Leggevo oggi che per gli italiani
fare giustizia è far soffrire, attraverso il carcere, chi ha fatto soffrire. Il
guaio è che 4 su 5 rientrano poi in prigione essendo tornati a commettere gli
stessi reati, contro l’1 su 5 di chi è stato invece affidato ai servizi
sociali. La stessa cosa sentivo dire riguardo alla pena di morte: negli stati
che la praticano non si riscontra una minore incidenza di delitti. Sembra
dunque che isolare e castigare non serva a recuperare chi ha sbagliato.
Quando Gesù dice “Non sono
venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo” (Gv 12, 47), sta
affermando che non vuole isolare il peccatore, ma rimanergli accanto per
recuperarlo.
Non sono però solo gli altri a
isolare chi sbaglia: quando capita a noi di fare qualche stupidata, trascinati
da impulsi che obbediscono alle nostre paure o alla nostra istintività, siamo
noi stessi a isolarci: presi dallo scoraggiamento, ci sentiamo definiti da
quell’unico atto sbagliato, come se questo avesse cancellato una storia di bene
vissuto quotidianamente. Cosa fa allora Dio? Quando diciamo che la sua
giustizia è la misericordia, semplicemente affermiamo che Egli guarda alla
nostra vita nel suo complesso, al di là del singolo atto, e vuol salvaguardarne
l’andamento, quella linea crescente costruita da gesti, scelte, comportamenti
che ci qualificano, che dicono chi siamo. Dio è il custode del suo sogno in
noi, dei desideri che Egli ha messo nel nostro cuore e che si sono trasformati
in realtà vissuta.
Sempre mi commuove l’episodio in
cui Dio impedisce al faraone di toccare la moglie di Abramo, che questi ha
fatto passare per sua sorella per non esserne ucciso. “Non toccare la moglie
del mio profeta” gli dice. Abramo per Lui continua ad essere il suo
profeta, anche se si è mostrato un opportunista e un vigliacco.
“Che diremo dunque?
Continueremo a rimanere nel peccato perché abbondi la grazia?” (Rm 6, 1),
chiede San Paolo. Che tentazione approfittarci della misericordia di Dio! E’
comunque un Dio ferito dal male che ci siamo fatti e che abbiamo fatto ad altri
quello che ci usa misericordia. La misericordia ci ridà in mano un avvenire, ma
non cancella le conseguenze sul presente del nostro passato. Dio ci dà una mano
per rialzarci, ma riprendiamo il cammino feriti dalla caduta.
Ci chiediamo infine: qual è il
nome del demone che ci gioca per impedirci di rialzarci dopo che siamo caduti?
L’orgoglio. Non sopportiamo di essere meno che forti, impassibili, vittoriosi
sulle tentazioni. Vogliamo meritare l’amore di Dio. E l’alternativa è solo lo
schifo di noi stessi e il conseguente buttarci via. Ci sentiamo umiliati dalla
sua misericordia! Ma forse è proprio di questo che abbiamo bisogno: un po’ di
umiliazione che ci metta in umiltà di fronte alla vita, per accoglierla assieme
a Lui, nella Sua verità, anziché cercare di dominarla e distorcerla con la
nostra.
Ecco allora che la cosa da fare
non è impegnarci a essere più forti, ma donargli la nostra fragilità e sperare
nella sua grazia. Anche la primula non si impegna al fiore, ma attende la
carezza tiepida del primo sole. Sarà allora Lui in noi la nostra forza: “…Senza
di me non potete far nulla” (Gv 15, 5).
Michele
Bortignon
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