12/24/2017

Non c'era posto per loro

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“…non c’era posto per loro” (Lc 2,7)
In questo Natale, partendo da queste parole, ci siamo chiesti in quale spazio di noi, della nostra vita abbiamo escluso Dio - in tutti quei “luoghi” della nostra esistenza che ci disturbano, ci creano disagio e vergogna - e come potrebbero cambiare le cose se accettassimo di farcelo entrare…

…in quella parte di me che mi dice sei meno di zero, non vali… e aspetto sicura che mi farà volare in alto con Lui.

…dove mi sento un bambino allegro e giocherellone e, un momento dopo, un po’ stupido… ma Lui mi dice che ogni tanto ci vuole.

…nell’aridità di certi dialoghi… sicuro che con Lui rifioriranno.

…nel mezzo delle mie paure che mi fanno vedere tutto nero… certa che con Lui, queste paure, diventeranno insignificanti.

…in questo periodo frenetico, tra le mille incombenze della mia vita… e guidata dal Suo amore ricentrarmi maggiormente in Lui.

…nei momenti di sconforto… sicuro che Lui saprà dargli un senso, come un piccolo mattone che contribuisce a costruire la mia vita.

…quando sono agitata per mio papà che ha alti e bassi ed è continuamente dentro e fuori dall’ospedale… avvertire il Tuo abbraccio caldo e speciale che mi consola.

E tu… che cosa aspetti a fargli posto?
Buon Natale!

Anna, Cristina, Enrico, Maria Rosa, Michele, Pasqualina, Roberto.


12/02/2017

Quando per andare avanti…serve un passo indietro

Diciamocelo: non siamo solo per gli altri. Abbiamo anche noi bisogno di tempi e di spazi per le nostre passioni, di poter fare qualche volta a modo nostro anche se sappiamo che non è il massimo, di sentir rispettate le nostre piccole manie.
Ma quello che sento un mio diritto, quando è invece l’altro a reclamarlo, non mi trova più tanto d’accordo: «Ma che egoista! Perché non tiene conto di me? E’ stupido quel che fa! Perché non si comporta razionalmente? Non riusciamo più a capirci! Forse non c’è più rapporto tra noi». E i pensieri continuano ad avvoltolarsi su se stessi facendoci arrabbiare sempre di più e lasciandoci dentro tanta amarezza e smarrimento.
C’è un’alternativa?
“Let i be!” diceva una canzone dei Beatles: lascia che sia…
Ho provato a farlo: non ho reagito, ho preso la mia agenda e sono andato a camminare parlandone con il Signore (per iscritto, come sono solito fare quando ho bisogno di capirmi).
E lì mi sono sfogato: ho rivestito di razionalità i miei pensieri di rivalsa, ho ascoltato la natura attorno a me che nella sua bellezza mi diceva tutt’altro, ho cercato di mettere assieme questo e quello dando valore ad entrambi. Insomma… ho fatto un gran guazzabuglio, ma mi sono sfogato. Senza freni. E al ritorno ero tranquillo: la rabbia se n’era andata. Come mai? Cos’era successo?
Dio non aveva parlato, lo so bene: quando lo fa, non mi fa ragionamenti; quelli sono solo miei. Ma mi aveva ascoltato e mi aveva fatto compagnia. E’ stato con me quando io mi sono sentito abbandonato da chi volevo stesse con me.

Ma a Dio non basta che io sia tranquillo perché Lui è con me; vuole che sia tranquillo anche perché torno ad essere con Lui. Egli ha ascoltato tacendo i vaneggiamenti mossi dal suo Nemico, che mi pungolava facendomi sentire solo e abbandonato, che mi diceva di trovare da me il modo di salvarmi.
Dio tace e, alla fine, se non è d’accordo, dice semplicemente «Mah…!?». Non lo senti con la mente, ma col cuore, e tutte le tue costruzioni crollano miseramente, perché tutto ciò che non è Bene non sta in piedi se non è la tua rabbia o la tua paura a sostenerlo.
Per rimetterti in carreggiata a Lui basta un accenno: «Non è a questo che ti ho chiamato…». E tutto assieme riemerge quel che tu sei con Lui, la tua storia con Lui a cui i tuoi progetti arrabbiati non danno continuità. Due parole che ti spiazzano e in un attimo ribaltano tutto e lo rimettono nella giusta prospettiva.

Ora tocca a te rimettere a posto, tenendo conto di te e dell’altro. Che è il modo del Dio-Trinità.

                                                                                                                                  Michele Bortignon      

E’ naturale che dopo una lite si chieda scusa… ma solo se si ha torto. E, guarda caso, noi non abbiamo quasi mai torto… per non dire mai. Anche l’altra parte, però, è convinta di aver sempre ragione… Come mai?  I conti non tornano!
Trovi tanti motivi per giustificarti... Ma, se ascolti bene dentro di te, senti che qualcosa non va: perché altrimenti continueresti a ripeterti che hai ragione, che hai fatto bene, che tu non hai sbagliato? Quel senso di non essere a posto, che ti pungola anche se continui a ripeterti che tu sei a posto (nel discernimento la chiamiamo “compunzione”), che ti fa sentire un po’ in torto, che non ti dà pace e non ti lascia nella pace, viene da Dio: è Lui che ti “parla” e non ti lascia nella pace per condurti a un bene e a una gioia vera.
Da’ spazio e ascolto a quella voce, metti da parte il tuo orgoglio ferito, la tua presunzione di giustizia e osserva cosa fa e dice Gesù: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri». (Gv 13, 14). Gesù ti invita ad abbassarti, a umiliarti, a chiedere scusa …anche se la ragione è quasi tutta tua. Ecco, lavora su quel “quasi” e fatti un onesto esame di coscienza: forse hai usato un modo sbagliato di porti, forse per difenderti hai attaccato alzando la voce… Chiedere scusa non significa dare totalmente ragione all’altro e neanche accettare le sue posizioni, ma semplicemente riconoscere i tuoi errori e pentirtene. Attenzione, non si tratta di chiedere scusa a Gesù: no, troppo comodo! Gesù ti chiede di lavare i piedi ai fratelli, non a Lui. Si tratta proprio di umiliarti e chiedere scusa a chi magari ti ha attaccato e offeso.
Questo passo di umiliarti non lo puoi fare da solo: riuscirai a farlo solo se vai con Lui dall’altro, da chi ti ha offeso. È solo andando assieme a Gesù che ti riuscirà di farlo con le parole e i modi giusti, senza cercare di difenderti e senza curarti se l’altro capisce e accetta o no il tuo gesto.
Prima di andare, fermati un po’ con Gesù, chiedigli di venire con te, chiedigli di farti capire il significato di lavare i piedi.
Cosa succede dopo? Forse nella situazione fra te e l’altra persona niente, ma a cambiare è il tuo animo: una nuova leggerezza ti accompagna, il senso di aver fatto la cosa giusta, il sentirti di nuovo per mano di Dio (Sant’Ignazio la chiama “consolazione”). L’aver messo fine a tutte quelle voci interiori che ti tormentavano, la gioia e il sentirti bene saranno la conferma che dal bruco che eri sei rinato farfalla, in volo libera per l’aria.


Maria Rosa Brian

11/04/2017

L'ossessione di sentirsi perfetti

Ricordate cosa scrive Ignazio negli Esercizi Spirituali a proposito delle tentazioni degli avanzati?

[332] Quarta regola. È proprio dell'angelo cattivo, che si trasforma in angelo di luce, entrare con il punto di vista dell'anima fedele e uscire con il suo: suggerisce, cioè, pensieri buoni e santi, conformi a quell'anima retta, poi a poco a poco cerca di uscirne attirando l'anima ai suoi inganni occulti e ai suoi perversi disegni.

Qual è la più grande, anzi, forse l’unica tentazione (perché comprende tutte le altre) in chi è già determinato a seguire Dio? La perfezione, l’impeccabilità, il voler essere come Dio per essere degni di Dio. Che inganno! Dio non mi vuole come Lui nella perfezione, ma con Lui nell’amore: vuole un uomo che ama. E che ama da uomo: in mezzo a tutte le mie imperfezioni e fragilità. Ed è Lui il primo che mi incoraggia, per evitare che queste mi distruggano con i sensi di colpa, lo scoraggiamento e la delusione di me stesso.
Con tutta la mia incapacità, i miei limiti, i miei sbagli, questo solo voglio che mi unisca a Te, Signore, e so che può farlo: provo a continuare ad amare. Come so, come posso, come ci riesco. Ma, con Te, volendo saperne di più, potere di più, riuscire di più… per sentirmi ancora di più unito a te.

Se riuscisse davvero a farmi vivere la perfezione, lo Spirito del male mi avrebbe bloccato: se non sbaglio, cosa imparo di nuovo? E, nella mia autosufficienza compiaciuta, mi consegnerebbe ai miei nuovi compagni: l’orgoglio e  la vanagloria, che figlierebbero in me il giudizio nei confronti di chi non è perfetto come me. E il mio allontanamento dall’Amore sarebbe così compiuto.

Personalmente, credo che non sono io a costruire la mia santità con i miei sforzi e i miei successi, ma Dio, soprattutto con i miei errori redenti da Lui.
Già solo accettare questa prospettiva è difficile: vorrei, infatti, essere degno della stima di Dio, meritarmela con tutte le mie cose perfettamente a posto; viceversa, se non ci riesco, mi sento un disastro, se non addirittura dannato.
Ma... Dio ci ha sbattuto lì un manuale di regole dicendoci “Rispettatele e poi faremo i conti...” o ci ha dato in Cristo una via e nello Spirito Santo un accompagnatore per discernere i casi della vita e imparare dai nostri errori? E' pronto a farcela pagare o è disposto a tutto per recuperarci dai vicoli ciechi in cui ci cacciamo e, anzi, proprio attraverso questi farci entrare in nuove prospettive?
Mi piacerebbe tanto -e nutrirebbe la mia autostima!- poter dire “«Io ce l'ho fatta, io ce la faccio a vincere le mie tentazioni» e poter guardare in faccia Dio contento di me stesso. Ma, finché ci riesco, probabilmente è perché le mie sono piccole battaglie, di uno che è talmente pieno di se stesso e cieco ai propri veri peccati che lo spirito del male gli lascia vincere per confermarlo in una situazione in cui anche il bene che fa è solo per costruire se stesso.
Ma quando ti lasci sul serio essere strumento di Dio, quando lo cerchi sul serio mettendoti in gioco, le tentazioni ti saltano addosso, potenti: alla tua coscienza sensibilizzata tutto si presenta come grave per distruggerti con i sensi di colpa; i tuoi sensi, ora pacificati, ogni tanto si ribellano, eccitati dal voler provare nuove esperienze, che proprio ora si presentano possibilissime; e poi... continuano ad emergere le tue consuete reazioni istintive, che ora però ti amareggiano perché non le giustifichi più come prima.
In questo panorama desolante, ci vuol poco a lasciarsi prendere dallo scoraggiamento -strumento del demonio per bloccarti e farti desistere.
Eccolo qua il frutto di un rapporto moralistico con Dio: o la vanagloria o la depressione, senza vie di mezzo. L'una e l'altra indice della distanza che abbiamo frapposto con Dio, volendo costruirci da soli.
Forse l'approccio da tenere nei confronti della tentazione è allora un altro: non cercare come superarla (per sentirmi perfetto o di nuovo a posto), ma prendere atto, senza farne un dramma, che sono fragile; che, lasciato a me stesso, cado; e che, se una parte di me non vuole cadere, l'altra lo desidera ardentemente. So bene che se chiamassi Dio a starmi accanto ce la farei, ma non ne ho nessuna voglia: la rinuncia mi sembra quasi negarmi un mio diritto.
Ripeto: prendo atto di tutto ciò senza farne un dramma. Questo sono io: e proprio perché sono così ho bisogno che Dio venga a salvarmi, perché da solo non ce la faccio.
Dio lo sa che senza di Lui non posso far nulla; sono io che ancora non lo so: devo arrivare a rendermene conto a forza di fallimenti e conseguenti disillusioni. Tutto posso in Colui che mi dà la forza. Nulla senza.
Al diavolo allora tutte le tecniche e le strategie ascetiche per cercare di resistere alla tentazione. L'unica è cercare di rimanere aggrappato a Lui. Come? Durante e dopo, pregando, parlandogli, anche mentre sto cedendo, impedendo alla vergogna di allontanarmi da Lui.
Può essere anche un semplice gesto: Ignazio di Loyola portava la mano al petto quando si accorgeva di aver fatto una stupidaggine.
Questo allora decido, Signore: non voglio più vivere nulla senza di Te. Se non ti trascino con me anche nella nebbia, come puoi avvertirmi quando mi sono perso e sussurrarmi all'orecchio di darti la mano perché è ora di uscirne; e che Tu, fin dall'inizio eri là proprio per esserci in questo momento?
E, se non riesco io a chiamarti accanto a me, vieni tu. Lo so che sai farlo prendendomi per lo stomaco e bloccandomi. Se non riesco io ad esserti fedele, siilo tu a me. Signore, se vuoi puoi salvarmi. Credo che puoi e vuoi farlo anche quando non ti rendo le cose facili, quando punto i piedi, quando ti volto le spalle; sennò non saresti il Dio Salvatore, ma lo spettatore dei miei successi.
La tua misericordia non è una spinta a tirarmi fuori dai miei problemi, ma il sottofondo del mio zoppicarti accanto, come posso. E questo è il cambiamento che essa opera in me: dallo sperimentare la mia capacità allo sperimentare la tua tenerezza nella mia incapacità. Dalla fiducia in me stesso alla fiducia in Te; e qui sentire la tua fiducia in me.

Salvarmi, Signore, ancora una volta non è rendermi perfetto, ma rendermi l’uomo che io posso essere, indicato dalla mia vocazione: è la mia vocazione, il mio modo personale di essere Amore con Te che non devo perdere, perché è qui che io e Te siamo uniti.
Che liberante, Signore: mi lasci vivere questo e quello, il bene e il peccato, ed entrambi, vissuti non senza di te, dici buoni per la mia crescita in te. Poi mi dici: «Vedi di viverli senza mettere in pericolo ciò che sei in me, la tua vocazione. Questo solo conta. Io voglio te; ti voglio come sei: un uomo. Non sta a te farti Dio. Io ti farò me. Ma io, solo io, so come farlo. Fidati e rimani in me».                                                                
                                                                                                                   Michele Bortignon


10/02/2017

Il giusto vivrà per fede

31 ottobre1517- 31 ottobre 2017: cinquecento anni sono trascorsi dacché Lutero affisse alla porta della cattedrale di Wittemberg le sue novantacinque tesi, di fatto dando avvìo alla riforma protestante. Posizioni inconciliabili? Incapacità di ascoltare le reciproche ragioni? Preghiamo perché il dialogo avviato continui, rendendo ricchezza le differenze.
Nel frattempo, a modo nostro vogliamo sentirci vicini ai fratelli protestanti in questa ricorrenza provando a dare voce a Martin Lutero, immaginando un suo dialogo con se stesso in cui ci parli della propria esperienza del peccato e della misericordia di Dio, nucleo della sua fede e motore della riforma da lui auspicata.
Non sei tu che ti rendi giusto riuscendo a non peccare o, peggio, giustificando ciò che fai come fosse buono.
Prendine atto: non ce la fai.
Continuare a confessarti è un altro modo di continuare a rimanere attaccato a Cristo, come la preghiera, ma nemmeno questo, in sé, ti rende giusto.
E’ Cristo che ti rende giusto in quanto sei in Lui, sei rivestito di Lui, non perché sei diventato giusto come Lui.
Non c’è rimedio: continuerai a peccare e a starci male perché pecchi.
Sei uomo, non Dio.
Ma Dio ti fa Sé per dono.
Ti fa figlio per adozione.
Nel momento in cui stai peggio perché ti senti lontano da Lui, alza gli occhi: incontrerai lo sguardo di un padre; alza le mani: Lui ti tirerà in braccio a Sé.
Perché Lui c’è e tu ci sei per lui.
Non è perché ti sei ripulito dal tuo peccato che Dio ti accoglie, ma con il tuo peccato, per mostrarti che Lui è più forte del tuo peccato, che il suo amore per te non ha paura né schifo di nulla. E a darti la Vita sarà la dolcezza di questo suo amore, non la soddisfazione di sentirti pulito e a posto. Davanti a tutti, così come sei, Dio grida che sei suo, che niente e nessuno potrà mai separarti dal suo abbraccio.

Nello scoraggiamento per la mia fragilità e incapacità di superarla, il rischio è di arrendermi al mio peccato e di conviverci.
No!!! Mi arrendo alla tua misericordia, Signore; accetto sia tu a dovermi rendere giusto riempiendo continuamente il mio vuoto di capacità con l’immensa ricchezza della tua grazia.
E il mio peccare…?
«Centrati in me e non sul tuo peccato», mi dici. «Da qui, dall’io in te e dal tu in me, nascerà il bene che io voglio essere e compiere attraverso di te. E… dalla tua lotta col peccato… pure da qui nascerà un bene.
E, alla fine, tutto sarà bene».

Per secoli i cristiani si sono combattuti tra loro, tacciandosi reciprocamente di eresia, ciascuno affermando che il suo era il solo modo giusto per rapportarsi con Dio. Questo di Lutero è uno. Un altro –un po’ più cattolico- lo vedremo nel prossimo post, ma cento altri ce ne sono che nascono non solo in persone diverse, ma anche nella stessa persona in momenti diversi della stessa situazione e in fasi diverse della sua crescita spirituale.
Riconoscerlo è il primo e fondamentale passo per sentirci compagni di cammino che si arricchiscono delle reciproche differenze e superare così le attuali divisioni.


                                                                                                  Michele Bortignon

9/02/2017

Il labirinto come metafora della vita

Il giardino della villa Barbarigo a Valsanzibio, sui Colli Euganei, è configurato come un percorso iniziatico che dalla purificazione conduce fino all’illuminazione.
Il primo gradino di questo itinerario è il labirinto: il sentiero tra le alte siepi di bosso è lungo più di un chilometro e prevede sette deviazioni senza sbocco, come sette sono i peccati capitali. Un’immagine del vivere, dunque, tra le difficoltà e le tentazioni dell’esistenza.
Percorrendolo, ci si rende conto del proprio modo di affrontare la vita, che rispecchia tal quale il proprio modo di dirigersi all’interno del labirinto.
Dall’entrata, un vialetto conduce diritto alla torre centrale, da cui è possibile gettare uno sguardo dall’alto. La tentazione è di fermarsi a questo e tornare subito indietro. Non è forse più facile guardare la vita dall’esterno, accontentandoci della descrizione che ce ne fanno gli altri, senza immergervisi? Ci prende l’ansia al pensiero di poterci perdere, di continuare a girare senza riuscire ad uscirne. E così, dal lavoro al divertimento, dal modo di vestire a quello di comportarci, tutto è già stabilito e organizzato… basta conformarsi… e alla fine uscire di scena convinti di avere vissuto.
No… voglio affrontare il rischio di vivere ed entrare nel labirinto. Ma subito iniziano i bivi, e più d’uno assieme. Tante sono le scelte, tante sono le strade che possiamo intraprendere nella vita, ma una sola di queste ci farà avanzare nel percorso. Permettendoci di raggiungere la meta.
Interessante come ho visto altri scegliere e altri ancora ho poi interrogato per sentire cos’avrebbero scelto:
  • vado a caso, sperando nella buona sorte
  • provo tutte le strade, finché non trovo quella giusta
  • se mi vedo in difficoltà, forzo la strada passando attraverso la siepe.
Altrettanti modi di affrontare le situazioni della vita che richiedono una scelta.
Io mi sono detto: dev’esserci un criterio attenendosi al quale è possibile individuare la via giusta. Il progettista certo non ha creato un caos, ma una sfida!
Ho preso il primo bivio a sinistra e così via avanzando, sempre a sinistra… e ho continuato a procedere senza intoppare nelle deviazioni senza sbocco.
A metà del percorso, ecco l’uscita di sicurezza. Forte la tentazione di uscire dall’ansia con cui il percorso continua a provarti. «Forse finora sono stato semplicemente fortunato», mi sono detto; «Perché rischiare ancora? In fondo la sfida l’ho accettata: occorre proprio vincere? Perché non accontentarmi del piacere e della tranquillità che tutti trovano fuori di qui?».
No, andiamo avanti: non sono fatto per la mediocrità. E allora avanti, avanti per sentieri sempre uguali che si stringono attorno a te, disorientandoti e facendoti mancare l’aria. Ad un tratto la vedo l’uscita: è appena al di là di quella siepe, vicinissima, e un ben tracciato sentiero si dirige in quella direzione. Ma il percorso non corrisponde al criterio da cui mi sono finora lasciato guidare. Possibile? E’ così evidente! Poter arrivare subito e porre fine a questo tormento! Decido di seguire la tentazione… ma qualcosa mi dice di tenere a mente il punto in cui mi trovo, nel caso dovessi ritornare. Non si sa mai…
Infatti l’allettante deviazione non porta da nessuna parte. E il ritornare non è così facile. Ma il ricordo e il sangue freddo mi aiutano e continuo per un percorso che mi allontana dall’uscita intravista per poi farmici ritrovare subito dopo. E’ finita: ce l’ho fatta!
Attenendomi strettamente –per fede!- al criterio intravisto, non mi sono perso nei rami morti dei peccati capitali, anche se ho rischiato forte proprio nell’ultimo, abbagliato dal suo presentarmi la felicità così a portata di mano. Non ci sono caduto solo perché il ricordo vivo della mia fede e l’intravvedere il nulla annullante della deviazione intrapresa mi hanno richiamato sulla strada giusta.
Continuando il percorso nel parco, poco più in là la grotta dell’eremita invitava a sedersi per riflettere sull’esperienza vissuta e ciò che essa ci dice di noi stessi.
Io l’ho fatto. E tu… in che modo ti stai aggirando nel labirinto della vita?

Michele Bortignon

8/02/2017

Il principio di realismo nell'accompagnamento spirituale

C’era un gioco che facevo da bambina, forse oggi non si usa più. Un ragazzino si metteva con il viso girato verso il muro o contro un albero e doveva impartire al gruppo, allineato una decina di metri dietro a lui, dei modi per avanzare fino a raggiungerlo. Impartito l’ordine si girava di scatto per sorprendere qualcuno in movimento; chi veniva scoperto mentre si muoveva doveva retrocedere.
La particolarità di questo gioco consisteva nel modo in cui i concorrenti dovevano avanzare; l’ordine impartito poteva essere, ad esempio: fare un passo da elefante oppure venti passi da formica, o due passi da gambero piuttosto che quattro da canguro. Chi dava gli ordini si divertiva a far avanzare più o meno rapidamente il gruppo o addirittura a farlo retrocedere con i passi del gambero.
Perché racconto questo? Non per nostalgia dell’infanzia, no. Ma perché l’immagine di questo originale modo di procedere mi ricorda l’avanzare nella vita spirituale delle persone che accompagniamo. È facile notare il passo da elefante che fa qualcuno, mentre può passare quasi inosservato il passo da formica di qualcun altro. Dà soddisfazione il salto da canguro, mentre un po’ deludente è il balzo all'indietro del gambero.
Eppure il passo da elefante e quello da formica valgono entrambi uno. Nella vita spirituale non dobbiamo misurare i chilometri macinati o le distanze coperte, ma le singole conquiste delle singole persone. Nella vita spirituale, un passo di due millimetri conta come un passo da metro: entrambi misurano uno. È vero che ognuno deve arrivare, ma l’arrivo non è un traguardo posto per tutti alla stessa distanza: ognuno ha il suo traguardo e le sue tappe personali. C’è chi vi si dirige con una andatura lenta e costante come una lumachina, chi prosegue a balzi e magari qualche balzo lo fa anche all'indietro, chi si gioca tutto sullo scatto finale. Ognuno ha la sua modalità che non va confrontata con le altre: l’importante è guardare ai passi fatti, alle conquiste ottenute. Non ci può essere una unità di misura unica per tutti. Certo l’accompagnatore si prefigura una risposta ideale, che corrisponde a un massimo ideale, ma la persona ha la sua risposta concreta e individuale che corrisponde alla sua misura personale. Per chi fa passi da formica quello è il suo massimo, la sua andatura, la strada che fa; l’importante è vederne i “frutti spirituali ”; e le sue conquiste non vanno paragonate a chi avanza come un elefante. Alla fine del cammino entrambi avranno raggiunto dei traguardi anche se, avviatisi dalla stessa linea di partenza, ognuno avrà linee di arrivo diverse.
E poi, proprio come succedeva nel gioco di cui vi ho parlato, non è detto che ognuno mantenga la stessa andatura. Lo possiamo constatare anche su noi stessi: quanti passi lenti, sofferti quasi, ma anche quanti passi lunghi, veloci facciamo nella nostra storia personale per muoverci verso Dio! E i passi all'indietro? Ma chi ci dice che quella volta che ci sembrava di retrocedere e cadere Dio non fosse invece proprio lì dietro di noi?
Maria Rosa Brian

7/03/2017

Chi sono i poveri per gli accompagnatori Kaire?

La domanda è rimbalzata nella mia mente dopo una riflessione e un approfondimento sull’esortazione apostolica Evangelii Gaudium di papa Francesco.
Il papa fa dei poveri e di una chiesa povera il centro del suo pontificato.  “Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica” [EG 198].

Partiamo da qualche punto dell’ Evangelii Gaudium:
“Rimanere sordi a quel grido [dei poveri], quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto...” [EG 187].
“Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17) [EG187].
Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso «si fece povero»” (2 Cor 8,9) [EG 197].
“…desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei*, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro” [EG 189]. (*Sensus fidei è quella capacità, infusa dallo Spirito Santo, che abilita ad abbracciare la realtà della fede con l’umiltà del cuore e della mente).
“Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro” [EG 189].


Il papa sottolinea dunque che i poveri non sono solo i destinatari del nostro aiuto, ma Dio vuole comunicarci qualcosa attraverso di loro.
Da brava cristiana avevo sempre pensato di dover dare per dovere… forse più che per amore. Dare io all’altro, magari in modo distratto, magari per liberarmene, per non entrare in relazione con lui: il lontano da me. Per me il dare era materiale, il di più, il mio superfluo, …a volte un po’ di più del superfluo. Spesso mi accompagnava quel senso di frustrazione dovuto alla sensazione che il mio dare era sempre un nulla in confronto del gran bisogno che c’era e c’è nel mondo. E a questo punto il diavolo ci andava a nozze, sibilandomi nell’orecchio: «Nel mare di miseria che affligge il mondo, la tua gocciolina evapora prima ancora di toccare la superficie. O tutto o nulla, o fai tanto o non fai». Questa era la conclusione a cui mi portava.

Ma Dio ci prende per mano e ci indica la terza via: «Da’ ciò che sei, non solo ciò che hai». Ho iniziato così ad offrire ciò che sono e ciò che la mia storia con Dio poteva dare agli altri. Mi sono ritrovata con una ricchezza che si rivalutava giorno per giorno grazie a chi cercavo di aiutare: proprio accompagnando le persone, camminando con loro tra mille difficoltà e mille problemi, stavo imparando da chi cercavo di aiutare.
Ho imparato da chi è povero, perché ammalato, il valore di una visita, di una carezza, della vicinanza. Ho imparato da chi è povero di pazienza, perché arrabbiato con Dio, l’importanza di saper contenere e raccogliere il suo sfogo. Ho imparato da chi è povero di relazioni l’importanza di un abbraccio, di un “ci sono per te quando ne hai bisogno”. Ho imparato da chi è povero di stima l’importanza di valorizzare e apprezzare le persone. Ho imparato da chi è povero di fiducia, perché deluso dalla vita, l’importanza di darsi coraggio, alzare lo sguardo e ripartire.
Pensavo di dare e invece ricevevo; mi accorgevo che il povero, qualunque povero, mi aiutava a migliorarmi, a crescere, a mettermi in crisi, a interrogarmi su tante cose e a cercare risposte che altrimenti nella mia tranquilla vita ovattata non avrei trovato.
Mi sono anche resa conto che le povertà dell’altro sono, o possono diventare, le mie stesse povertà. Ci sono infatti delle occasioni in cui anche a noi “non poveri” è data la sorte di esserlo per un periodo: una malattia che ci rende sofferenti e inabili, una difficoltà economica, un problema di relazione con una persona che amiamo… La differenza sostanziale è che quella che per noi è una caduta, per i poveri veri è una costante.
Abbiamo detto che il problema non è cosa fare per i poveri, ma essere con i poveri da poveri. Essere poveri con i poveri significa allora, in questa situazione per noi momentanea, non limitarsi a fare il possibile per uscirne, ma cogliere l’opportunità di comprendere “dal di dentro” cosa significhi povertà; comprendere: non per trovare e poi porgere soluzioni, ma per poter ascoltare senza giudicare, sentendo nel cuore ciò che il povero prova sulla propria pelle, offrendogli una presenza, spesso unico conforto possibile e comunque base per ogni ulteriore aiuto. E questo con-prendere, questo “essere con” ti fa più grande delle tante piccolezze della vita, regalandoti una “vastità” che ti dà pace.

A volte, a te “normale”, non è nemmeno la vita che ti fa lo sgambetto a renderti povero, ma puoi sentirti chiamato a farti povero potendo non esserlo. C’è un di più, un meglio, una bellezza che la vita ti offre, che è buono e piacevole per te, ma va a discapito di un di più, un meglio, una bellezza di vita con gli altri. Allora ti dici: «Posso, ma non voglio; magari cado, ma torno indietro; non è questa la mia strada…». Follia per il mondo, ma sapienza secondo Dio. Rinuncia a quell’isola felice in cui fuggire le difficoltà del quotidiano per rispondere invece alle esigenze di una realtà spesso difficile ma che, con le sue esigenze, ti fa crescere umanamente.
E’ questa povertà, fatta di fedeltà a ciò che sei chiamato ad essere -con impegno e misericordia!- che ti rende riferimento per chi si è reso o è stato reso povero da una fuga dalla realtà alla ricerca di un attraente “meglio” rivelatosi poi illusione, e che ora guarda con nostalgia alla tua “normalità”, banale ma felice.


Mariarosa Brian e Michele Bortignon

6/02/2017

E vissero per sempre felici e contenti

E vissero per sempre felici e contenti… succede solo nelle favole di principi e principesse? Si può essere sempre felici e contenti all'interno della coppia? Si può vivere una relazione sempre soddisfacente e appagante per entrambi? L’altro è al mio fianco per rendermi sempre felice e contenta? Oppure cammina con me per fare la sua strada accanto a me, che percorro la mia ed entrambi aiutarci a crescere e a capire la vita vivendola? Nella prima ipotesi -tu sei per me e io per te- è ovvio che l’aspettativa del “vissero per sempre felici e contenti” sarà delusa, perché la responsabilità della nostra felicità non possiamo delegarla ad altri. Nella seconda ipotesi, che è quella di un amore maturo che non considera l’altro in funzione della mia felicità, quel “vissero per sempre felici e contenti” assumerà un significato diverso.

Se la mia felicità non dipende esclusivamente da te e viceversa, invece di recriminare e tenere il muso se non mi dai abbastanza tempo, attenzioni, ascolto, aiuto, ecc., mi organizzo i miei tempi e i miei spazi in maniera autonoma. È questo uno stare insieme che non diventa soffocante; si tratta di crescere nella capacità di gestire spazi di autonomia quando l'altro ha bisogno di essere rispettato nei suoi spazi di autonomia. Ci sono tempi propri e tempi di coppia, l’importante è stabilirli di comune accordo: ora tu vuoi/devi fare una determinata attività/lavoro, ok io mi organizzo in una mia attività/lavoro rispettando i tuoi tempi, la prossima volta ci organizzeremo per fare qualcosa insieme.
Altro aspetto importante è capire e accettare i nostri sentimenti e quelli dell’altro sapendo che non è perentorio  il tutto o il nulla, il sempre insieme o mai, il mi ami o non mi ami. Una esercitante mi confidava di aver urlato al coniuge “TI ODIO” e di averlo effettivamente pensato in quel momento; di questo sentimento così forte che aveva provato si era spaventata. Devo imparare ad accettare i miei sentimenti senza spaventarmene: ora in questo momento di rabbia e di frustrazione, ti odio, ma… non ti odio sempre. Ora, non ti sopporto, mi dai sui nervi, ma non è per sempre. Per sempre è che abbiamo deciso di stare insieme; per sempre… nonostante momenti di rabbia, di rancore, di dubbi. Nella realtà non è “vissero per sempre felici e contenti” perché sempre innamorati, ma “vissero per sempre felici e contenti” perché contenti di se stessi, perché capaci di rispettare gli spazi e i tempi dell’altro, perché capaci di accettare l’altro così com’è, diverso magari da come me lo aspettavo e da come lo avevo idealizzato. E aspettandomi qualcosa di buono per me proprio da questa diversità, che destabilizza i miei consolidati modi di vedere e di essere, sfidandomi a sperimentare il cambiamento e a crescere.
Nella nostra vita, che non è una favola, ma la storia più bella che abbiamo, alla fine di ogni giorno scriviamo la frase “e vissero per sempre felici e contenti” pronti a rimetterci in gioco il giorno successivo con una storia tutta nuova da vivere e da inventare.
Maria Rosa Brian


5/02/2017

Superare il dolore

Il dolore: c’è un problema più grande nella nostra vita? Il dolore fisico provocato da una malattia… Il dolore intimo indotto dalla perdita di ciò che ti faceva sentire amato, capace, sicuro…
Quando ne sei preso, hai l’impressione che il mondo ti crolli addosso, che per te non ci sia un futuro, che nulla più abbia un senso. E, anche se non arrivi a questo, hai comunque tanta rabbia dentro per quel che ti hanno fatto gli altri o la vita.
Buddha aveva posto il dolore al centro della sua riflessione e la sua dottrina mira a rimuoverne le cause attraverso un lavoro su se stessi. Per Gesù, invece -Che interessante!-, il centro non è il male da evitare per se stessi, ma il bene da fare agli altri… per il quale si è disposti anche a incontrare sofferenza e morte, ma che in prospettiva  porta a una risurrezione: un bene che nasce proprio da questa morte, superiore a quanto avresti mai saputo costruire cercando di salvarti da solo.
Questa è dunque la “ricetta” cristiana per superare il dolore: non preoccuparti per te stesso; occupati degli altri.
La mente concentrata sulle proprie sensazioni implode; se la applichi a un bisogno altrui, anziché al tuo, non solo ti distrai, con un opportuno ridimensionamento del problema, ma soprattutto scopri che il bene non è un non soffrire, ma creare qualcosa di buono, di bello, di vero, che ti avvicina a Dio rendendoti con Lui con-creatore del mondo.
In questo senso va interpretata la rinuncia al mondo che i padri del deserto, nel quarto secolo, facevano all’inizio del loro ritirarsi: un rinunciare a quell’ansioso cercare di ottenere o a quell’angosciato attaccamento a ciò che soddisfa i tuoi bisogni di affetto, di validità, di benessere. Nell’esperienza dei padri, questa rinuncia dev’essere decisa, radicale e definitiva, pena l’essere travolto dai pensieri che ti ritrascinano nella preoccupazione di te stesso e quindi, ancora una volta, nella sofferenza. Non si entra in discussione con i pensieri, ma ci si attiene a quanto già deciso con Dio nel discernimento: è questa la prima regola della lotta spirituale, sulle orme di Gesù, che oppose un reciso «Sta scritto…» a ogni tentazione avanzata dal Nemico.
Ad evitare di interpretare la rinuncia come una sorta di masochismo, occorre sottolineare che la vita cristiana è sempre nell’ottica della Pasqua di Cristo: non c’è risurrezione senza morte, ma nemmeno morte senza risurrezione!Ecco allora che la rinuncia ai tuoi incancreniti e stereotipati modi di agire è il passo necessario per aprire le porte all’entrata di una novità radicale di cui puoi accorgerti e che puoi accogliere solo dopo averle preparato lo spazio con la tua rinuncia e con la tua attesa. Solo quando sei diventato vuoto puoi essere riempito. Quando non hai più nulla e puoi solo appoggiarti a Dio, allora Dio diventa il tuo tutto e ti riempie di Sé e della sua ricchezza di vita.
Quando sei nella morte con Dio, inizia dunque a lavorare con la morte per farla diventare via alla Vita. Così ha fatto Cristo. Ti sono concessi i tre giorni nel sepolcro per piangere e lamentarti; ma poi afferra la sua mano e tirati su. E va’ incontro con fiducia alla tua risurrezione, sapendoti accorgere dei segni con cui essa viene presentandosi.

Che dici: vogliamo provarci?

Michele Bortignon


4/15/2017

La vita vince (Mt 28,1-6)

Gesù è morto e sepolto. Una storia si è conclusa. Chi abbiamo amato ci ha abbandonato. Finito tutto. Razionalmente, una morte, una malattia, un abbandono, una separazione, un licenziamento, ecc. mettono la parola fine a una vicenda lasciando solo l’amaro in bocca.
Eppure, a saperla leggere con la speranza che il cuore ci suggerisce, ogni “morte” può portare a una risurrezione.
Maria di Màgdala e l’altra Maria mentre andavano, in quel giorno dopo il sabato, a visitare la tomba di Gesù, erano animate già da uno Spirito nuovo. L’Amato viveva già in loro, non poteva essere diversamente: loro andavano per stare assieme a Gesù, non per vegliare un cadavere.
Anche le guardie si trovavano nello stesso luogo, ma con uno spirito e uno scopo diverso. Loro non avevano fatto esperienza dell’Amore: loro erano a guardia di un sepolcro. Cosa potevano vederci di diverso da quello che già si aspettavano?
E’ proprio questo credere Dio presente nella nostra situazione, nonostante le apparenze ci dicano il contrario, a trasformare una situazione di morte in resurrezione.
È la presenza di Dio a cambiare la situazione e ad alleggerire i macigni che pesano nel nostro cuore. E se, assieme a Lui, sappiamo guardare alla situazione con occhi nuovi e uno Spirito nuovo, possiamo fare esperienza, con Lui risorto, di una risurrezione anche per noi.
L’angelo disse alle donne: …So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto»”. L’angelo sembra quasi dire alle donne: «Smettetela di cercare e vedere nel solito modo, ma guardate oltre, al nuovo, al cambiamento a cui Dio vi spinge e in ciò sentirete che Lui è con voi». E, fidandoci di questa parola, affidandoci a questo nuovo modo di vedere, questa situazione comincia a presentarsi sotto un’altra prospettiva.

In vista della Pasqua, abbiamo posto a confronto questa esperienza delle donne con una nostra personale esperienza di “morte” che abbiamo visto risuscitare quando ci siamo fidati di Dio. Ci siamo chiesti: «Quando anche noi siamo tornati a una situazione pensando di trovarla morta, sterile, conclusa, senza speranza e invece abbiamo scoperto che proprio in quella morte si stava preparando una risurrezione?».
Ne sono emerse le testimonianze che riportiamo di seguito.

Nella malattia 

Mi sono trovata in una situazione in cui mi veniva naturale chiedere la guarigione: "Signore ti prego fa che non sia quello che penso". Mi veniva anche da barattare la guarigione con qualcos'altro: "Signore se guarisce ti prometto che..." 
Mi metteva in crisi la devozione che vedevo negli altri, fatta di candele accese e novene. Io non riuscivo a pregare in questo modo, non sapevo cosa pregare, o meglio pregavo chiedendo a Dio di stare in quella situazione di dolore con me, con loro; gli chiedevo di esserci, di non lasciarci scivolare nella disperazione. Chiedevo una presenza, una vicinanza. Chiedevo di poter essere per loro un tramite di quello che già sentivo io: un Dio che mi prendeva in braccio e mi diceva di non temere, che qualsiasi cosa sarebbe accaduta Lui ci sarebbe stato. La certezza che Lui c'era, era già preludio di resurrezione in qualsiasi modo si fosse conclusa la vicenda.
Maria Rosa


Nello sconforto

Il servizio civile, trascorso in una casa famiglia a contatto con ragazzi “difficili”, diventa esperienza concreta di amore e di Dio. L’anno trascorre, l’esperienza finisce, si torna alla vita di sempre, qualcosa “muore”… ho visto svanire un sogno come i discepoli alla morte del Signore. C’è stata delusione, amarezza: alla fine ho scelto la vita normale. Ma chi ha fatto esperienza di condivisione, di comunità, di famiglia non riesce più a tornare alla vita di prima. Anni dopo ho saputo che un ragazzo che seguivo si era cacciato in un brutto giro; la persona che mi raccontò il fatto sentenziò che gente così starebbe bene chiusa in galera e buttare le chiavi. Giudizio che prima della mia esperienza mi sarebbe appartenuto. Ma questo ragazzo di cui si parlava faceva parte della mia vita, io conoscevo la sua storia passata, le sue grandi sofferenze e solitudini, gli volevo bene come a un figlio. Quel giorno ho fatto risorgere in me l’esperienza vissuta del servizio civile e la consapevolezza che non posso giudicare mai una persona solo da ciò che compie, ma posso solo, se lei lo vuole camminare assieme. È nata così, la disponibilità e la voglia di essere, assieme a mia moglie, una famiglia accogliente.
Domenico

 

In una difficoltà nel lavoro

Un fià massa de corsa
a me parea de ‘ndare
e qualcheduni drìome
che no me assàva stare.

Goi fato o no goi fato?
Che ansia… aiuto! Aiuto!
El stomego el se strenze
se no ze a posto tuto!

Ma e robe, a un serto punto
e cambia: el to paròn,
a dirla proprio s’ceta,
te buta so on canton.

Che rabia! Che ingiustissia!
Ze massa grando el scorno.
Ma chietate un pocheto
e vardate un fià intorno…

Te sito mai inacorto
che a fare na paroea
co chi che te lavori
ze un gusto e ‘l tempo el svoea?

Sì, giusto, ze importante
produrre e lavorare
ma no fin a dersfarse…
No a ze, sta qua, so mare!

No stà voère un “Bravo!”
se questo costa massa.
No te par che sia mejo
co a femena a te imbrassa?

No sta sercar distante
a to feissità!
Se ti te vardi puito
te a vedi: la ze qua!
Michele


Nelle difficoltà della vita

Nella vita le situazioni difficili sono molte; la mia esperienza  mi ha insegnato a non disperare mai e ad avere fiducia nell'Amore. Molto spesso ciò che oggi ci appare segnato dal dolore e senza via d'uscita nel tempo assume aspetti diversi e cambiamenti che mai ci saremmo aspettati. La realtà, che dapprima sembrava pregna di disperazione e angoscia, ad un certo punto ci mette davanti  orizzonti  di luce insperati.
Attraverso la preghiera, anche semplice ma sentita, l'Amore si fa strada nell'intimo della persona e della vita e la Bellezza si manifesta quando meno ce lo aspettiamo.
Ho potuto toccare con mano morti e resurrezioni in tante esperienze personali. Ai miei figli cerco di trasmettere il messaggio di non mollare mai anche quando la strada si fa assai ardua perché le soluzioni, con impegno e affidamento nelle mani di Dio, si trovano e ad un certo punto arrivano.
Con l'aiuto del Padre e la sincera condivisione con Lui dei fardelli della vita, passo dopo passo, una nuova leggerezza si fa strada e il guardare all'esistenza con occhi positivi ci apre a nuove possibilità e prospettive. E' questa che io chiamo Resurrezione.
Anna



E tu, quando guardi dentro al tuo sepolcro, quali germogli di risurrezione ci vedi?

Buona Pasqua di risurrezione!


 Maria Rosa Brian 

4/01/2017

Una via verso la risurrezione

La Pasqua imminente, celebrando la Risurrezione, mi porta a chiedermi: che cos'è la mia risurrezione? C’è una vita oltre quella che conosco? E poi… cosa significa quella “risurrezione della carne” proclamata nel credo apostolico?
Se lascio perdere le speculazioni teologiche e mi attengo al Vangelo, trovo un’importante indicazione in Mc 16, 6-7: Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”: il risorto non è andato in un’altra vita, ma è tornato “in Galilea”, nella vita quotidiana di chi vuol incontrarlo. E questo incontro lo troviamo anche descritto nei racconti delle apparizioni post-pasquali: la Maddalena, i discepoli di Emmaus, gli apostoli tornati a pescare lo riconoscono non dalle sue fattezze umane, ma da ciò che dice, da come lo dice, da ciò che fa. Cosa significa? Che Cristo continuiamo ad incontrarlo in persone che vivono nel suo Spirito perché il suo Spirito è presente in loro.
Questo allora cosa dice a me per la mia risurrezione, ossia per il mio desiderio di continuare ad esserci e ad “essere con”? Come mi aiuta per ritrovare un contatto con i miei morti, per continuare a sentirli vivi?
Proviamo a pensare… Quando chi amiamo non ci è accanto, com’è che ce lo sentiamo vicino? Nel ricordo affettuoso. Il ricordo ce lo rende presente in “icone”: rappresentazioni mentali di gesti, di modi di essere, di parole che ci hanno toccati al profondo, ci hanno emozionato, sono stati significativi per noi, in primis tutto ciò che ci ha fatto sentire amati. Cade invece nell’oblio tutto il banale e nascosti sotto un velo di misericordia i frutti di tante debolezze e fragilità. Quando una persona muore, questi ricordi si fissano nella memoria, prendono forma in un’immagine che ora non è più “carnale”, ma “spirituale”; da ciò che è stata ed è stato importante per noi, essa ci parla, e la sua fisionomia, ora formata da tratti esclusivamente belli, influenza la nostra, portandoci un po’ a rassomigliarle. Ciò che di lei è stato bello, vero, buono si incarna in noi quando sentiamo importante viverlo anche noi: è questa la risurrezione della carne…? E, diventato bello, vero, buono in noi, continua a suscitare in altri il desiderio di viverlo a loro volta: è questa la vita eterna…?
Ecco allora che c’è una via alla risurrezione: tutto ciò che di bello, di vero, di buono diciamo e facciamo è ciò che di noi vive in eterno; meglio, siamo noi che in esso continuiamo a vivere, fortunatamente depurati da tutto il banale e il cattivo che siamo stati.
Mozart è vivo e mi rende vivo nella bellezza della sua musica. E’ in essa che lui c’è e solo questo ora c’è di lui.
Di noi resta tutto ciò che è fatto e vissuto con amore, perché l’amore realizzato è bellezza, e la bellezza, in quanto fonte di Vita, non muore, ma dura in eterno.

“L’unica vera ricchezza dell’uomo è solo ciò che ha donato, perché ciò che ha donato è già nell'eternità” (San Giovanni Crisostomo)  
                                                                                    Michele Bortignon

3/01/2017

Il dono della zizzania

Ti sei mai sentito dolorosamente spaccato a metà? Una parte di te è saldamente ancorata a Cristo, che è per te una vera ragione di vita, ma c’è un’altra parte di te che si lascia attirare dalle comodità, dal piacere, dalla tranquillità che vedi cercate da tanti nel mondo in cui vivi. 
Istinto e ragionevolezza, desiderio e ponderatezza, passione e dominio di te stesso si agitano nel tuo cuore in antitesi tra di loro.
Nei momenti di ripensamento sei profondamente amareggiato dall’andirivieni che ti vedi percorrere dall’una all’altra di queste due parti: né santo né grande peccatore, in una mediocrità che ti disgusta; ti proponi allora di sradicare decisamente il “male” che è in te, proponendoti una vita integerrima.

Nella parabola della zizzania (Mt 13, 24-30), Gesù sembra però d’altro avviso: raccomanda di non togliere la zizzania per non rischiare di sradicare anche il grano buono. Il pericolo è di perdere i chicchi di grano nel tentativo di togliere le sterili spighe della zizzania. Fuori metafora, il rischio è di trascurare il bene perché si impegnano tutte le proprie forze nel cercare di sradicare il male. E’ questo un importante punto di svolta nel cammino di una persona impegnata nel bene: il moralismo ingessa nella paura di agire, inaridisce l’amore per la Vita, che ci fa vibrare di sentimenti anche contrastanti e ci chiede di aprirci la nostra strada sperimentando, rischiando, cadendo, sbagliando, rialzandoci e riprovando. «Pensate a coltivare il grano e non occupatevi della zizzania», dice Gesù. Lasciatevi guidare dal buono che c’è nel vostro cuore senza spaventarvi del male: bene e male vi coabitano. Dio sa che nell’uomo coesistono entrambi e ama l’uomo così com’è, con le sue zone di luce e ombra. Lasciateli entrambi, grano e zizzania; a tempo debito si vedrà… chissà se, per allora, la zizzania non avrà dato anch’essa un frutto buono, facendoci fare esperienza di ciò che è inutile, sterile, dannoso, di ciò che fa male agli altri e a noi stessi. Noi non sopportiamo la prova del tempo, in cui il peccato stilla tutta la propria amarezza facendoci capire il suo imbroglio e il bene si fa strada silenziosamente accettando la fatica e le difficoltà. Abbiamo la mentalità dei servi: sono i servi, non il padrone, a voler togliere la zizzania. I servi non hanno fiducia nella  capacità della vita di insegnarci attraverso i nostri errori e vogliono “metterla a posto” secondo la loro visione. Quante volte anche noi preferiamo negare ciò che è accaduto o credere che non sia successo niente? Vorremmo chiudere con la pesantezza della natura umana e sentirci già in Dio. Ma non è, questo, proprio il contrario di ciò che Dio ha fatto? Cristo assume la pesantezza della natura umana; non la nega, ma la divinizza: la trasfigura e la fa risorgere. Ecco… come trasfigurare la zizzania? Non toglierla…, e nemmeno travestirla da grano con le nostre autogiustificazioni… Che cosa allora? Ma questa è una domanda ancora una volta da servi, che vogliono sapere cosa fare anziché star seduti ai piedi del loro Signore lasciandosi ispirare da Lui, imparando da Lui giorno per giorno, mettendo insieme, nel discernimento, quei due grandi maestri che sono vita e Parola, così da individuare il passo successivo e solo quello.
Non sarà un progetto di santità ben costruito a cambiarci la vita, ma il guardare Gesù, e il sentirci guardati da Lui, con simpatia e con fiducia. Forse comincerà allora a germogliare in noi la spontaneità di vivere con gli altri quel che abbiamo vissuto con Lui: il rispetto, la valorizzazione, la misericordia, la bontà, che prenderanno di volta in volta forme diverse nella situazione che stiamo vivendo.
Spariranno le nostre tentazioni? Riusciremo a vincere il male che è in noi? Nella parabola, non è, questo, un compito dei servi, ma dei mietitori: situazioni –probabilmente difficoltà, problemi, sofferenze…- che fanno emergere ciò che in noi è fecondo di buoni frutti e ciò che invece è sterile, inutile, dannoso, …da bruciare.
Fino a quel momento, il tempo della tentazione e del peccato ci è dato allora come luogo in cui conoscere noi stessi in verità, in cui sperimentare la misericordia di Dio, in cui vivere con gli altri, altrettanto peccatori di noi, la misericordia gratuitamente ricevuta da Dio.

                                                                                                      Maria Rosa Brian
                                                                                                      Michele Bortignon





2/05/2017

Quando l’amare incontra l’Amore

«Non provo più nulla per questa persona. Non l’amo più». Quante volte anche noi abbiamo sentito pronunciare questa frase?! Pure, in me c’è sempre una sofferenza nell’ascoltarla e un qualcosa che ad un tempo mi spaventa e mi mette in ribellione.

Mi spaventa perché nemmeno io sono immune da quel rovesciamento di affetti che si prova quando si è toccati al vivo dalla delusione delle aspettative riposte in chi sembrava rispondere così bene alle nostre attese. E ribellione di fronte al comune pensare che l’amore sia soltanto un sentimento che viene e va come vuole, senza che possiamo farci niente.
La prima di queste due spinte interiori dice: «Hai una sola vita! Non lasciartela succhiare da chi non ti dà nulla in cambio. Riprenditela in mano e gestiscitela, come hai diritto di fare, per realizzare quello che invece finora hai sacrificato».
L’altra spinta è piuttosto qualcosa che ti trattiene, facendoti sentire che la realtà è ben diversa dai nostri schemi ideali… Né tu né l’altro siete santi, ma nemmeno demoni: ognuno cerca di navigare nella vita come può, seguendo la propria visione di ciò che è bene. E volendoti bene come sa e come può.
Il guaio è che a questo punto di scoraggiamento si arriva quando appunto il sentimento, che prima era mosso dal reciproco desiderio di far propria la positività dell’altro, si dissolve ora nella banalità del quotidiano, dove questa positività non è più percepita perché assodata e quindi scontata, mentre emergono tanti piccoli ma esasperanti difetti.
Cosa si può fare per rialzarsi da questa palude di depressione, per salvarsi dal Nulla che avanza tutto annullando?
Inutile continuare a cercare all’interno della coppia: probabilmente abbiamo sperimentato tutto l’esperibile! E nemmeno guardandoci attorno, in un mondo comunque depresso e scoraggiato, probabilmente riusciamo a trovare un aiuto.
Ma c’è un cielo che ci sovrasta, che nella sua immensità ci invita a guardare oltre; c’è un creato che ci circonda, che nella sua bellezza ci riempie il cuore d’altro.
Nell’Altro e nell’Oltre, da sempre l’uomo ha colto una speranza a cui ha dato un nome: Dio.
E quando da questa speranza, intessuta di bellezza e di infinito, ti lasci avvolgere, ecco che ti inonda una pace in cui tutto ridiventa possibile.
Forse, proprio in quel momento, capirai che l’altro non è al mondo per realizzare le tue aspettative e attese, rispondendo ai tuoi bisogni, ma per aiutarti a imparare ad amare, accogliendolo proprio per quello che è e nonostante quello che è; non perché sia attraente o capace di dare, ma perché la vita te lo ha posto accanto, ad un tempo come pietra angolare e sasso d’inciampo.
Amare, in fondo, è la decisione di essere uno con l’Amore.

                                                                                                           Michele Bortignon

1/03/2017

Che cos’è l’umiltà?

A volte, per capire meglio il significato di un concetto, può tornar utile studiare il vocabolo da cui esso deriva.
Umiltà… mi interessa perché è una delle virtù fondamentali del cristiano. Deriva dal latino “humilitas”, che, a sua volta, deriva da “humus”. Che cos’è l’humus? Da forestale devo saperlo bene, perché dall’humus dipende la fertilità del terreno e, conseguentemente, l’accrescimento del bosco. L’humus, dunque, è lo strato più superficiale di un terreno non lavorato (normalmente è presente nel sottobosco). In esso si depositano le foglie che gli alberi sovrastanti lasciano cadere in autunno per depurarsi di tutte le sostanze di scarto che hanno accumulato durante la stagione vegetativa. Nell’humus lavorano lombrichi, artropodi, funghi e batteri che demoliscono le foglie per trasformarle in sostanze nutritive (azoto, fosforo, potassio e microelementi) pronte ad essere assimilate dagli alberi attraverso le radici. Quando l’humus non c’è, ad esempio in un substrato sassoso, ci vogliono molte decine di anni perché, attraverso la successione di licheni, muschi, erbe ed arbusti, si formi uno strato umifero che permetta l’insediamento del bosco.
Torniamo ora a noi, tenendo a sfondo quanto abbiamo appena detto: che cos’è l’umiltà, che nel suo significato autentico prende il nome dall’humus? Perché è il fondamento della spiritualità del cristiano?
Innanzitutto vediamo come nasce. E’ crudo ma è così: come l’humus nasce dalla “cacca” delle piante, parimenti l’umiltà, quella vera, nasce dall’umiliazione, quando altri ti fanno la loro “cacca” addosso. E lì decidi di viverla con il tuo Signore: vietandoti la reazione impulsiva che vuol farti mostrare più forte di chi ti sta calpestando («…adesso ti faccio vedere io!») e… aspettando. Proverai rabbia, ma decidi di viverla in silenzio. Ti scapperà qualche sfogo, ma tu, poi, ritorna all’attesa, credendo che la cacca che ti hanno buttato addosso può trasformarsi in buon concime. Forse, finora sei riuscito a dirigere la vita nella direzione che volevi tu; prova ora a lasciare sia la vita stessa a guidarti. Nell’attesa, puoi restare a guardare cosa succede. Può darsi che in mezzo alla cacca ci sia qualcosa di buono per te, qualcosa che ti è stato vomitato addosso perché con le buone finora non l’hai capito. Se è buono, a contatto con il tuo humus germinerà, e potrà diventare un albero grande. Se invece quel che gli altri vogliono importi non germina (difficilmente è solo cacca) non significa che sia sbagliato, non significa nemmeno che sei tu ad essere sbagliato: semplicemente non è adatto a te; quel che è sbagliato è mettere per forza assieme due cose che hanno esigenze diverse perché hanno destini diversi.
In entrambi i casi, molto più importante è quel che ti lascia il rimanere in questa esperienza osservando cosa succede. Cominci infatti a capire che:
  • hai interesse a considerare punti di vista nuovi e magari ad accoglierli;
  • hai il diritto di veder rispettato il tuo modo di essere;
  • nel concreto del cosa fare, non c’è un giusto e uno sbagliato (chi lo afferma vuol manipolarti), ma un adatto o non adatto a te e alla tua situazione;
  • in una situazione che coinvolge te e l’altro, non ci sei solo tu, non c’è solo l’altro: il cosa fare deve andare bene ad entrambi;
  • la relazione è più importante della soddisfazione dell’imporsi; ma se devi rinunciare a qualcosa che per te è importante, anche la relazione può essere messa in discussione.
Come l’humus, dunque, anche l’umiltà “digerisce” tutto quel che ti succede: ne tira fuori il bene che contiene e ricicla il resto in capacità di affrontare la vita con maturità. C’è il bene e c’è quel che può essere trasformato in bene: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”! (Rm 8, 28).
Umiltà è dunque pacatezza nel discernimento. E’ fortezza a contatto con un mondo nevrotico. E’ piena consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie risorse nell’affrontare le situazioni difficili che ci si trova a vivere. E’ fiduciosa visione positiva della vita. E’ una sospensione del giudizio in attesa sia lo Spirito in me a parlare; mai, dunque, apatia, rassegnazione, accettazione inerte di quel che succede. Non è vera umiltà quel considerarsi un nulla che rende passivi e succubi della volontà altrui, in un’obbedienza che, in realtà, è delega di responsabilità.
Potremmo concludere che l’umiltà è fare un passo indietro per lasciare il primo posto a Dio, che sa far emergere la verità dalla vita stessa.


Michele Bortignon


La pazienza e la tolleranza non vanno considerate un segno di debolezza e di rinuncia, ma, anzi, un segno di forza: la forza che proviene dalla saldezza interiore. Reagire a circostanze difficili con pazienza e tolleranza, anziché con rabbia e con odio, significa avere un controllo attivo delle cose, che è frutto di una mente forte e autodisciplinata.

                                                                                                Dalai Lama