12/24/2020

Natale: Dio con noi

 «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa «Dio con noi».  (Mt 1,23)

L’evangelista Matteo in questo versetto cita una profezia di Isaia (7,14). La nascita di Gesù è vista come compimento dell’attesa da parte di Israele del Messia, il salvatore promesso al popolo ebraico.

Leggendo questi versetti con occhio critico, possiamo dire che un evento impossibile (una vergine che partorisce) s’inserisce nell’evento più naturale (la nascita di un bambino).

Leggendoli con l’occhio della fede possiamo vedere nell’impossibile il possibile, nel divino l’umano e nell’umano il divino.

Ecco: l’uomo è un impasto di possibilità e impossibilità, di certezze e dubbi, di sogni e realtà, di divino e umano. Nell’uomo convivono razionalità e fede, paure e gioie; nell’umano gli opposti s’incontrano.

Nella mia esperienza di fede, nel cammino che è la mia vita, quando l’impensabile è diventato realtà, quando una situazione straordinaria mi ha mostrato l’ordinario e in quell’ordinario ho riconosciuto l’Emmanuele, il Dio con me, confermandomi che: “Sì, la Vergine ha partorito un figlio e questo figlio è Dio con noi”?

 Abbiamo provato a rispondere a questa domanda cercando nella nostra storia personale e lo abbiamo fatto con il gruppo “Kaire!” che, proprio a causa di un evento straordinario -questa pandemia-, è stato costretto a sospendere gli esercizi spirituali nella vita ordinaria.

 Eccone le diverse esperienze:

Una casa all’asta; una famiglia sul lastrico che sta perdendo tutto, anche la dignità di poter avere un tetto e un posto dove vivere; un gruppo di amici che si fanno carico di questa situazione e bussano chiedendo aiuto ad altri. Ed ecco che velocemente il cerchio si allarga, le mani si aprono in gesti concreti, mentre i cuori si stringono attorno a chi è nel bisogno: il poco di tanti diventa quel molto che serve per riscattare la casa e ridare serenità a questa famiglia. Gesù nasce ogni volta che il contributo di tanti rende possibile ciò che da soli ci sembra impossibile, Gesù nasce e abita dove il fratello si fa carico del fratello.

Proprio in questi giorni è morto don Giuseppe, mio parroco a Stroppari quando mi sposai. Era un sacerdote giovane con tanta forza, gioia, entusiasmo. La sua è stata una testimonianza di grande e vera fede. Ha vissuto con forza i suoi ultimi giorni portando chiunque avesse letto le sue righe in facebook a dire che ce l’avrebbe fatta ad uscirne. Ha avuto la speranza di guarire, ma sempre molto equilibrata e realista, facendo quasi pensare che guarire fosse importante ma non fondamentale. Ha amato Gesù Cristo e la sua vocazione in modo completo, spendendosi per la parola di Dio la domenica, nel catechismo, per il Grest, per la musica. La fede poi è stata fondamentale. Nelle testimonianze di gente che non si era mai conosciuta prima, all’unisono, risultava questa caratteristica: una fede incrollabile di fronte alla vita e alle sue prove, da cui probabilmente nasceva il suo entusiasmo e la sua gioia. E’ indimenticabile per me ricordarmi di lui e lo farò anche in futuro quando le incertezze si faranno all’orizzonte. Aiutami a capire che i tuoi segni stanno sulla strada del mio cammino. Rafforza la mia fede. Vieni Signore Gesù !

Quando è iniziata questa pandemia, lavoravo in una ditta tessile; ero contenta perché dopo diverse esperienze lavorative avevo trovato un buon posto. Ritrovarsi tutti a casa -marito e tre figli, due maschi di 24 e 22 anni e una femmina di 20- pensavo non sarebbe stato facile, invece, con mia meraviglia, ho passato proprio un bel periodo sereno e gioioso. Lo stare insieme, mangiare insieme, che prima non era sempre possibile, è stata un’opportunità per parlare, confrontarsi e rinsaldare il nostro legame. Dopo il lockdown la ditta ha riaperto, ma io non sono stata richiamata. Se questo fosse successo qualche anno fa, mi sarei afflitta, invece, con mia sorpresa, sono riuscita a gestire la situazione meglio di quanto mi aspettassi, dando priorità a famiglia e salute. Tutto questo per dire che, nonostante gli avvenimenti accaduti quest’anno (lockdown e perdita del lavoro), sono riuscita ad affrontarli con serenità; questo credo sia grazie al kaire, il cammino intrapreso l’anno scorso, che mi ha aiutato a vedere la vita con occhi diversi, apprezzando quello che ho e accorgendomi delle piccole cose e vedendo tutto come dono.

Anni fa, nella mia vita l’impensabile è diventato realtà quando sola, stanca, delusa ho accolto l’Amore che mi ha avvolto in una nube dalla quale non sono uscita sola. Dio che è l’Amore mi ha donato l’amore. In due abbiamo iniziato un cammino, agli occhi di tutti irto di difficoltà, ma per noi il terreno accidentato si era trasformato in piano e quello scosceso in vallata perché da sempre consapevoli che Dio era con noi. 
Quell’Amore che mi avvolgeva mi ha fatto scalare i monti del formare una nuova famiglia dove già c’erano dei figli, solcare mari tempestosi con la certezza della Parola “Non temere io sono con te”. Oggi ho la consapevolezza che nell’ordinaria quotidianità Dio parla all’uomo e nel Natale l’Emmanuele ci rende capaci di vedere l’invisibile.


Buon Natale del Signore nella nostra vita.

MariaRosa, Angela, Tania e Francesca.

 

 

12/01/2020

Bellezza e mistero

 

In quanti modi può parlarci Dio? O, meglio, lasciamo da parte la parola Dio e diciamo: in quanti modi ci toccano la Verità e la Bellezza per farci vibrare in sintonia con loro?

Ricevo o faccio un gesto, ascolto o dico una parola che mi riempiono il cuore e mi fanno stare bene e sento che lì c’è qualcosa di vero e di bello.

E’ nel mondo delle relazioni umane che faccio prima di tutto quest’esperienza. In quelle che mi circondano, ma anche in quelle che mi raggiungono da tempi e da luoghi più o meno lontani, rendendomi partecipe di una saggezza che mi emoziona e ispira i miei desideri.

Ma sento anche che Verità e Bellezza sono dimensioni del mistero della Vita. Mistero è la realtà che abbiamo davanti e non sappiamo vedere; è il luogo in cui, abbandonando la guida, diventa meraviglioso perdersi; è l’infinito che si rivela in un’emozione che non sapremmo esprimere. La Verità e la Bellezza sono il suo modo di sfiorarci.

Ma il mistero puoi esplorarlo. Come? Con lo stupore. Con lo stupore che nasce dal semplice accorgerti. E riesci ad accorgerti quando dai dignità a ciò che guardi. Allora tutto acquista significato. Allora tutto ti parla. Di sé e di te. Di te attraverso di sé.

Allora un fiore non è più soltanto un fiore, un albero non è più soltanto un albero, un animale non è più soltanto un animale, ma tutti sono frasi di un discorso che si costruisce in risposta alle domande che ti porti dentro.

Spesso ci vuole un interprete che, esperto di parole che si lasciano intuire più che comprendere, ti introduca a questo linguaggio. Con il suo aiuto entrerai nella quarta dimensione della realtà, quella dello Spirito, dove tutto è intimamente unito a tutto e la Verità e la Bellezza ne sono l’anima.

 Michele Bortignon

11/01/2020

Le mozioni interiori: motori del nostro comportamento

Gli atteggiamenti, i comportamenti, le scelte, le decisioni che decidono la direzione del nostro cammino sono determinate da ciò che proviamo interiormente più ancora che da quel che pensiamo: come dice Pascal, "Il cuore ha ragioni che la ragione non comprende".

Questi sentimenti, che proviamo come reazione interiore a una presa di coscienza, a un avvenimento, a un'esperienza di vita e che ci spingono ad assumere un determinato atteggiamento, comportamento o decisione, sono chiamati "mozioni", appunto in quanto ci muovono a un’azione.

Da qui l’importanza di prendere coscienza dei sentimenti che stai vivendo e dei pensieri nei quali essi si esprimono: sono essi che indicano la direzione del cammino che stai ora percorrendo.

Il pensiero indica la direzione, il sentimento fornisce l’energia per percorrere la strada che essa indica. Devi allora fermarti per accordare il cuore (in cui agiscono queste spinte interiori), la mente (che dà senso a ciò che sta succedendo) e il corpo (che agisce di conseguenza) in un comportamento, in una decisione che ti lasci dentro una pace vasta, profonda e duratura.

Senza discernimento, continuerai ad agire in maniera disintegrata, sotto la spinta di condizionamenti inconsci: non sei tu ad agire liberamente, prendendo decisioni, ma sono questi condizionamenti a dirigere la tua vita. Sarai libero quando sarai responsabile della tua vita, decidendone la direzione assieme al tuo Signore; e, poiché vivere nello Spirito di Cristo è vita vera, questo ti darà serenità.

L’esperienza delle mozioni interiori è spesso così forte da essere avvertita come azione di una forza esterna a sé (Biblicamente, una forza che viene avvertita agire sull’animo umano dall’esterno (non è l’uomo che la comanda) viene chiamata “spirito”), che viene identificata nello Spirito Santo quando spinge al bene, o viene chiamata spirito del male, diavolo, satana, nemico, tentatore, maligno quando spinge al male.

L’esistenza di una forza del male personale contrapposta a Dio non è però fondata né biblicamente né teologicamente. Gesù nel Vangelo chiama “satana” ideologie o persone che tentano di condizionarlo impedendogli di essere libero. Nel caso più comune, “satana” sono le nostre ferite non ancora guarite che ci portano a modi sbagliati di agire e di reagire.

Né, d’altra parte, Dio agisce direttamente sulla nostra coscienza condizionando il nostro agire, perché l’amore lascia sempre liberi; Dio semplicemente offre il proprio amore, che possiamo accogliere o meno, facendolo o meno vivere nelle nostre relazioni con gli altri.

Pedagogicamente può comunque essere mantenuta l’identificazione tra spirito del bene e Dio e tra spirito del male e diavolo, in quanto semplifica la comprensione dei meccanismi di funzionamento delle nostre azioni e decisioni.

Le mozioni sono dunque l’esprimersi di due forze interiori, tra loro contrapposte, che, attraverso di esse, tentano ciascuna di portarci a realizzare ciò che essa propone in scelte, comportamenti, atteggiamenti. Come, più laicamente, chiamare queste forze?

Da una parte ci sono i nostri desideri di bene, che ci conducono a costruire relazioni positive con gli altri; considerate le conseguenze, li chiameremo “spirito del bene”.

Dall’altra ci sono le nostre paure e angosce, che ci spingono verso un bene immediato, esclusivamente personale, che più tardi ci chiuderà però nell'esperienza di una solitudine radicale; considerate le conseguenze, le chiameremo “spirito del male”.

 

Michele Bortignon



10/01/2020

Il valore della gratuità

L’idea mi è venuta sentendo “di rimbalzo” parlare di noi accompagnatori (ma vale per qualsiasi cristiano): «Questi qui sono sempre disponibili e non chiedono nulla, quando chiunque altro, per qualsiasi servizio, si fa pagare».
La gratuità: davvero la sento come una delle componenti più imprescindibili di quel che facciamo.
Da tempo ho capito che non è tanto, o non solo, quel che diciamo ad aiutare le persone, ma l’amore di Dio che traspare dal nostro amore. Amore che si manifesta appunto nella gratuità. Mi stupiscono certi cambiamenti che avvengono perché la persona si è sentita ascoltata, capita, sostenuta, voluta bene come so e come posso, anche se non ho detto nulla di speciale. Solo per essere stato lì con lei, per lei. La gratuità parla di Dio e lo rende presente.
 Ma come nasce, e come sussiste, l’umanamente impossibile possibilità della gratuità?
 
Di certo non è una scelta (uno non se ne rende conto!), ma un respiro dell’anima.
Una madre è tutta per il suo bambino e per lei non è possibile essere che così.
Non è forse naturale, per ogni amore vero, realizzarsi nel bene procurato all’altro? Sento di far parte di quel che lui diventa! Il bene che nasce in lui è un po’ anche frutto della mia pianta.
La mia vita assume significato quando non serve solo a se stessa, ma costruisce qualcosa di più grande di me. Potrei pretendere un ritorno… ma quel che perdo è più di quanto guadagno: col suo esserci, la gratuità dice che l’amore c’è e ci sarà sempre, emergendo al di là di tutto ciò che cerca di negarlo, manipolarlo o calpestarlo. Anche per me: come oggi io ci sono per te, domani un altro ci sarà per me. E in un mondo dove ci si ama si sta meglio che in un mondo dove ci si paga.
 
La gratuità nasce in me quando io per primo sono immerso in essa, per cui il mio è un condividere con stupore ciò che mi riempie di infinito. E così la gratuità parla di Dio: se io ci sono per te, davvero tu senti che io sono con te ed entrambi siamo contenuti nell’abbraccio di Colui che è Vita e dà la Vita.
 
Gratuità significa inoltre valorizzare l’altro quando non lo meriterebbe, dargli fiducia quando non so perdonarlo, uscendo dalla rigidità del dare-avere, credendo che l’amore può fare miracoli. Se non nell’altro, certo in me.
Anche questo è un manifestare Dio, perché tutto ciò che sconcerta, sollevando interrogativi o provocando stupore, apre uno squarcio su una realtà oltre, che supera e mette in crisi la logica puramente umana.
 
Ma come sussiste, come rimane possibile la gratuità?
Dare senza ricevere è uno svuotarsi… Senza una ricarica gli ideali perdono motivazione, si afflosciano, svuotati all’interno dalla stanchezza e dalla delusione, e prevale l’istinto di sopravvivenza, che ti fa difendere il tuo piccolo io.
Come è nata, così la gratuità è fatta vivere dalla contemplazione dell’infinito. Ogni volta che dico “Bello!” o “Grazie!”, nella meraviglia di ciò che mi circonda, mi ricarico di energia, di positività, della sensazione che alla fine tutto sarà bene, per cui essere buono è bello, è lasciarsi essere in sintonia con la bellezza e la grandezza dell’universo.
 
C’è poi un aspetto della gratuità che me la fa sentire preziosa: quel sottofondo di libertà che essa inserisce nella relazione. Se nulla ti chiedo, significa che il mio amore è vero, senza secondi fini, per cui puoi fidarti. E io posso essere vero e me stesso fino in fondo perché non sono condizionato da quel che mi dai. Liberi come l’aria, nessuno dei due può accampare diritti sull’altro.

                                                                                                  Michele Bortignon

9/01/2020

Quando l’ira ti travolge

 

Non dirmi che non è successo anche a te di perdere la pazienza con una persona che a tutti i costi voleva importi la sua volontà o il suo modo di fare, sicura di avere ragione!

Cos’è che ti fa saltare i nervi? Non solo l’altro ti critica, ti sommerge di osservazioni sulle cose che in te non vanno, mette in discussione quel che pensi, che dici e che fai, ma lo fa con quella sottile irrisione che ti fa sentire deficiente.

Ti monta allora la rabbia e vuoi annullare chi ti sta annullando: adesso vediamo chi è il più forte! Non è così che nascono tutte le guerre? ...da quelle tra le nazioni a quelle all’interno delle famiglie o degli ambienti di lavoro.

Se dessimo retta a Sant’Ignazio, lui ci direbbe di bloccarci, perché, qualsiasi cosa adesso diciamo o facciamo, siamo sotto l’influenza dello spirito del male, che qui assume il volto della rabbia per l’ingiustizia subita. Mio padre, più semplicemente, tornerebbe a dirmi “Conta fino a 10 prima di parlare”.

Entrambi i suggerimenti potrebbero essere riassunti in una sola parola: ricollocati. Chi vuoi essere? Il burattino mosso dai fili delle tue emozioni? Oppure la persona che hai scelto di essere, anche se ora, in questa situazione, è un’impresa improba? Intanto fermati, ferma tutto; scappa in un tuo spazio di deserto dove ci sei solo tu, dove ti permetti di esserci solo tu. Prenditi il lusso di evadere e datti tempo per calmarti e pensare.

Là dove ora ti osservi, l’altro sta continuando a bombardarti. Non importa, lascialo fare. Tenta anzi il possibile per essere gentile e corretto; e guarda con sfida la tua rabbia che ti monta dentro: prova ad essere l’artista del rispondere al male col bene...

A un certo punto, nell’acquietarsi della rabbia nascerà un sorriso, poi quasi una risata: troppo forte! Non sei più dentro, sei sopra a quel che ti succede, distaccato, libero. Che sensazione! Vale più di qualsiasi rivincita.

E in questa libertà riconquistata cominci a vedere le cose come stanno: tu e l’altro entrambi afferrati, bloccati e stritolati da uno stesso meccanismo: sopravvivere nel riconoscimento dell’altro. Questo è quello che, più o meno coscientemente pensi: “Io esisto solo nella stima degli altri (o, che è poi la stessa cosa, nella mia autostima, che sono gli altri interiorizzati nel mio super-io); ho bisogno di galleggiare sopra le acque dell’indifferenza e della riprovazione, che travolgendomi, mi annegherebbero; sono qualcuno solo quando sono qualcuno per gli altri.

Ma… è poi vero?

Mi guardo attorno e vedo che io ci sono perché è la vita a farmi essere; io scorro nella corrente della vita, che mi avvolge e mi sostiene.

E’ bello che gli altri ci siano e la loro vita mi arricchisce, ma io posso stare in piedi anche senza di loro e certamente non è degno del mio essere uomo farmene condizionare per ottenere da loro il permesso di esistere, dare loro il permesso di scrivere la mia vita. Gli altri sono una delle componenti della realtà, ma non la sola; a loro devo  l’esistenza, ma non necessariamente la Vita.

E’, questa, una presa di coscienza che nasce dal rendermi libero e, allo stesso tempo, costruisce le fondamenta della mia libertà. Una libertà che passa attraverso la riconquistata capacità di essere solo, ma è anche premessa alla possibilità di circondarmi di persone arricchenti perché non condizionanti: quel che mi danno è un traboccare della vita che è in loro e non un ricatto per ottenerne da me.

Quando ho bisogno degli altri, non posso scegliere: mi vanno bene anche le briciole pagate a peso d’oro. Se non sono preso alla gola dal bisogno di ottenere da loro sicurezza, stima e affetto, posso aspettare, valutare e scegliere solo le relazioni che mi fanno sentire bene e colmare questi miei bisogni con il meglio che posso trovare.

A volte, però, non posso scegliere, perché la relazione con l’altro non la posso evitare (es. un familiare o un collega di lavoro); anche qui entra in gioco la mia libertà: posso lasciar perdere le mie ragioni, valutando che per me rinunciarvi, seppur doloroso, non mi destabilizza come invece succederebbe all’altro? Potrebbe essere per sempre (amare è anche proteggere l’altro da ciò che lo potrebbe distruggere), potrebbe essere in attesa di un momento propizio per farmi capire con calma.

 

Michele Bortignon

 

8/03/2020

Il limite creatore


Forse qualcuno può dire di non aver vissuto, e magari ripetutamente, qualche situazione limitante nel corso della propria vita? Qualcosa che sembra accanirsi nel porre dei limiti nella tua precedente “normalità” o rispetto alla “normalità” di chi ti vedi attorno…
Ricordo che p. Gilles Cusson, il gesuita che traspose gli Esercizi ignaziani nella forma a cui anche noi col Kaire ci ispiriamo, in una sua lezione ci parlava del “limite creatore”: creatore di che cosa? Voglio provare a rifletterci a partire dall’esperienza di limite sperimentata quando mi ero rotto una gamba.

Il primo limite che incontri è quello che il dolore fisico ti ritaglia attorno, quasi a separarti da tutto ciò che prima occupava i tuoi interessi e le tue energie. Il dolore è geloso e vuole che ci si occupi solo di lui. E ti atterrisce con la sua fedeltà, dicendoti che la vostra relazione è “per sempre”. Occorre allora sottrarsi a questa schiavitù, certo nella misura in cui ciò è possibile, sfruttando tutte le occasioni che si presentano e che puoi creare per svincolartene ed evadere. E, soprattutto, nutrendo la speranza che anche questo passerà e ti lascerà con una lezione di vita se cerchi di dare un significato a ciò che stai vivendo.

Un altro limite che ho incontrato è quello della separazione dal comune modo di abitare nel mondo: quanti ostacoli ho scoperto nel mio muovermi nell’ambiente che mi circondava e nel fruirne! E qui mi si sono aperte comprensione e sensibilità nei confronti di chi in questi problemi ci vive costantemente, e ho sentito che non è giusto esistano persone prive delle opportunità che per me sono normali e quotidiane.

D’altro canto, questi limiti mi hanno aperto opportunità di relazioni che mai avrei avuto: ho scoperto persone attente, gentili, premurose, disponibili; a volte anche occasioni per una condivisione che si è spinta oltre il normale scambio di informazioni e di opinioni.

Cosa dunque ti dà l’esperienza del limite, nel suo essere un’esperienza fuori dal comune? Una comprensione della vita e una sensibilità ai problemi fuori dal comune. Entrambe si sviluppano per farti sopravvivere nella difficoltà che affronti e per darle un senso che ti rimetta psicologicamente in equilibrio.

Michele Bortignon



7/02/2020

Vincere le tentazioni


Vincere le tentazioni… quante parole si sono spese sull'argomento e quanto sangue hanno sudato gli asceti in tentativi frustranti!
Io sono un perdente seriale e, guardando alla mia esperienza, vedo un campo di battaglia disseminato di cadaveri. Eppure… eppure mi scopro anche, e ancora, con la spada in pugno.
Lo so, continuo a frequentare le persone sbagliate: la pigrizia, l’istintualità, l’avarizia, l’orgoglio... che sono veramente delle figure porche: quando le ascolto tentano il colpo gobbo e cercano di staccarmi definitivamente dal mio Signore coi sensi di colpa, di indegnità, di disastro, per farmi ammettere che io sono loro, che esse sono la mia natura.
A volte ci casco, lo ammetto, e la notte è allora un assaggio d’inferno.
Ma c’è un angelo che mi salva: si chiama nostalgia. Mi ricorda chi sono e chi voglio essere. Mi dice, con tanta fiducia, che quello non è amore.
E poi ci si mette anche Lui direttamente: “Sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e ti amo” Is 43, 4). E allora mi arrendo al tuo abbraccio, Signore, e ricomincio. Per questo mi ritrovo sempre e ancora con la spada in pugno. Sono suo e voglio esserlo.
In qualche piccola battaglia riesco a sconfiggere il nemico: tacendo, frenandomi, evitando… Quando attacca in forze e all'improvviso… no, non ce la faccio. E’ già tanto se all'ultimo momento riesco a fuggire prima di essere annientato. Ecco, questo lo sento una grande grazia: che il Signore all'ultimo mi tiri fuori per i capelli per non perdermi.
Nessuna tecnica, nessuna strategia serve dunque per vincere la tentazione. Solo un’invocazione: “Sono tuo: salvami!”. Solo la fede di essere figlio gelosamente amato e la disperata volontà di non essere altri che tuo. Poiché solo in te tutto ha senso.
Ora non mi aspetto più di vincere la tentazione. Lascio che il demonio faccia il suo lavoro –tentarmi, e io faccio il mio –tenermi accanto al mio Signore col pensiero, con l’affetto, con la fede, e penso e spero e credo che, a suo tempo, Il Signore farà il suo, ri-suscitando in me un po’ del suo Spirito.
Ora lo so: non sono solo; non dipende tutto da me.        
                                                                              Michele Bortignon

6/01/2020

Che cos'è la giustizia?


Che cos'è la giustizia? Hai fatto questo male, per cui devi pagare, scontarlo ricevendo altrettanto male. …Per imparare, così non lo fai più –dico a me stesso. E per dare un esempio agli altri, così non lo faranno più nemmeno loro.
E’ veramente questo pensiero a muovermi? O non, piuttosto, la rabbia di sentirmi preso per stupido dalla tua furbizia, per cui sento messa in pericolo la mia autostima, la mia convinzione di essere una persona vincente?
O, ancora, la paura di perdere la mia sicurezza, perché hai messo in questione il mio possesso di quei beni che mi danno potere sulla vita e un posto in mezzo agli altri?
O, infine, sentire tradita la mia fiducia in te; meglio, la mia aspettativa –e pretesa!- che tu soddisfi (e questo io lo chiamo amore) il mio bisogno di sentirmi qualcuno?
Lascio emergere questa rabbia e queste paure perché, è vero, mi hai ferito. Hai tolto quei puntelli con cui avevo imparato a tenermi in equilibrio nella vita. Ma se, seguendo l’istinto di vendicarmi, ti tolgo ora i tuoi, non è detto che riesca a migliorare la situazione. Non posso ragionevolmente affermarlo. Mi trovo a un punto morto: questa mia giustizia non mi rischiara il futuro, ma assicura le tenebre per entrambi.
A volte il dolore può aprire al “colpevole” la via a un riscatto. A volte.
Tante altre egli non ha nemmeno le basi per intravedere un’alternativa. Come non ce l’ho io quando l’unica mia prospettiva è questa “legge del taglione”, sia pur civilizzata.
E se, questa volta, anziché reagire provassi a capire?
Come cristiano credo in un’altra vita che dà senso a quella in cui sono.
Devo allora stringere i denti e sopportare, aspettando di entrarci dopo la morte?
No: se è una vita eterna, significa che è già qui come possibilità, significa che posso attivarla perché diventi LA mia vita.
Comincio col rendermi conto che i comportamenti non nascono dal nulla, ma, se sbagliati, nascono da una storia sbagliata. Difficile condannare: se l’avessi avuta io, probabilmente avrei fatto altrettanto, se non peggio.
E questo mi porta dritto alla seconda considerazione: quel che posso dire di te appartiene anche a me, posso dirlo anche di me; però non posso, e quindi non voglio, ammetterlo.
E influenza anche i miei comportamenti, seppure in forma diversa rispetto a te. Forse io so meglio mimetizzarli col perbenismo e giustificarli ai miei occhi con tante ben fondate ragioni.

E’ dunque possibile la giustizia? La perfezione nei comportamenti? E’ umana una legge che misura tutti con lo stesso metro? Lascia perdere queste domande e prova a fare questi primi due passi, che sono capire e ammettere anziché giustificarti.
Puoi farlo solo quando ti senti guardato con la comprensione e la misericordia che ancora non sai dare agli altri.
La comprensione e la misericordia di un altro o di un Altro.
Poi… chissà?!
Vivere è crescere; e si cresce solo nella lotta, tra cadute e riprese del cammino.

Michele Bortignon

5/01/2020

Nella palude della tristezza


I padri del deserto la chiamavano accidia. Per le chiese orientali è l’ottavo peccato capitale. Ma perché la tristezza sarebbe un peccato? Non è semplicemente una sensazione, uno stato d’animo? Sì, ma con delle cause e delle conseguenze da studiare e di cui tener conto per non rimanerne vittime. Non possiamo arrenderci e rassegnarci a rimanere nel pantano in cui la tristezza ci fa affondare, perché siamo chiamati alla felicità. Lo dobbiamo al nostro essere uomini.
L’accidia è infatti pesantezza, fatica di vivere, nebbia fredda che ti avvolge, tedio che ti sfinisce, insignificanza di quel che fai e mancanza di prospettive, senso di inutilità e fallimento.
Non è depressione, perché non ne ha le basi biologiche; potremmo definirla il risultato di un inconscio tentativo di autosalvezza che prende la persona impegnata nel bene in periodi particolarmente stressanti.
Ti invade allora una sottile insoddisfazione che non ti dà tregua: non sei contento di quel che sei e che hai; ti senti e lo senti brutto, noioso, vecchio, inutile.
Vuoi qualcosa di diverso, di nuovo. Nella consapevolezza, che non vuoi ammettere, che non è nell'ottenere ciò che vuoi che puoi trovare la vita.
Non ti accorgi che è la Morte, nascosta perché tu non ne veda il volto, a suggerirti beffarda: «Ora o mai più», «Se non ora, quando?», «Aspettare è tempo perso», «Se non cogli ora l’occasione, poi sarà troppo tardi». E’ come una fame nervosa che non ti fa mai sazio. Accontentarti lo senti un tarparti le ali, un rassegnarti alla tua mediocrità. Già, perché tu sei mediocre. Non puoi dire che non sei e non fai nulla di buono, perché la realtà ti smentirebbe, ma quanto sei distante da ciò che potresti e dovresti essere?! I tuoi sogni mancati ti accusano e ti schiacciano. Pretendi di essere felice (come ti sembra sia giusto esserlo e come ti sembra tutti gli altri lo siano) e non ti basta essere contento. Non sai abitare la mediocrità come una povertà in cui essere amato.
Il problema è che sei preoccupato solo e troppo di te stesso.
Ecco allora che possono venirti in aiuto tre parole: Grazie, Scusa, Permesso.

Grazie. Perché? Guardati attorno: nel mondo c’è bellezza, armonia, grandiosità, perfezione, varietà, fantasia, sapienza. Occasioni di lode, di meraviglia, di stupore, di emozioni. Assieme a tanti disastri e banalità che costruiti dall'uomo, certo, ma che non cancellano  il fatto che viviamo in un mondo meraviglioso!

Scusa. Perché? Per non esserti accorto, per non aver posto attenzione alla bellezza della vita, tutto preso dalle tue insoddisfazioni capricciose, brontolamenti, lamentele, preoccupazioni partorite da un’ansia esagerata, senso di disastro dimentico di una storia in cui alla notte segue comunque il giorno, sensi di colpa che non tengono conto della misericordia e della fiducia in te di Dio. Scusa anche perché nel lamentarti hai trascurato di guardare alle risorse che hai per affrontare la situazione: creatività, saggezza, esperienza, autonomia, intelligenza, conoscenze. E’ quanto Dio ha già posto nella tua vita.

Permesso. Perché? Non tutto ti è lecito, nulla ti spetta di diritto, anche se la soluzione sembra così facile e a portata di mano… se tieni conto solo di te. C’è un Altro che è custode dei diritti di tutti gli altri. E se, perdendo gli altri, perdi Lui, perdi te stesso. Chiedere permesso è, dunque, verificare, confrontandoti con Lui, se sei sulla sua strada.

Tutto questo può aiutarti a reinquadrare la tristezza come malattia dello spirito, ma c’è solo un atteggiamento che può renderti possibile percorrere questa via: la pazienza. E’ normale entrare in questa situazione e fisiologico a un certo stadio della vita spirituale. Non aver fretta di uscirne come se stessi vivendo qualcosa di sbagliato. Come altre tappe, anche questa è una finestra aperta sul tuo mondo interiore, in cui lottano forze contrapposte, le une che vogliono bloccarti nella tua mediocrità, le altre che vogliono farti più grande di te stesso, nello spirito di Chi ti ha voluto vivente per una vita degna di un uomo.
Michele Bortignon

4/11/2020

Con Te posso risorgere


Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito. Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono. Uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: «Davvero costui era Figlio di Dio!». (Mt 27,50-54)

Gesù è morto. Matteo ci presenta una tremenda scena apocalittica: sembra che la natura si ribelli, indignata, allo scempio che l’uomo ha compiuto uccidendo il creatore della vita. In questa scena c’è un’immagine all’apparenza più raccapricciante delle altre: sepolcri che si aprono e corpi di santi che risuscitano. Matteo ci vuol dire che la morte di Gesù è via per la resurrezione anche di chi, nonostante la propria santità, non era risorto perché la sua bontà non era sufficiente a farlo risorgere: mancava qualcosa.
Capita anche a noi di fare tutto ciò che ci è possibile fare e cercare magari di fare l’impossibile; ci sforziamo, ce la mettiamo tutta per uscire da una situazione di morte e fallimento, ma nonostante il nostro impegno e la nostra bontà d’animo restiamo sprofondati nel problema senza trovare la via d’uscita.
Che cosa manca? Qual è la porta che non riesco a trovare? Qual è la chiave che non ho? Per risorgere mi serve guardare il problema dal punto di vista di Dio, da un’angolatura assolutamente altra che lo renda via per un modo di vivere diverso; ecco che in questo modo, con questo sguardo nuovo, posso accorgermi che la chiave è nascosta dentro a quel problema; e forse è il modo di starci dentro a farmi risorgere e non lo sforzo per uscirne ad ogni costo.
Facciamo un esempio concreto e purtroppo attualissimo. L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci obbliga ad adottare misure preventive drastiche e necessarie. Tali misure incidono sulla nostra vita sociale. C’è chi si lascia prendere dall’angoscia e dal panico peggiorando la situazione: folli corse all’inutile approvvigionamento di generi alimentari, o peggio, irresponsabili fughe dalle zone sottoposte a quarantena; oppure, per esorcizzare la paura, c’è chi sdrammatizza e fa finta di niente e in modo irresponsabile non adotta le misure preventive consigliate o imposte. Fortunatamente la maggior parte le rispetta e le attualizza per salvaguardare la propria salute e quella della collettività, ma ciò non basta per dare uno slancio nuovo alla situazione, c’è bisogno di un di più, di uno sguardo e uno spirito diversi.
È la terza via: resto nel problema, non mi faccio prendere dal panico, adotto le necessarie misure di prevenzione e mi accorgo anche del positivo che questa situazione mi offre, oppure prendo consapevolezza di che cosa mi manca di più in questa situazione, di che cosa è importante per me e a cui non posso rinunciare o di che cosa posso fare a meno e che non è essenziale come pensavo. La terza via che mi permette di risorgere è entrare nella situazione con lo Spirito di Cristo: con fede, speranza e amore. Ecco che non diventa più essenziale uscire a tutti i costi o in tutti i modi, ma, con il Suo Spirito, posso restare nel problema in modo nuovo e, con uno spirito nuovo, portare vita anche agli altri.

In questa Pasqua di resurrezione, partendo da questo brano di Matteo, noi del gruppo Kaire Bassano 2018 ci siamo chiesti quando nella nostra vita abbiamo fatto esperienza di resurrezione. Cioè quando abbiamo saputo uscire o restare nel problema con il Suo Spirito e, proprio in questo modo, trovare una vita nuova o darla agli altri.
Eccovi le nostre riflessioni; l’augurio è che anche voi che leggete possiate ricordare le vostre esperienze di Vita grazie all’incontro con lo Spirito del Risorto.

Per uscire dalle situazioni difficili ho sempre usato come strumenti l'intelligenza logica e la creatività (doti che mi appartengono), ma con queste non ho mai risolto niente.
L'abbandonarmi a vivere là, fino in fondo, dove mi sta portando la Vita mi fa vivere situazioni più serene e vivibili.
Diversamente, insistendo ad oltranza per trovare soluzioni al problema, è come se in un frutteto continuassi a curare ed innaffiare una pianta che è già morta, trascurando le altre vive. E' come se stessi combattendo il nemico con la spada dell'Ego, mentre la giusta via è riporre la spada e abbracciare la bandiera della pace, per trattare un accordo; dopodiché il nemico potrà essere un alleato della pace.
Quindici giorni fa avevo deciso di chiudere l’attività di famiglia perché niente andava in porto: le speranze erano finite, avevo messo una pietra sopra al fallimento morale del progetto; ora, in modo imprevedibile, tutto a un tratto quello che era morto si sta trasformando in una resurrezione dell'attività. 
Desidero e spero che sia con una nuova anima.     Guido

Questa domanda m’inquietava, perché non sapevo dare una risposta. A pensarci su, ho capito che nel mio immaginario "esperienza di Resurrezione" doveva essere qualcosa di strabiliante, spettacolare, straordinario e comunque per pochi. Illuminante è stato poi leggere e meditare un brano del vangelo. Ed ecco la scintilla! Esperienza di Resurrezione si può avere con esperienze: semplici, quotidiane, fattibili e comunque "straordinarie" che portano bene e pace!
In questi giorni di emergenza sanitaria, quasi "per caso" ci siamo messi a pregare in famiglia, tutti assieme! Era capitato rare volte in trent'anni di matrimonio. Ora è diventato un appuntamento fisso. La serenità, il senso di unità e di gratitudine è grande!
...Gustare la lettera di un buon libro (su un santo contemporaneo), che da tempo aspettava,  che mi dona ore illuminanti!
....Una  calorosa telefonata a un'amica!
...Non di meno, vedere che nel mondo, nella nostra comunità ci sono innumerevoli azioni di altruismo e di bene!
Ciao a tutti.... Rallegriamoci!     Valeria

C’è stato un momento della mia vita in particolare in cui mi è caduto il mondo addosso.
Mi ha salvato solo una certezza, che mai come prima ho sentito così forte: Dio nel suo infinito amore è morto e risorto anche per me, mostrandomi che alla morte Lui ha fatto seguire la resurrezione.
Io mi sentivo morto, ma ho capito che solo confidando nel suo amore potevo superare quella situazione. Nel preciso istante in cui ho realizzato ciò, mi sono sentito sereno e fiducioso. Le circostanze erano le stesse ma a cambiare è stato il mio modo di affrontarle insieme a Lui.
Grazie Signore Gesù     Antonio

Per anni ho vissuto desiderando di fuggire da una situazione in cui ho sperimentato la morte interiore, con momenti di disperazione, depressione e panico.
Poi, grazie a questo percorso del Kaire, ho sperimentato la vicinanza e l'amore di Dio che lentamente mi sta trasformando. Ho fatto l'esperienza del “duplice perdono”, mi sono liberata dalla morsa del rancore e ho trovato la via per la resurrezione.
Grazie Gesù.     Mariagiovanna

In questo periodo, Signore, si era proprio inceppato il motore della mia vita spirituale..
Sentivo il bisogno di stare con te ma, allo stesso tempo, ogni scusa era buona per non cercarti.
Proprio oggi ho fatto esperienza di resurrezione, e, dopo giorni e giorni di vuoto e tristezza, torno da te e, come nel sacramento della riconciliazione, sento che mi ami così come sono e con te riparto!     Enrica

4/05/2020

Dentro la Passione stando a casa


Settimana Santa 2020. Che peccato! Niente ulivo da sventolare. E poi nessuna lavanda dei piedi. Era così bella quella cerimonia! Con i bei canti, il prete che si cinge il grembiule, i bimbi che si tolgono un calzino lindo da un piede già sterilizzato, gli scappano risatine e il catechista si rabbuia per indurre seriosità.
Che Grazia, mio Signore! Non posso andare in chiesa da spettatore. Devo trovare io il modo di lavare i piedi a qualcuno, qui dentro, o là fuori ma nel mio cuore, per ora. Mi chinerò su mia moglie stanca di eterne faccende quotidiane, su mia figlia smarrita, su mio figlio che si allena a stare senza di Te, su mio marito deluso da chi credeva amico, su mia madre rimasta senza la sua amata metà. Poi, se mi sarà servito, se avrò preso un poco forma di Te, se avrò baciato ciò che è difficile anche solo avvicinare, potrò riprovarci dovunque e con chiunque, senza aspettare un altro giovedì Santo.
E il venerdì Santo! Mi mancano quelle belle Via Crucis! Guardare le stazioni, la croce, le candele, le letture e le lunghe riflessioni. Mi addolorava, ma mi ricaricava venerare Nostro Signore Gesù il Cristo Salvatore insanguinato.
Dio mio! In questa stazione casalinga ti vedo faticare a portare pace e perdono nel mio cuore per quella persona che forse ha sbagliato nei miei confronti, o forse ho solo creduto fosse così. E per quell’altro che invece mi ha ferito pesantemente: è stato ingiusto, crudele, un aguzzino per me. Mi ha pure diffamato. Questa non me la doveva proprio fare!
Ti prego: passa attraverso questa bocca, Spirito Santo. Tu soffia, io ci metto la mia voce: “Perdona loro: non si rendono conto del male che fanno”. E poi lascia che reclini il capo, stanco e felice, sul petto di mia moglie, sulla spalla di mio figlio: “Ce l’abbiamo fatta - un attimo ancora, appena un sabato - è già Pasqua!!!”
Pasqua di Vita Vera stavolta, in questa casa, e in quella e quell’altra ancora. Niente scenette toccanti, niente commozione per una lettura, niente ricariche a tempo. Qualcosa è cambiato.
Hai voluto vivere dentro di me in gesti d’Amore che mi hanno trasformato, mio Signore e mio Dio! Non mangerò il Tuo pane spezzato: con Te mi sono lasciato spezzare un poco, insieme siamo discesi in una tomba, di là mi hai portato fuori per mano, vittorioso con Te. Siamo Risorti!!!
Che Grazia! Che Pasqua! Auguri: che si possa risorgere ora e sempre con Lui !!!

                                                                                                                                 Claudio Pellanda

4/01/2020

Perché Gesù è morto in croce?


Sin da bambina mi è stato detto che Gesù è morto in croce per me, per colpa dei miei peccati. Mi è stato detto che è morto per la cattiveria dell’uomo e per espiare le nostre colpe.
Parole pesanti come macigni, parole che mi schiacciavano alimentando il mio senso di colpa, parole che non capivo… e che finora faticavo a capire. Parole verso le quali provo un senso di ribellione a volte violento. Parole alle quali chi cerca di darmi una spiegazione sembra arrampicarsi sugli specchi e non fa che peggiorare la situazione dando risposte vaghe alle mie domande che, invece, pretendono chiarezza e concretezza: “Perché mi dicono che Gesù è morto per me? Che significa “per i nostri peccati”? Perché “anche per colpa mia”?
Ci abbiamo riflettuto, ci abbiamo pregato, ci siamo confrontati e alla fine siamo arrivati a una conclusione che a noi ha fatto bene, aiutandoci a chiarire e a capire certe ‘frasi fatte’ che hanno bisogno di essere ‘aperte e smontate’ per diventare comprensibili. A noi è servito, speriamo di aiutare anche voi a fare chiarezza.

Per cercare di comprendere meglio la morte in croce di Gesù partiamo dall’atto finale: la risurrezione.
Se Gesù è risorto, questo significa che non era un uomo qualunque, non era solo un uomo: ha la stessa natura di Dio, è figlio di Dio, è Dio.
Se ha vinto la morte, se la morte non ha avuto potere su di lui, questo significa che il suo modo di essere, quel che ha detto e fatto è pieno di vita e porta alla Vita.
Perché Dio si è incarnato in Gesù? Appunto per portarci alla Vita, mostrandocene in Sé la strada. Ma la mentalità che ci guida ha già i propri riferimenti (soldi, successo, potere) e schiaccia chi rischia di metterla in crisi. Gesù ci disturba in tutti quelli che ci chiedono di cambiare mentalità per venire incontro ai loro bisogni oltre che ai nostri. Nel rifiutarli, chiudendoci nei nostri interessi, duemila anni fa come oggi il nostro peccato/egoismo uccide Gesù. Ma Dio sa che chiuderci in noi stessi dà frutti di morte, perché l’uomo trova il proprio paradiso non da solo, ma in relazioni belle, profonde, affettuose, stimolanti. Ecco allora che Gesù muore non soltanto per/a causa dei nostri peccati, ma quel “per i nostri peccati” ha anche un senso finale: per farcene uscire, per mostrarci in Sé che aprirci anziché chiuderci alle relazioni –anche se a volte significa lasciar morire il nostro ego- è fonte di una vita più grande, della Vita vera, in pienezza.
Gesù muore per mostrarci una strada per risorgere e tornare a vivere. L’amore, infatti, fa nascere una vita di una qualità tale da renderla indistruttibile; l’amore vince la morte.
Perciò ogni morte accettata per amore porta a una risurrezione; e non può esserci risurrezione senza l’accettazione di una morte per amore.
Anche noi, se amiamo fino in fondo, possiamo risorgere. Dovrò morire al mio io (il mio egoismo, il mio tornaconto, il mio bene prima di tutto) o comunque sarò ucciso da chi, vivendo secondo la logica del mondo, è messo in discussione dal mio modo di vivere, dal mio modo di amare. In ogni caso, il mio morire dà vita a chi amo e dà una prospettiva di vita a chi mi uccide (vede che può esserci una via di uscita diversa al solito modo di fare).

Concludendo, possiamo affermare che Gesù è la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,16) perché ci mostra, vivendolo fino in fondo, fino a morirne, che esiste una strada diversa da percorrere per arrivare alla Vita vera. Ci mostra che spesso nel tentativo di costruirci da soli la vita (in una ricerca spasmodica della felicità a tutti i costi, del benessere personale senza guardare in faccia gli altri) andiamo in contro alla morte. Ci addita che vivendo per amore possiamo avere una vita oltre la morte, che i frutti del nostro amare saranno eterni e sopravvivranno a noi. Ci libera dalla paura della morte, perché lui per primo ci ha mostrato come entrarci e come uscirne vincenti, nonostante l’apparente sconfitta. Ci mostra la verità di noi stessi, ci mostra il nostro essere figli di Dio: fatti per la bellezza, per amare, per il bene, per tutto ciò che è bello e buono.

Maria Rosa Brian
Michele Bortignon

3/01/2020

La grazia di cadere



Lo so, la grazia di cadere sembra un ossimoro. Come posso considerare dono una caduta? Non vorremmo mai cadere e sbagliare, eppure, a volte, e più spesso di quel che pensiamo, s’impara di più a stare in strada sbandando in una curva che dopo chilometri di strada dritta con il guardrail.
Che cosa imparo dalle mie cadute? È ciò che mi sono chiesta dopo l’ennesimo errore.

  • Prima di tutto se sbaglio senza imparare nulla ho sbagliato invano: questa considerazione iniziale è ciò che mi permette e mi consente di trarre una lezione dai miei sbagli.
  • Imparo l’umiltà: non sono perfetta e infallibile.
  • Dall’umiltà imparo il non giudizio: come sbaglio io così possono sbagliare anche gli altri.
  •  Apprendo la compassione verso chi sbaglia, cioè a “patire-con” l’altro perché so cosa prova per esperienza personale.
  • Capendo l’altro lo posso aiutare proprio perché so cosa prova.
  • Faccio esperienza di misericordia. Prima di tutto quella di Dio verso di me. Dalla Sua misericordia posso imparare a provare a esserlo verso gli altri.
  • Imparo il perdono. Se Dio mi dice: «Dai rialzati, io non ti condanno» perché io non dovrei perdonare?
  • Imparo a decentrarmi da me stessa: non sono perfetta, non lo sono, non lo devo essere, non lo posso essere; capirlo è molto rilassante e liberante.
  • Da sola posso combinare dei casini: imparo a gustare la presenza di Dio nella mia vita e a restarne ancorata.

E se cadere è una grazia allora Dio permette e forse facilita le cadute? No: penso che nel cadere a causa della mia fragilità incontro la misericordia e il perdono di Dio. A essere grazia è questo incontro. Posso affermare che l’errore, la caduta, il disagio diventano luoghi di grazia se s’incontrano con la misericordia, il perdono e l’amore di Dio. In una parola, se, incontrandomi con Lui, li rendo occasione di diventare un po’ più Lui.

Maria Rosa Brian

2/02/2020

L’ansia… Si può gestirla?


Non vi succede mai che i problemi comincino a cadervi addosso l’uno dietro l’altro lasciandovi senza fiato? O ne basta anche solo uno, grosso. O che tale vi sembra…
Quando non capita a te, si fa presto a dire che in qualche modo la situazione si può gestire -ed è vero, lo sai bene!-, ma quando ci sei dentro ti prende l’ansia.

Come si manifesta l’ansia? Che cos’è?

E’ tensione, in attesa di essere assalito dal problema.
E’ lo stomaco che si torce in conati a vuoto.
E’ turbinio di idee assurde, eppure quanto reali!
E’ vivere sempre e soltanto nel futuro temuto.
E’ sentirti l’unico a renderti conto, ad attivarti, a realizzare.
E’ voglia di fuggire al disastro imminente e di buttarti via per non esserci.
E’ bisogno che tutto si risolva subito per poter recuperare la serenità.
E’ passare lunghe ore di notte a rigirare problemi che domani risolverai in qualche minuto.

Che cos’è a far nascere l’ansia? La paura.
Paura dell’annullamento, paura della sofferenza, paura della fatica, paura di non farcela, paura della banalità, paura di perdere tempo e occasioni e così sprecare la vita… e ognuno ha la sua. E, su tutte, la paura che quel che accadrà durerà poi per sempre, rovinandoti la vita.
E’ la morte della speranza.

Perché muore la speranza?
«Perché niente e nessuno mi aspetta al di là del cambiamento per essermi risorsa per una vita diversa. Perché io non ho risorse per ri-trasformare quel che si è trasformato».
L’ansia è presbite: vede, lontano, quel che probabilmente mai si avvicinerà; e non vede, vicino, quel che c’è ed è sicuro.
Ma, anche se non lo vedi, quel che c’è agisce. Quando serve viene fuori e sistema le cose.
Prima che nascesse tuo figlio nessuno ti aveva insegnato a fare il genitore; quando è nato, ti ritrovi a farlo e sai farlo; come puoi, ma te la cavi.
Così è con quel che ti terrorizza: non lo conosci e lo temi; poi, quando ci sei dentro, è meno enorme di quel che pensavi e, arrabattandoti, riesci a gestirlo.
La vita ti ha preparato a far fronte ai suoi casi, ma la paura ti dice che non è vero.
Bisognerebbe poter recuperare la consapevolezza della propria capacità di far fronte ai problemi. Ma come?
Al di là del tuo problema, vivi il momento presente, gustalo e ringrazia. E’ il solo modo per sentire che Qualcuno c’è e qualcosa hai.
Inoltre, il futuro è fantasia che probabilmente non accadrà; o, se accadrà, sarà opportunità di nuove esperienze di vita.
L’ansia ha il diritto di provarci con te. Ma tu hai il diritto di tirare diritto.
La genetica scrive il tuo destino. Ma tu puoi cambiarlo.
Se questo Qualcuno c’è, se questo qualcosa ce l’hai, le cose andranno diversamente da come te le rappresenti.
Si tratta solo di far agire le tue risorse nelle tue situazioni. Adesso. Subito. In modo da sciogliere le rappresentazioni terrorizzanti.
Così, mentre sono invaso da questi pensieri… «Tu ci sei. Sei con me. Abbracciami, Signore: sono tuo!». E, ancora, «Ho fiducia in me stesso, in quel che mi hai dato per affrontare la vita. Al momento giusto verrà fuori. E tutto sarà bene».
“Tu sei con me” e “Ho quanto mi serve” sono i fondamenti della mia speranza.
Una speranza che ha i mezzi per realizzarsi, non è un semplice auspicio.
Ho Chi, ho cosa. Questo mi permette di galleggiare.
Ma a me non basta: io voglio volare!
Per questo decido di trasformare le disgrazie in grazie, cogliendole come occasioni per diventare più flessibile, più creativo, più umano…
Non voglio assecondare il mio umore nero, il timore che mi deprime. In quei momenti anche il mio credere sembra non servire a nulla; ma proprio allora voglio solo credere in me stesso, perché quello che Dio può e vuole fare l’ha già fatto in me, in modo che io, adesso, possa fare quel che occorre.
E lo farò!

Il passo successivo è affrontare il problema. Qui l’ansia ti porta a voler risolvere subito, per uscire al più presto dal disagio che stai provando. Aspetta. Pensaci. Molte volte il problema reale è diverso da quello apparente. Difficoltà, problemi che gli altri ti contrappongono, in realtà chiedendo attenzione, supporto, affetto. Occorre pertanto trovare una soluzione diversa rispetto alle alternative che normalmente si presentano. Questo problema diverso e questa soluzione diversa appaiono quando cerchi di affrontare il problema con le persone coinvolte, restando in ascolto anziché cercare di imporre la tua soluzione.
Considera inoltre che non ci sei solo tu: accanto a te le persone possono diventare una risorsa per aiutarti a risolvere il problema con ciò che sono capaci di consigliarti o di fare direttamente.

Non ti passerà l’ansia… ma decidi di gestirla: si ridimensionerà.

                                                                                                           Michele Bortignon











1/01/2020

Quale risposta quando non c'è risposta?


Quando certe atrocità è l'uomo a commetterle, abbiamo perlomeno un colpevole con cui prendercela. Non basta alla nostra sofferenza, ma la nostra ragione si dà una ragione.
Diverso quando è la vita a scatenarsi contro di noi: una disgrazia, una malattia, un cataclisma con il loro non senso mettono in crisi la nostra fede in un Dio-Padre.
Nella convinzione che ciò che ci fa male è un male in sé, nella convinzione che chi ama protegge, come può permettere questo un Dio che ama?
L'ateo risponde: questa è la prova che Dio non c'è; o, se anche esiste, è impotente contro il male.
Quel Dio che è a me più intimo del mio stesso io, tanto da esserne la verità, è però anche “nell'alto dei cieli”: per il totalmente altro da me il problema da affrontare non è tanto il mio soffrire di adesso, quanto il mio diventare Uomo, scopo della vita che egli mi ha dato.
Le difficoltà scovano e mettono in moto le mie risorse e le mie capacità. Una volta emerse, esse fanno parte di me, diventano la mia forza, la mia energia.
Se però si limitasse a permettere il male in vista di un bene maggiore, Dio sarebbe una specie di organizzatore/allenatore, attento al nostro bene ma lontano. E noi saremmo soli. Ed è proprio la solitudine quel che ci ferisce di più nella sofferenza.
Ecco allora che Dio si fa accanto a noi nella sofferenza:
  • Come Padre ci dà dei fratelli, aiuto concreto nel nostro bisogno; e tali ci rende per chi avrà poi bisogno di noi.
  • In Cristo crocifisso, Dio si è inchiodato a una croce uguale alla nostra, condividendo la nostra paura e la nostra sofferenza. Ora abbiamo Qualcuno con cui piangere e assieme al quale cercare la via per la risurrezione.
  • Lo Spirito, poi, è la speranza, la fiducia, l'amore che ci spingono da dentro a lottare contro la paura, a vincere la rabbia, a superare lo scoraggiamento.
Nella nostra sofferenza, Dio non ci dà risposte: Dio si fa risposta.
Dio non passa per la mente attraverso la filosofia o la psicologia, ma lo sentiamo in un abbraccio, in una presenza, in uno stringersi caldo del cuore, in una Parola che dirada la nebbia.
Nella sofferenza abbiamo bisogno di un “qui” che ci stringa forte, ma anche di un “oltre” che ci apra lo sguardo e le mani su una vita nuova. Chissà... forse anche migliore...

Michele Bortignon