare che il passato domini il mio presente e che il futuro mi crei preoccupazioni (appunto pre-occupazioni) che sono solo ipotesi e probabilità.

Vivere qui e ora significa gustare, accogliere, apprezzare quello che ho adesso, quello che vivo adesso: amore, amicizia, vicinanza, affetto, aiuto, ecc…; tutto il bello e il bene che c’è nella mia vita.

Vivere qui e ora significa anche accettare (non subire) quello che non va: ciò che non posso cambiare me lo alleo, lo accolgo e lo addomestico.

Addomestico il dolore, accolgo la sofferenza, mi alleo la paura.

  • Addomestico il dolore. Lo vedo come ingrediente inevitabile di questa vita. Il dolore è selvaggio, non sai né quando arriva, né quando e se se ne va. Allora chiedo la forza a Cristo, Lui sa che cos’è il dolore. Gli chiedo di non lasciarmi sopraffare da esso, di non permettere che il male riempia tutto il mio orizzonte.

  • Accolgo la sofferenza. La sofferenza è un male interiore. Sosto nella sofferenza, le parlo, le chiedo che cosa mi può offrire, che cosa mi insegna, come mi fa crescere, cambiare, evolvere.

  • Mi alleo la paura. La paura è forza vitale: mi salva e mi protegge. Ma, se sfocia nel terrore, mi blocca. E allora cerco di conoscerla e dominarla per domarla.

Dolore, sofferenza, paura sono sentimenti che mi possono servire se sono io a controllarli; mi schiacciano e mi uccidono se mi lascio dominare da loro e se non imparo a conoscerli.

Alla fine sono io a decidere se esserne preda o dominatore: la scelta è mia.

Oltre a un ragionamento intellettivo e razionale attraverso il quale posso decidere il cambiamento, c’è un atteggiamento interiore di fiducia e apertura verso Colui che ha liberamente accettato di vivere il dolore, la sofferenza e la paura. Gesù mi insegna: ha lottato e ha vinto il dolore, la sofferenza, la paura, il senso di fallimento e la solitudine. Gesù mi invita a fidarmi e a vivere qui e ora il rapporto preferenziale con Lui in questa mia situazione.

Vivere qui e ora significa concentrarmi sul presente. Penso alle mie azioni, alle mie parole, ai miei movimenti. Mi concentro sui miei sensi: ascolto, annuso, tocco, assaporo, vedo. Godo della mia vita, dell’essere viva; la vivo tutta, la spremo, la consumo.

Il passato e il futuro li posso immaginare come i bordi della mia strada e non permetto che la invadano: loro restano là, ai margini. Oppure me li immagino come la strada dietro e davanti a me: quella fatta e quella ancora da percorrere. Guardo la strada dove metto i piedi, mi concentro sul passo che sto facendo, mi gusto il paesaggio che sto guardando. Solo questo passo. Ho l’energia per fare questo passo presente, immediato. Non consumo le mie forze a pensare a come ho fatto i passi precedenti o a come farò i futuri. Qui e ora. Quando il passato si fa invadente e soffoca il mio presente, non faccio altro che riconoscerlo, capire perché torna a invadere il mio “qui e ora”; cerco di capire di quali bisogni è voce, di quali ferite non rimarginate si fa eco.

Guardando a Gesù, che vuol fare nuove tutte le cose, accolgo il suo perdono, il suo invito a perdonare e prima ancora a perdonare me stesso. A questo punto la smetto di recriminare e, invece, colgo e sottolineo la lezione che la mia storia mi porge. E lascio andare ciò che è passato. È passato e basta; punto a capo.

Quando è il futuro a farmi paura mi rifugio tra le braccia di Dio e mi sento serena come un bimbo svezzato in braccio a sua madre (Sal 131,2). Mi lascio cullare, contenere, proteggere; mi fido, proprio come un bimbo si fida di sua madre.

Il futuro non lo posso controllare, non posso prevederlo: posso solo fidarmi. Fidarmi di un Dio con me, che non mi abbandona mai.

In conclusione vivere qui e ora significa rappacificarmi con il mio passato vedendo in esso la presenza di Dio che mi aspettava e che fremeva perché mi accorgessi del Suo amore. Inoltre significa fidarmi che la Sua alleanza dura in eterno: se c’era nel mio passato, c’è nel mio presente e ci sarà nel mio futuro.

Tutto questo spetta a me interiorizzarlo e assimilarlo. La scelta definitiva è sempre e solo la mia: a Lui posso chiedere la forza dello Spirito per sentirlo e sperimentarlo DIO CON ME.

Maria Rosa Brian

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2/01/2023

Non prenderti troppo sul serio

 

Immaginiamo la scena: siamo nella sala riunione di una ditta e fra lo staff c’è chi fa a gara per dimostrarsi il migliore agli occhi del capo e c’è chi si sente sopraffatto dai più loquaci; oppure siamo al bar del paese, dove un gruppo di ciclisti si vantano raccontando le loro prodezze in salita e scherzano su chi è arrivato ultimo, il quale si sente lo sfigato di turno; oppure, a una festa, c’è un gruppo di amiche o amici, e tra di essi c’è sempre chi attira l’attenzione di tutti su di sé rubando la scena a chi è più timido.

Che cos'hanno in comune queste situazioni? Nulla, se non il fatto che si creano delle circostanze -e si potrebbero fare molti altri esempi simili- in cui c’è chi si sente, a torto o a ragione, inadeguato rispetto al gruppo. Che cosa succede in chi si sente trascurato, messo da parte, sopraffatto? Quale può essere la sua reazione? Provo a mettermi nei suoi panni.

Quando qualcuno è elogiato (anche se magari è vero che è più bravo o più meritevole di me, o più veloce o più brillante), oppure quando uno sottolinea il mio errore, o quando c’è chi occupa tutta la scena, sento che è un’ingiustizia, un complotto, un tramare alle mie spalle, al punto che penso: «Ecco: ce l’hanno tutti con me!». Da questa considerazione nasce in me un atteggiamento e una serie di pensieri che non fanno altro che confermare e alimentare questa mia teoria e visione delle cose, facendomi cadere in un circolo vizioso: penso che tutti ce l’abbiano con me, che non sono capace o non abbastanza simpatico; di conseguenza divento sospettoso, mi chiudo in me stesso e tengo il muso; e così mi rendo antipatico. Oppure pensando di non essere considerato, o addirittura invisibile, mi comporto come tale: me ne sto in disparte, non partecipo, non mi coinvolgo e non mi faccio coinvolgere. Ecco, se prima credevo di essere escluso, ora ho creato tutti i presupposti per esserlo.

Come fare a uscire da questo circolo vizioso?

Un motto che ho trovato in un calendario diceva: smettila di comportarti da vittima e il tuo aggressore svanirà. È vero, smettila di recitare la parte che ti sei scelto, smettila di fare la vittima, l’offeso e lo sfigato. Esci da quel ruolo che nessuno ti ha dato, ma che ti sei addossato tu, e soprattutto smettila di crederti al centro del mondo e che tutto ruoti attorno a te; spostati e guarda da un’altra angolazione. Assumi la prospettiva di chi credi ce l’abbia con te. Che cosa nasconde il suo atteggiamento? Quali paure? Quali insicurezze? Che visione ha di se stesso? Vedrai che non è tanto diverso da te. Ascolta bene cosa ti dice e cosa non dice dietro a ciò che esterna: magari le sue insicurezze e paure le nasconde dietro a una esagerata spavalderia che, purtroppo, scarica su di te, oppure ha un ossessivo bisogno di conferme, che lo porta a mettersi sempre al centro della scena, sminuendo te per emergere lui.

Oppure potrebbe semplicemente essere che quel tale non ce l’abbia con te, e che effettivamente sia tu ad avere un problema che non vuoi vedere e ti da fastidio che lui te lo faccia notare. Smettila allora di prenderti così sul serio e accetta che anche tu puoi sbagliare, che hai le tue fragilità, accetta il fatto che non sei il migliore e neanche il peggiore, che non sei infallibile ma neanche una frana.

Se ti senti trascurato, inizia tu a proporti, a farti avanti. Ti senti inadeguato? Fallo lo stesso! Hai paura di sbagliare? Ok, rischia l’errore. Ti spaventa un “no!”? Accettalo! Temi la figuraccia? Prenditi un po’ in giro fai dell'humour su te stesso. Soprattutto, considera che tu sei unico, con le tue caratteristiche, le tue doti e i tuoi limiti; non sei il centro del mondo, ma hai un posto nel mondo che gli altri devono rispettare; e puoi farlo senza offenderti, senza mugugnare, semplicemente affrontando la questione con chi ti fa torto oppure buttandoti tutto alle spalle perché non vale la pena creare un problema dove problema non c’è, ma solo un film che ti sei fatto in testa.

Tieni anche presente che gli altri hanno una storia diversa dalla tua e possono non capire le tue esigenze: falle presenti e suggerisci loro come potrebbero soddisfarle.

Maria Rosa Brian


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1/01/2023

Il nostro cinema interno

Ognuno di noi ha un suo modo di reagire alle varie situazioni, determinato dal suo carattere e dalla sua particolare esperienza di vita. Tale modalità, per lui assolutamente normale (o perché istintiva o perché scelta a ragion veduta), può ferire o comunque apparire inopportuna all’altro che ne viene coinvolto.

Questo modo di agire o reagire in cui inevitabilmente cadi è stato indotto, costruito in te da una passata esperienza di vita, probabilmente durata a lungo, a contatto con persone per te affettivamente significative.

Adesso, cambiata la situazione, ti accorgi però che il tuo modo di reagire è lo stesso, solo che non è più adeguato alla situazione: invece di vedere le persone per quello che sono, proietti su di loro l’immagine di chi allora ti aveva fatto del male appena cogli in loro un qualche atteggiamento che te lo ricorda, per cui non è alla persona che ti sta davanti che reagisci, ma a quella che ti aveva fatto del male.

Ad esempio, se la tua esperienza pregressa è stata di essere rifiutato e aggredito, e tu hai risposto aggredendo a tua volta, ora, nella tua esperienza attuale, ti senti rifiutato anche solo se ti viene fatta un’osservazione o dato un consiglio ed aggredisci l’altro (o te stesso, somatizzando la sofferenza) con una reazione chiaramente sproporzionata rispetto alla causa.

Vediamo cosa succede quando ti senti ferito dal comportamento dell’altro, perché lo inserisci nel mondo delle tue esperienze ferite.

Anziché chiarirti con lui, credendo nella sua buona fede e cercando di capire le motivazioni o i problemi sottostanti ai suoi comportamenti che non ti vanno, li ritieni colpevoli e premeditati per ferirti («L’ha fatto apposta!»; «Non poteva non rendersi conto che così mi avrebbe ferito!») e quindi iniziare un’azione difensivo-offensiva (ti chiudi e/o lo aggredisci) che finisce per suscitare un suo contrattacco, in una reazione a catena che diventa sempre più pesante.

Spesso, al di sotto di una richiesta specifica, c’è un bisogno profondo che, quando non soddisfatto, rende esplosiva una situazione di per sé spesso banale. Si creano allora associazioni di pensiero irrealistiche; ad esempio: «Se sei in ritardo nel preparare la cena -e sai che ci tengo alla puntualità!- significa che non t’interessa niente di me» (bisogno di affetto insoddisfatto); «Se non mi dai l’aiuto che ti ho chiesto, significa che mi consideri una schiava a tuo servizio» (bisogno di stima insoddisfatto).

Scopri dunque qual è il bisogno da cui nasce la tua richiesta e dagli tu stesso una risposta o condividilo con umiltà con chi può soddisfarlo.

In ogni caso, renditi conto che spesso, senza che tu lo voglia, parte il tuo cinema interiore, che ti fa interpretare ciò che l’altro dice e fa secondo il tuo copione, non secondo le sue intenzioni. E l’altro potrà sempre dirti: “Sono responsabile di quel che dico, non di quel che capisci tu”.

                                                                                                  Michele Bortignon


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