12/15/2014

Matrimoni falliti ?

Nel discutere che si fa in questo periodo, a seguito del sinodo dei vescovi sulla famiglia, delle prospettive da dare alle situazioni matrimoniali “irregolari”, credo che la prima cosa da fare è cominciare a dare alle cose il loro nome: quello che normalmente chiamiamo amore di coppia è, in realtà, la ricerca di un piacere emotivo, affettivo e sessuale personale. L’amore, ossia il cercare il bene dell’altro per l’altro, gratuitamente, verrà più tardi; talora anche mai. La prova per vedere se c’è sono i contrasti di coppia: dove umanamente non ci sarebbero le condizioni per continuare, la gratuità consente di superare questi momenti sopportando di rimanere in credito, lasciando in prospettiva il soddisfacimento dei bisogni emotivi, affettivi, sessuali.
Che cosa rende possibile questa gratuità? Il sentire profondamente che la verità personale non risiede nell’individualità, ma nella relazione: in pratica, io sono in quanto sono una parte di noi due. Solo in questa prospettiva l’amore di coppia è fedele, unico e indissolubile. Un amore così non si inventa: o è un’eredità familiare o è la scoperta ispirante della relazione che Dio ha con noi (o, in termini più laici, che c’è un Amore che ci precede e che rende vero ogni amore umano che ad esso si conforma).
Ma un’idea da sola, per quanto motivante, difficilmente riesce a sostenere la gratuità nel tempo. Non siamo capaci di vivere costantemente in credito: il bisogno ci urla dentro la sua necessità di essere soddisfatto. Possiamo continuare a dare amore senza esserne contraccambiati dal coniuge solo se nella relazione personale con Cristo troviamo il nutrimento che ce ne compensa. Ecco allora che solo da un matrimonio cristiano si può sperare una relazione di gratuità che lo renda saldo anche nei momenti di difficoltà. Gli sposi cristiani manifestano che Dio esiste perché vivono l’amore nella gratuità proprio quando la loro relazione attraversa momenti in cui non ha altre motivazioni umane che la sostengano. In questi momenti il matrimonio cristiano manifesta la sua natura di scelta “religiosa”: sussiste solo per la presenza di Dio, reale per almeno uno dei due e tale da rendergli possibile sostenere il peso impossibile della gratuità.
Non si possono, dunque, pretendere le esigenze della gratuità finché Dio non è, almeno in uno dei due, una presenza talmente reale da compensare ciò che l’altro al momento gli sta negando. Quando non c’è questa dimensione di fede, l’agape potrà allora compiersi in una prospettiva escatologica, quando i due ritroveranno il loro matrimonio custodito in Cristo, che farà risorgere ciò che la loro debolezza è stata incapace di compiere, senza negare il bene che comunque, nel frattempo, avranno costruito per riuscire a sopravvivere come potevano. Una prospettiva, questa, che non è pensabile in una logica umana, ma è fondata sulla speranza cristiana… che è logica di fede! Una speranza che siamo chiamati a testimoniare avvolgendo ogni situazione di incapacità, di limite, di fallimento della coppia in crisi nella misericordia che solo può comunicarci un Dio-agape, i cui pensieri non sono i nostri pensieri, le cui vie non sono le nostre vie.
Fintantoché continuiamo a giudicare, a condannare e a pretendere, dimostriamo solo di vivere una religione senza fede.

                                                                                                   Michele Bortignon

11/19/2014

La sfida della diversità

“Se non sai con esattezza dove andare, rischi di trovarti altrove e di non accorgertene”
: questo detto vale anche per la spiritualità, ossia lo specifico modo di vivere il nostro essere cristiani.
Nella nostra relazione con Dio, con gli altri, con noi stessi, con le nostre attività, a che cosa diamo particolarmente valore? Che cosa caratterizza il nostro modo di amare, di credere, di sperare? Come sono fatte le onde che danno un profilo specifico all’elettrocardiogramma della nostra fede? Queste onde ci sono in ogni caso (a meno che non siamo come quei “tiepidi” di Ap 3, 16 che il Signore sta per vomitare dalla sua bocca), ma le abbiamo scelte oppure le abbiamo subite, assorbite senza chiederci se esprimono ciò che Dio ci chiama ad essere?
P. Davide Maria Turoldo ha inventato una nuova beatitudine: “Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione”. Non si tratta di essere per forza dei bastian contrari, ma di rendersi conto che la Chiesa non è una massa indistinta guidata dalla gerarchia, ma una comunità articolata in carismi, che la rendono operativa come un corpo ben compaginato, in cui ciascuno è indispensabile con la funzione che è chiamato a svolgere, nata e specificatasi nella sua personale storia di salvezza.
Con quali attenzioni, con quali accentuazioni viviamo il nostro carisma e la missione che ne consegue? Per i religiosi, la grande scelta era la vita attiva o la vita contemplativa, con una serie di differenziazioni interne e/o intermedie a queste due categorie; ma anche i laici, riuniti nei movimenti, si caratterizzano per modi specifici di vivere religiosamente la loro laicità.
Ogni spiritualità prende le mosse da un’esperienza fondativa che ha risposto alle sfide della situazione umana e sociale che il fondatore si è sentito chiamato ad affrontare, introducendo una variante significativa alla spiritualità che già stava vivendo.
E’ stato così anche per il Kaire, che nasce dalla spiritualità ignaziana, caratterizzata dalla centralità del rapporto con Cristo, vissuto in maniera personale –da amici, attiva –da compagni di missione, intelligente –nel discernimento.
Ma da questa spiritualità il Kaire si distanzia nel modo di essere Chiesa. Ad Ignazio appartiene uno strutturarsi gerarchico della Compagnia da lui fondata, che si inserisce nella struttura gerarchica della Chiesa per un agire organizzato a cascata, reso possibile dal vincolo dell’obbedienza. Un’organizzazione, questa, che a suo tempo è stata utile per intervenire con efficienza ad arginare le spinte centrifughe operanti al tempo della controriforma.
Il nostro tempo è però caratterizzato dal diffuso abbandono di una prospettiva religiosa condivisa della vita e dalla conseguente relativizzazione della ricerca spirituale. L’uomo contemporaneo vuol essere protagonista del proprio cercare – e questo è un aspetto da valorizzare -, ma la relativizzazione estrema rende ogni soluzione uguale alle altre, valida per il qui e ora di chi la sta vivendo, spesso nel disinteresse per il poi e per gli altri.
Ecco allora che il Kaire valorizza la ricerca personale in una riappropriazione creativa, adattata ai bisogni del presente, della tradizione della Chiesa: in altri termini, una fedeltà al passato che si coniuga con una fedeltà al presente. E tutto ciò si esprime praticamente nel protagonismo laicale. Chi vive nella spiritualità del Kaire è soggetto attivo di pastorale all’interno di una Chiesa che la sua azione spinge a diventare più ministeriale e meno gerarchica, come il Concilio Vaticano II° aveva prospettato.
Questo, finora, ha significato staccarsi da una dipendenza diretta dalla Compagnia per esercitare autonomamente il ministero degli Esercizi.
Se il distacco è necessario per esprimere una nuova identità, quello stesso Spirito che ha spinto perché ciò che era unito si diversificasse per creare una cosa nuova, spinge poi per rimettere in dialogo la vecchia e la nuova realtà così createsi per arricchirle l’un l’altra della rispettiva diversità, novità utile a ciascuna per ampliare i propri orizzonti. E sarà questo il momento in cui ciascuna, dalla propria disponibilità al dialogo, verificherà se è più importante ciò che ha costruito o l’essere con il suo Signore, libera da se stessa per seguirlo senza sapere dove. Non è questa la fede?

                                                                                                 Michele Bortignon

10/22/2014

Riflessione sulla tentazione

Che cos’è la tentazione? Un soluzione che mi separa da Dio. Alla fine l’urgenza del bisogno diventa insopportabile. E allora mi tenta trovare il modo, la giustificazione per poter usare ciò che non potrei usare per soddisfare il mio bisogno.
«Sta scritto» risponde Gesù al tentatore: quando sono travolto non devo ragionare, ma rifarmi a ciò che un giorno ho scelto, quando ho scelto ciò da cui voglio ricevere Vita. Ed è difficile quando sento che proprio questa mia scelta ora mi ha condotto nel deserto.
Chi vuol separarmi da Dio mi dice che ne sono già separato, altrimenti come si spiega che Egli non è con me in ciò che faccio? Ma tu non cercare di ricondurre Dio ai tuoi schemi di pensiero. In Dio tutto è bene. Di default. Abbi fede.
«Devi essere importante per la gente, lasciare una traccia» continua a dire il tentatore. «Per questo devi essere il primo a cercare quello che tutti cercano, per indicarne la strada». Ma è da un Oltre che viene la Vita. Che cosa voglio salvare? Un pezzetto di vita tutto per me, consumando vita, o lasciare che l’esistenza mi trasformi in altro da me, oltre me, per costruire se stessa a un livello più alto? Voglio affermare il mio esistere o dar corpo all’Amore? E’ una scelta già fatta, ma, a volte, sembra più Vita un brivido di piacere, la soddisfazione di un successo, che non la calma bellezza di un gesto buono nell’ordinario, di una fedeltà che scorre senza fremiti.
Accettare il deserto come scalpello che mi riplasma diverso. Credere che ogni doloroso colpo mi guarisce, che questo svuotamento è per accogliere Chi vuole riempirmi di Sé.
Tutto, alla fine, sarà bene. Se ora non sta andando bene, non è ancora la fine.

                                                                                         Michele Bortignon

9/25/2014

Tre passi per dare senso alle situazioni impossibili

A metà strada per la cima del Bondone, su una tabella di legno qualcuno ha scritto con lo spray “At the end, every thing is good.
If it's not good, it's not the end” (Alla fine, tutto è bene. E se non è bene, non è la fine).  Geniale! In una frase, il senso della vita: non un errore scappato alle mani del Creatore, ma una sfida lanciata con fiducia a chi Egli ha messo nella vita come occasione per trasformarla, a propria volta, in qualcosa di bello.
Nelle situazioni disperanti, apparentemente senza uscita, questa sfida è più forte, ma non senza prospettive. “Se continuerai a fare quel che hai sempre fatto, continuerai a ottenere quel che hai sempre ottenuto”, dice un proverbio. La risposta a questa sfida è, dunque, riconoscere che, forse, c'è un altro modo rispetto a quello che io considero normale, di buon senso. E' la risposta della fede: non so, quindi mi metto in ascolto, cerco, mi apro a una prospettiva “altra”. Vivere nello Spirito di Cristo - nella fede, nella speranza, nell'amore -  è via alla risurrezione. Questo lo sappiamo, lo crediamo, lo sperimentiamo. Ma se la situazione è talmente complicata che nemmeno sappiamo da che parte cominciare, forse un’apertura di prospettiva nella direzione giusta può cominciare a orientarci. Proviamo allora questi tre passi.

Il primo passo è provare a disseminare la giornata di isole felici. E' possibile. Non dobbiamo permettere che il nostro male occupi tutto il nostro orizzonte.
C'è un esercizio per non lasciarsi rubare la speranza: ogni mattina proponiti un gesto positivo e ottimista (un saluto caloroso, un complimento, un sorriso, un abbraccio) verso una persona che incontri nella tua giornata; e, alla sera, accorgiti di qualcosa di bello che hai vissuto durante la giornata (un grazie, un sorriso, un complimento). I primi sono i semi che getti, i secondi i frutti che raccogli.

Questo esercizio permette di recuperare uno sguardo più positivo sulla realtà e, con esso, quel minimo di serenità indispensabile per provare a guardare la situazione da un altro punto di vista: come occasione di una novità che, spontaneamente, non riusciremmo a considerare. Trovarla ci obbliga ad aprirci agli inputs che possono venirci dagli altri, ai quali chiedere un consiglio, dalle Scritture lette nella preghiera, dalle strutture sociali deputate a un aiuto specifico. E’ questo, come si diceva all’inizio, il secondo passo: accogliere la sfida che la nostra difficile situazione ci porge, per trasformarla, con la nostra creatività in qualcosa di buono o, perlomeno, di sostenibile.

Fin qui, però, è sopravvivere, e non ancora dare un senso a ciò che ci sta succedendo. Forse, ciò che ci è dato di vivere prende senso nel momento in cui diventa un'esperienza che arricchisce la nostra vita e quella degli altri. Ecco che, allora, il terzo passo è quello di trasformare la nostra esperienza dolorosa in un talento da mettere a disposizione degli altri (a cominciare da chi ci vive accanto): mentre guarisco, aiuto a guarire; mentre mi consolido, aiuto altri a diventare più solidi.
Mi accorgerò allora che proprio quelle ferite che odio per il dolore che mi procurano diventano gloriose, dispensatrici di grazia, aperture attraverso le quali Dio può passare per incontrare altri nelle loro ferite. E il bene che faccio agli altri ritorna su di me: mentre aiuto a guarire, guarisco più a fondo; mentre aiuto altri a diventare più solidi, aumento la mia solidità.

Potremmo riassumere così i tre passi:
  1. non c’è solo dolore nella mia vita;
  2. il mio dolore è una sfida per una novità di vita;
  3. il mio dolore è un talento da mettere a frutto.
 Se osserviamo bene, questi tre passi hanno un denominatore comune, un atteggiamento che li accomuna: reagire. Ed effettivamente notiamo che di fronte alle difficoltà ci sono persone che si impaludano nella lamentela, nel brontolamento e nella depressione, fino ad arrivare anche alla disperazione, ed altre che - certo come possono! – reagiscono e si avviano verso una prospettiva diversa.
Perché non è un atteggiamento normale quello di reagire? Perché bisogna rinunciare alla piacevolezza del vittimismo: quanto è consolante sentirsi incompresi, vittime del destino o della cattiveria altrui! Reagire significherebbe intraprendere la scomoda strada del cambiamento personale, ammettendo che anch’io ho avuto una parte nel creare questa situazione e che, comunque, dipende anche da me – e non solo dagli altri – cambiarla.
Come dice Richard Bach in una frase che mi piace, “Se non è mai colpa nostra, non possiamo assumerci la responsabilità per qualcosa. Se non possiamo assumerci la responsabilità per qualcosa, saremo sempre la sua vittima”.
                                                                        Michele Bortignon

8/20/2014

L’accompagnamento spirituale: raggiungere una meta attraverso sentieri sempre diversi

Ci sono giorni in cui vorresti che chi accompagni riuscisse a mettere i piedi nelle tue orme, che usasse il tuo bastone, che avesse il tuo stesso zaino, il tuo sguardo, il tuo sentire, la tua voglia di andare avanti e far strada. Ma non è così. Perché la propria esperienza di Dio ognuno la fa sulla propria pelle, con le proprie scarpe, creando le proprie impronte. E saranno i suoi calli e le sue vesciche, curate e baciate da un Dio servo per amore, a restare come segno e conferma di un cammino fatto e soprattutto di un incontro avvenuto.
Sarà che è estate e per me estate significa altezze e dirupi, rocce, vento, sole, silenzio. Estate è montagna: sudore, fatica, piedi dolenti e gambe stanche. Ma anche cuore leggero, sguardo che si riposa contro una parete o che si perde in uno spazio che sembra non finire mai. Estate è montagna: il vento che ti punge, il sole che ti brucia, la pioggia che ti schiaffeggia il viso. Sarà che ho voglia di montagna, ma la montagna, o meglio, il camminare in montagna su sentieri più o meno impegnativi e impervi può essere una metafora del cammino spirituale.
Accompagnare spiritualmente non significa indicare un sentiero già percorso, ma rifare quel sentiero assieme a chi accompagni.
L’accompagnatore rifà lo stesso cammino sempre uguale con persone diverse? No, la strada non è mai la stessa; lo è la direzione, ma non il cammino. Proprio come in montagna lo stesso sentiero presenta sorprese e scorci sempre nuovi, anche se fatto infinite volte, così gli esercizi Kaire sono sempre nuovi e mai uguali, perché ogni persona ha il suo passo, il suo ritmo, la sua andatura. Ognuno ha sulle proprie spalle il suo bagaglio di passato da aggiustare o alleggerire, ha il suo presente da capire e imparare a gustare nonostante le difficoltà e ha un futuro in cui credere, sperare e sognare.
Quale bagaglio porta con sé l’accompagnatore in un cammino spirituale?Sempre lo stesso o uno a misura di chi accompagna? E chi dà il ritmo al cammino, l’esercitante o l’accompagnatore? Chi segue chi?
È l’accompagnatore che dà il passo, modulandolo su quello di chi accompagna, e dal suo bagaglio tira fuori ciò che la vita ha messo dentro come esperienze vissute nello spirito di Cristo - con fede, speranza, amore - per entrare nelle situazioni che l’altro gli presenta e cercare di aiutarlo a viverle con lo stesso spirito.
Nello zaino dell’accompagnatore, allora, c’è sempre la vita, quella vera, di tutti i giorni, con i problemi di tutti i giorni: lavoro, casa, famiglia, bilanci da far quadrare, coniuge, figli, suoceri, genitori,ecc… I laici di tutto ciò fanno esperienza concretamente e la loro credibilità è appunto il vivere ciò che testimoniano e mostrare come sia possibile unire vita e fede, anzi come la vita trovi spessore e significato nella fede. Ogni difficoltà, ogni problema se vissuto con Cristo e nel Suo Spirito, diventa lezione di vita prima di tutto per sé e poi anche per gli altri.
Ecco che allora ti affidi meglio a chi senti può capirti per esperienza. Che cosa significa, che si riesce ad accompagnare solo chi è sulla nostra frequenza perché abbiamo vissuto o affrontato ciò che sta vivendo? Oppure, cercando di porci noi nella frequenza di Dio, accompagniamo chi si lascia condurre a quella frequenza d'onda, a quelle altezze? Con chi non riesci a sintonizzarti non si riesce a far niente? Oppure Dio lavora per strade e vie tutte sue come e quando uno meno se lo aspetta? 
È come in montagna: non puoi portare gli altri sulle spalle, ognuno cammina con le proprie gambe e muove i propri passi, la guida indica una via già nota, ma nemmeno lei conosce gli imprevisti del sentiero: possibili frane, caduta sassi, pioggia, vento, grandine; però può suggerire come affrontare gli imprevisti e li affronta con chi tiene il passo dietro a lei: non impone, ma propone.
Chi ti accompagna in montagna ti può raccontare di certi cieli azzurri dopo un temporale, o di certi giochi di luce e ombra, ma non ti può dare i suoi occhi per vederli: devi tu fare la fatica di passare la bufera per poterli gustare. Così l’accompagnatore spirituale ti può spiegare di certi voli del cuore, di certi silenzi pieni di parole inudibili, ma non te li può mettere nel cuore, devi andare tu a cercarli e lasciarti trovare.
E poi ci sono giorni in cui ti rendi conto che è Dio che fa con te e che fa con chi accompagni anche senza che tu faccia niente; e questo ti dà la giusta misura delle cose, la giusta umiltà, il giusto limite. Sapere che alla fine tutto è sempre e soprattutto nelle Sue mani ti dà un respiro profondo a pieni polmoni, come quando arrivi alla meta del tuo cammino e ti siedi ad ammirare la strada percorsa: la salita, il paese là in fondo da dove si è partiti e ti sembra impossibile di avercela fatta e di aver coinvolto altri, titubanti e un po’ riluttanti, a seguirti. Ma chi ti ha seguito ha camminato con le sue gambe, con i suoi passi, con il suo zaino; ha fatto strada perché ha scelto e deciso di farla fidandosi di chi lo guidava.
Sì, alla fine siamo proprio servi inutili e questo mi riempie di gioia e serenità: che bello non doversi prendere sempre troppo sul serio!
E poi,dopo aver guardato la strada fatta,alzando lo sguardo ti perdi in altezze a toccare il cielo e sogni altri sentieri sempre nuovi e appassionanti da percorrere, sempre verso l’unica meta….ma questa è un’altra storia: un’altra avventura.
“Una cima raggiunta è il bordo di confine tra il finito e l’immenso. Lì arriva alla massima distanza dal punto di partenza. Non è traguardo una cima, è sbarramento. Lì sperimentava la vertigine, che in lui non era il risucchio del vuoto verso il basso, ma affacciarsi sul vuoto dell’insù. Lì sulla cima percepiva la divinità che si accostava” (Erri De Luca, E disse).


Maria Rosa Brian

7/04/2014

Discernere il confine tra spiritualità e superstizione

La torta di Padre Pio si prepara in dieci giorni seguendo un certo ordine e determinate regole nella preparazione. Si inizia sempre di domenica e si regalano tre parti dell’impasto preparato ad altrettante persone bisognose di una grazia fisica o spirituale (e chi non ne ha bisogno?). Nel foglio che mi è stato recapitato assieme all’impasto c’è scritto che è una torta che si fa per devozione e per chiedere una grazia a Padre Pio. È sottolineato che questa torta non la si rifiuta, si esprimono tre desideri e la si inforna; durante la cottura si rivolge un pensiero a Padre Pio e tre preghiere con una formula particolare.
Mi è stato donato l’impasto alcuni giorni fa e io, che non sono devota a Padre Pio e che ho smesso di chiedere grazie a santi e madonne da tanto tempo, ho buttato tutto nella spazzatura.
Mi chiedo: e se faccio la torta e la grazia non arriva? È perché ho sbagliato qualche passaggio nella preparazione? È perché ho pregato male? È perché Padre Pio non si è ricordato di me? È un santo distratto? Sono convinta che più di qualcuno, anche con un certo grado d’istruzione e cultura, non spezza questo tipo di catena perché “non si sa mai” - ce ne sono moltissime anche via mail, SMS e WhatsApp che arrivano da chi meno te lo aspetteresti proprio perché “non si sa mai” -.
No, questa non è spiritualità, ma superstizione: se eseguo determinati riti in determinati modi otterrò il miracolo richiesto; ma che razza di Dio è questo? Oltretutto è l’immagine di un Dio solo e irraggiungibile poiché gli uomini si rivolgono non a Lui, ma a sua madre o alla schiera dei suoi angeli e dei suoi santi che sono più accessibili e a portata di mano. Di Dio rimane ancora troppo spesso la visione di un padrone tiranno, più che di un padre amorevole; tutte le superstizioni e i riti dare-avere ne sono la conferma.
Di fronte a situazioni come questa, o simili - ce ne sono infinite nella tradizione popolare e di nuove su internet! - come comportarci? Da che cosa lasciarci parlare e che cosa zittire? A che cosa dare adito e a che cosa no?
Per capirlo, forse dobbiamo vivere la fede con un pizzico di scientificità. E allora domandiamoci: a che cosa la scienza da credito? Una teoria, per avere un fondamento nella realtà (è questo che la fa considerare scientifica) deve essere caratterizzata dalla replicabilità dei risultati. Possiamo esprimere il concetto attraverso la formula y= f(x) ossia y è funzione di x: ogni volta che si dà x, sempre e per tutti la conseguenza è y. 
Se non studi, sempre e per tutti la conseguenza è che ti bocciano. Se senti dentro di te una pace vasta, profonda e duratura, sempre e per tutti significa che quel che stai facendo è congruente con la natura profonda che ti caratterizza.
E allora verifichiamo questa teoria con alcune domande…
Se apro la Bibbia a caso e trovo un versetto che mi dà la soluzione a ciò che sto vivendo, sono sicuro che è stato Dio a dirmelo? Se sto andando a dare esercizi e un'auto mi tampona, è Dio che vuol fermarmi perché sto facendo qualcosa di sbagliato? Il raggio di sole che entra dalla finestra dopo che nella preghiera sono stata toccata internamente da Dio è Dio stesso che mi conferma?
E’ Dio che si diverte a entrare nella casualità?
Un Dio usato per spiegare tutto ciò che non capiamo, come facevano nel medioevo, che fine fa quando la scienza ci spiega tutto? Lo teniamo solo per l'aldilà “non si sa mai”? 

Qual è il confine fra spiritualità e superstizione? Dove e attraverso cosa Dio mi parla e dove invece sono io che, associando avvenimenti e casi fortuiti, “voglio” avere un segno?
Stiamo però attenti anche a non cadere neppure nel rischio del troppo terreno o dello psicologico: c'è anche la dimensione del mistero da salvaguardare, dell'apertura a un oltre che, proprio per serietà scientifica, non posso scartare, facendo finta che esiste solo quel che posso toccare e misurare!
A Medjugorie la Madonna c'è o non c'è? Eppure tanti fanno delle esperienze forti! E allora è la Madonna o qualche cos'altro (forse ancor più buono della presenza della Madonna, capito il quale magari possiamo viverlo anche altrove)?
E’ Dio che mi parla attraverso un tramonto o la pace vasta e profonda che provo mi fa vedere Dio anche in un tramonto?
L’unità di misura è dentro di me; la lettura di ciò che succede è interiore, non esteriore. Non è il raggio di luce che m’illumina a essere Dio che mi parla, ma il lavoro interiore fatto attraverso la riflessione e la preghiera a rendermi più sensibile a ciò che mi circonda e che magari gli altri non notano o sottovalutano. Allora quel raggio di sole lo posso anche chiamare Dio, ma so che non è Dio, almeno non tutto quello che chiamo Dio. E allora ecco che tutto mi parla di Lui, anche se in realtà tutto è come sempre, com’era ieri, come sarà forse domani, ma sono io ora a essere cambiata. “Ecco io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Is 43,19). Ciò che germoglia, ciò che è nuovo, ciò che si apre, tutto ciò di cui accorgerci come segno di cambiamento, la prospettiva nuova che si scorge è dentro di noi.
La cassa di risonanza sono io, è dentro di me che vibra ciò che mi circonda, il riferimento è sempre il mio io, il mio stare bene con me principalmente, che è uno stare bene con Dio, e di rimando con gli altri.
Allora sta a noi discernere realmente cosa è Dio e cosa no.
Se quando faccio il bene mi sento bene, ciò che mi circonda risulta amplificato da quel bene. Quando faccio il male mi sento “non a posto”, sento che qualcosa non va e ciò che mi circonda mi amplifica il male che ho dentro di me. Chi aveva fatto notare ad Adamo ed Eva che erano nudi? Nel giardino di Eden, a parte un frutto mancante da un albero, non era cambiato niente. Era in loro che era cambiato qualcosa, nel loro intimo, e di conseguenza cambiava la loro consapevolezza di ciò che era fuori da loro.
Che cos’ha di miracoloso la torta di Padre Pio? Che va condivisa, che in un’epoca dove la parte del leone la fanno l’individualismo e la fretta, una persona, presa un po’ di pasta dal suo impasto ne fa tre parti e va personalmente da altrettante persone a farne dono. Questo può essere motivo di dialogo (si spera profondo e di fede autentica), di scambio reciproco di esperienze, magari di sofferenze condivise e portate insieme. Il miracolo dov’è? Chi ha donato l’impasto ha portato e condiviso un po’ di sé e si sente bene; chi ha ricevuto l’impasto si è sentito “pensato e amato” e ciò non può che fargli bene. Ma non è quel pizzico di lievito che fa fermentare tutta la pasta? Non è questo il regno di Dio? Aspetto il miracolo o mi faccio io miracolo per gli altri?
In conclusione mangiamoci la torta di Padre Pio in compagnia, mandiamo la mail o il messaggio positivo che fa bene al cuore, ma lasciamo stare formule magiche, riti, catene di S. Antonio e anticaglie varie rivisitate in forma tecnologica.
Manteniamo gli abbracci, il sorriso, il saluto cordiale, la stretta di mano energetica, la pacca sulla spalla, il “come stai” detto non per formalità ma con vero interesse. Andiamo a trovare gli amici, telefoniamo più spesso a chi è lontano, coltiviamo le relazioni e troveremo l’essenza di Dio: l’AMORE.

Maria Rosa Brian









6/19/2014

Il non-verbale nell’accompagnamento spirituale

Che cosa trasmette l’accompagnatore a chi accompagna spiritualmente? Sapere o sapore? Nozioni o azioni? Conoscenze o esperienze?
Sono qui e cerco i pensieri, che poi diventeranno parole, per questo articolo che mi è stato richiesto da chi a sua volta mi ha accompagnato spiritualmente e tuttora lo fa.
E nel mio cercare mi lascio guardare e suggerire sia dalla mia esperienza di “accompagnata”, sia da quella, seppur breve, di accompagnatrice, ma soprattutto dall’icona del Cristo di Rublev. 

Ecco, è proprio da questa icona che voglio partire per parlare del non-verbale nell’accompagnamento spirituale. Perché il non-verbale è fatto di non-parole fatte di sguardi e di gesti, non-parole che sono testimonianza di vita vissuta. Chi, meglio di un’icona, che si legge guardandola e si guarda leggendola, può dire qualcosa?
Accompagnare è guardare amorevolmente chi accompagni e lasciarsi guardare da chi accompagni. È ciò che fa questo Cristo: ti guarda e ti ama mentre tu lo guardi e lo/ti interroghi.
Lo sguardo di chi accompagni all’inizio è titubante, curioso, indagatore. È lo stesso che avevo io nei confronti di questo volto di Dio: «Ma chi sei? Ma che cosa hai da dirmi tu della mia vita, della mia storia? Ma che cos’ho io da spartire con Te?» questo gli chiedevo.
Volevo capire che cosa muoveva il mio accompagnatore a dire ciò che diceva e soprattutto se viveva ciò che diceva; e allora lo studiavo, lo mettevo quasi alla prova: volevo carpirne il segreto.
Lo stesso è per questo volto di Cristo, così sereno, composto, solenne e nello stesso tempo umile perché è stato per lungo tempo a contatto con l’humus, con la terra, con l’umanità di ognuno di noi1.
Poi, quando ti rilassi, ti accorgi che a muovere chi ti accompagna è un Amore che ha trovato, o, meglio, è l’Amore che ha trovato lui, l’accompagnatore: è questo il suo segreto, che strada facendo ti svela e ti rivela.
È Dio che ha trovato me, è questo volto che mi ha raggiunta nelle mie profondità, si è avvicinato a me ed è sceso sino a incontrarmi.
Ecco, penso che il non-verbale aiuti a sottolineare proprio questo: che l’Amore ci raggiunge e ci trova se ci arrendiamo e smettiamo di scappare e ci lasciamo abbracciare. È la serenità di questa certezza che parla di te accompagnatore agli altri più di mille erudite parole, importanti certamente, ma non da sole.
L’accompagnatore è questo: mostrare che questo incontro è possibile, perché è quello che nella sua vita è successo. Egli diventa testimone credibile quando quello che dice non sono solo belle frasi imparate, ma vita vissuta: “Te lo dico perché l’ho sperimentato..., nella mia vita è avvenuto così…, ti capisco perché l’ho passato anche io…” sono affermazioni che sottolineano e rafforzano una vicinanza tra accompagnatore ed esercitante, è una strada fatta insieme e nota a lui perché l’ha già percorsa.
È questo ciò di cui si ha bisogno: di un annuncio gioioso e credibile perché sperimentato; non è questo il significato del Vangelo? E che cosa c’è di più credibile di chi nella propria vita per primo ha verificato, e verifica, quello che professa?
Il non-verbale, allora, è ciò che lega quello che dico a quello che vivo, è ciò che mi fa amare di un amore materno chi accompagno e che mi fa sentire un legame filiale con chi mi accompagna, che poi non è altro che sperimentare, e permettere di sperimentare, l’amore paterno e materno di Dio. Deve dirlo in continuazione una madre al figlio che lo ama per essere credibile? Oppure è quello che lei è a trasmettere e a far passare il suo amore a prescindere dalle parole?

                                                                                             Maria Rosa Brian


1Questa icona è dipinta sul retro di una tavola di legno che per lunghi anni è stata usata come passaggio per una stalla senza sapere che cosa nascondesse sotto il fango di cui era incrostata. 

5/19/2014

Demoni di ieri e demoni di oggi

Un famoso aforisma afferma che chi non apprende la storia è condannato a ripeterla.
Lo stesso vale per chi non conosce la propria storia personale: chi non conosce i propri “dèmoni”, cioè quelle paure che lo spingono a comportarsi e a reagire sempre nello stesso modo di fronte a situazioni che si ripetono simili nella propria vita, è destinato a rimanervi soggiogato per sempre.
In questo lavoro di ricerca interiore ci sono, ancora oggi, di aiuto uomini e donne del passato che, abbandonato momentaneamente o per sempre la vita secolare, si sono ritirati in eremitaggio per cercare di guardare dentro di loro e conoscere i propri demoni - che poi sono gli stessi di tutti gli altri uomini - e cercare di vincerli e aiutare altri in questa lotta: la conoscenza è già un passo verso la vittoria.
Uno fra tutti, e forse il primo fra tutti, è stato abba Antonio, vissuto in Egitto a cavallo tra il terzo e il quarto secolo (251circa - 357), considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo padre spirituale, l’abba appunto.
Che cos’ha da insegnare la storia della sua vita, così lontana dal nostro mondo, a noi oggi? È questo l’interrogativo a cui abbiamo cercato di dare una risposta giovedì 15 maggio durante la presentazione del libro di Michele Bortignon a Laghi di Cittadella.
Il libro “Alle radici della notte” è un cammino spirituale accompagnato dalle vicende della vita di abba Antonio.
Nella vita di Antonio i demoni assumono simbolicamente la forma di animali e mostri più o meno terrificanti; e nella mia, nella nostra vita, li so riconoscere?
Quali e quanti sono i miei demoni, quali forze negative mi tengono bloccata a terra impedendomi di volare? Certo i nostri non sono diavoli con le corna, draghi o animali selvatici, ma sono ugualmente terribili e spaventosi: ansia, stress, senso di colpa, condizionamenti sociali, paura di fallire e di sbagliare, paura del giudizio, inadeguatezza, ecc…; sono tutte situazioni che mi tolgono vita, energia e che mi costringono a sopravvivere perdendo la gioia di Vivere la mia vita in prima persona e da protagonista con il mio Signore.
Durante la serata di presentazione abbiamo conosciuto il demone dell’ansia, dello stress, del senso di abbandono, della paura della sofferenza; assieme ad Antonio, abbiamo cercato di capire come difendercene. Il riconoscere i propri demoni e cominciare a chiamarli per nome, il condividere le proprie paure con altri e vedere che le paure degli altri alla fine sono le stesse che abbiamo noi, ma soprattutto sentirle accolte da Dio attraverso anche la figura dell’accompagnatore spirituale, sono tutti passi per crescere noi e rimpicciolire loro -i demoni-. È un modo infallibile per segnare un punto a nostro favore nella partita della nostra vita contro tutte quelle forze che ci impediscono di realizzarci nell’amore e con l’Amore.
                                                                                                Maria Rosa Brian

 
 

  Michele Bortignon con la moglie Anna Cogo alla fine della serata di presentazione del libro “Alle radici della notte”.


4/15/2014

Il perdono

“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”
(Mt 5,11)

Perdono, lo dice la parola stessa: per-dono, cioè un qualcosa che si da gratuitamente, quel di più che si offre all’altro senza che questi se lo aspetti e senza aspettarsi qualcosa in cambio: sarà la gioia nel gesto del donare che ci ripagherà ampiamente del dono dato.

Come arrivare a perdonare, a non avere nessuna voglia di “fargliela pagare”, a non meditare nessuna vendetta, a non reclamare “pan per focaccia” o “dente per dente e occhio per occhio”?
L’essere centrati su se stessi, cioè mantenersi in equilibrio appoggiando saldamente il nostro centro su Dio ci permette di poter fare quel gesto di donare perdono.

Ma per quale strada? Dopo quale consapevolezza arrivare a perdonare?

Iniziamo dal punto di partenza di questo cammino interiore, e non solo, che ci porterà al perdono.
Prima di tutto è importante il bagaglio per questo viaggio, cioè quel terreno dove si è seminato il seme del perdono. Il perdono si semina in un cuore che a sua volta si è sentito perdonato e amato di un amore incondizionato.
Se mi sento amata, stimata, preziosa, perché Dio me lo ha fatto sperimentare attraverso delle persone concrete, o perché attraverso la preghiera -soprattutto contemplativa- ho gustato interiormente questo Amore, mi sento in pace con me stessa, mi voglio bene, mi accetto con i miei pregi e i miei difetti. Se ho imparato a volermi bene, a non avere una bassa autostima e, dal lato opposto, neanche a essere eccessivamente esigente con me stessa, ma so accettarmi e cerco di migliorarmi sentendomi principalmente amata e accettata da Dio, non ho bisogno di mendicare affetto, stima, sicurezza dagli altri.

Con questo zaino traboccante di amore, stima, affetto e perdono ricevuti, posso muovermi verso l’altro, verso chi, mentendo, mi ha offesa, incolpata, insultata.
Non ho nulla da perdere a perdonare, non ho nulla da difendere, mi posso umiliare, mi posso permettere di fare quel passo in più che l’altro non riesce a fare.

Se pongo il mio centro su Dio posso lasciarmi scivolare addosso il male ricevuto; le offese non riescono a toccarmi dentro perché, prima di reagire o sentirmi offesa, percepisco il male dell’altro, il suo bisogno di sfogarsi, le sue ferite mai risanate. In altre parole vedo nell’altro quello che, forse, un tempo ero pure io prima di essermi lasciata guarire da Gesù.
Se per prima mi sono lasciata perdonare da Lui, ora posso perdonare gli altri.

È facile perdonare chi mi è lontano, chi non vedo mai, perché lo posso fare a parole, a livello intellettivo, tanto poi quella persona è lontana e non devo rinnovare il mio perdono, non lo devo mettere in pratica quotidianamente; resta un bel proposito fatto a livello di testa.
E se il perdono devo regalarlo a un vicino di casa o a un familiare, dalla cui presenza non posso scappare? Qui il perdono “a parole” diventa concreto nei fatti. Qui sì devo entrarci con tutta me stessa, non è più solo questione di un proposito fatto, ma è sporcarsi le mani, è abbassarsi a lavare i piedi, è sperimentare a che punto sono nel mio cammino di umiltà, è portare la croce “«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23)” (il condannato alla crocifissione passava fra due ali di folla che aveva l’obbligo di insultarlo, calunniarlo, percuoterlo, sputargli addosso; e anche i parenti dovevano farlo).

E se devo perdonare chi non mi ha chiesto scusa e mai chiederà scusa? Chi non ammette che, magari, un po’ ha sbagliato pure lui? Chi non accetterà mai un chiarimento, un dialogo? Chi imperterrito continua a ferirmi e a vomitarmi addosso tutta la sua rabbia, tutto il suo malessere?
È facile in questa situazione perdonare a parole, sentendomi io la buona e la giusta e l’altro il cattivo, e incolpare chi non si apre, non accetta spiegazioni, non ascolta ragioni.
Sarebbe comodo fermarmi di fronte al muro che l’altro ha costruito e tornare indietro con la scusa che oltre è impossibile andare. È proprio ora, in questa situazione, che ho la possibilità di sperimentare la forza dell’amore. Se non faccio questo successivo passo di abbattere il muro, mi metto semplicemente a posto la coscienza dicendo a me stessa che ho fatto il possibile e che è l’altro che non si apre. Comodo, perché mi auto convinco che io sono a posto. Ma è qui che devo offrire quel super-dono, è ora che devo lasciarmi piano piano addomesticare dall’Amore.
Non si tratta assolutamente di un gesto enfatico ed eroico, non vi è trasporto verso l’altro. Non è l’amore romantico che trabocca dal mio cuore e invade l’altro: perdonare costa fatica, è un impegno, è un percorso che si decide di fare. È un mandar giù la saliva, è uno sforzarmi, e un po’ costringermi, è un chiedere la forza di fare il passo, di dire una parola che non sia di astio. È vincere contro il mio io che non vorrebbe abbassarsi, e poi sentire che Dio fa il passo con me ed è la Sua consolazione a riempirmi il cuore, a coprire le parole o i gesti di rifiuto che magari hanno ripagato i miei di incontro e di apertura.
A perdonare per primo è chi è stato ferito, non chi ferisce. Solo chi ha “parato i colpi” ha la forza di fare il primo passo, l’altro, chi “spara”, non ne ha gli strumenti, è troppo occupato a mantenersi in piedi, a restare a galla per riuscire a protendersi verso chi ha subito il suo attacco. Il primo passo non lo farà mai chi mi ha fatto male - è troppo spaventato da quel che ha fatto e dalle mie possibili reazioni -: deve farlo chi ha ricevuto il male, per creare il clima che può sbloccare la situazione e permettere all'altro di fare un passo.

Che cos’è che mi spinge a fare il passo oltre la metà campo per riallacciare un rapporto? È la libertà che solo il perdono può dare, cioè non far dipendere il mio agire dalla risposta dell’altro. È gustare la gratuità, sperimentare l’energia del perdono. È Dio che mi permette di capire un po’ di più quello che Lui da sempre fa con me e allora diventa un circolo che si auto alimenta: capire il Suo amore mi permette di amare, amare mi permette di capire il Suo amore.

Il trasporto del cuore non è necessario in un perdono autentico, perdonare costa fatica, è un impegno, è un percorso che si decide di fare. L'importante è che l'amore/perdono operi un allontanamento dalla paura, dalla rabbia, dall’amarezza e un avvicinamento alla pace. Questo è quel che compete a me. Poi il Signore potrà, per grazia, darmi anche gioia, che rende più facili le cose e magari porta anche al trasporto. Una grazia che nasce quando mi fa sentire che stiamo facendo, io e lui, la stessa strada.
Alla fine, forse potrò arrivare a ringraziare Dio per aver messo nella mia strada quella persona che con il suo modo di fare e di reagire mi permette di mantenermi nell’umiltà, mi aiuta a mettermi in discussione, a guardarmi dentro e a crescere nell’Amore.

                                                                             Maria Rosa Brian






3/13/2014

Paranoie, scrupoli & Co.

Quando ci assale l’ansia per un problema che stiamo vivendo, bisogna distinguere se si tratta di un problema reale o di uno fittizio.
I problemi, quelli reali, sono questioni da affrontare con Dio per giungere, dopo un accurato discernimento, a una decisione che lasci nella pace e che porti al bene di tutte le persone coinvolte: il nostro e quello degli altri, anche se non si tratta di un bene immediato, ma verificabile a lungo termine. È nel discernimento e nell’affrontare il problema con Dio che si raggiunge quella pace vasta e profonda che ti fa capire che la scelta è giusta, anche se sofferta.
Un problema fittizio, che chiameremo paranoia, è invece un problema che a suo tempo abbiamo già risolto e riguardo al quale abbiamo già preso una decisione. Ogni tanto, in occasione di determinate circostanze scatenanti, riaffiora nella mente “bruciando” energie preziose per discernere inutilmente e nuovamente scelte già fatte: è un ritornare sui soliti passi, cioè non c’è un’evoluzione, un andare avanti, ma uno stallo. E questo è proprio ciò che vuole il tuo demone: fermarti.
Le risposte che ti dai non riescono a placare il tuo disagio o la tua paura, perché il tuo malessere non è provocato da quel problema, ma da qualcos’altro che ritorna vivo e attivo in occasione della situazione che stai vivendo, analoga ad una già dolorosamente vissuta nel passato, in cui sei stato deprivato di quell’affetto, di quella stima, di quella sicurezza di cui avevi bisogno.
Lo spirito del male, dunque, approfitta di queste situazioni per farti rimettere in discussione scelte già fatte impedendoti appunto di usare tali energie in modo più costruttivo: ti fa perdere tempo. È inutile, in questo caso rimettere in discussione scelte già prese, cioè è utile non dare retta al tuo demone, non lasciarti trascinare da lui in un terreno impervio dove a livello razionale non riusciresti a venirne fuori.
Non contrastare i pensieri disseminati dal nemico nella tua mente; rompi ogni discussione con essi pregando Dio. Non sempre in noi c’è sufficiente forza per contrastare e rompere i pensieri non retti. Anzi l'opposizione accanita può recarci delle ferite dure a guarire. Nonostante tutta la saggezza e le buone intenzioni, gli spiriti del male vincono sempre quando riescono a farti accettare battaglia. Supposto che tu riesca vittorioso, la laidezza di quei pensieri contaminerà la tua mente e il loro tanfo rimarrà a lungo nelle tue narici. Se usi il metodo suggerito da me sarai liberato da tutto questo e dal timore; in queste tentazioni non c’è aiuto se non in Dio. (Isacco il siro, Ammaestramenti spirituali, 55).
Le paure ti prendono a livello emotivo (ansia, pensieri fissi) e fisico (tachicardia, nervosismo, malumore, irritabilità) ed è a questo stesso livello che vanno affrontate. Come? Con la preghiera di Gesù: “Signore Gesù Cristo abbi pietà di me”.
Incidendo ad un tempo a livello emotivo e fisico, questa antica preghiera svia la mente da pensieri paranoici e nello stesso tempo avvicina a Gesù. Ad essa partecipa il corpo, in quanto va modulata sulla respirazione, e il cuore, che vibra nella relazione con Cristo: inspirando sulle parole “Signore Gesù Cristo”, è Gesù che entra in me; e io gli affido la mia preoccupazione, che esce da me espirando sulle parole “abbi pietà di me”. Oppure sono io che vado in cerca di Gesù (“Signore Gesù Cristo” espirando) e Lui entra in me con la sua misericordia (“abbi pietà di me” inspirando).

                                                                                                                 Michele Bortignon




2/20/2014

Perché evangelizzare?

Alcune sottolineature dalla “Evangelii Gaudium” di Papa Francesco:

Quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale: la vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri (EG 10).

Quando invece la vita interiore si chiude nei propri interessi e non vi è più spazio per gli altri, anche i credenti si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e piena (EG 2).

Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio. Come conseguenza di ciò, se vogliamo crescere nella vita spirituale, non possiamo rinunciare ad essere missionari. L’impegno dell’evangelizzazione arricchisce la mente ed il cuore, ci apre orizzonti spirituali, ci rende più sensibili per riconoscere l’azione dello Spirito, ci fa uscire dai nostri schemi spirituali limitati. Contemporaneamente, un missionario pienamente dedito al suo lavoro sperimenta il piacere di essere una sorgente, che tracima e rinfresca gli altri. Può essere  missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri. Questa apertura del cuore è fonte di felicità, perché “si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35). (EG 272)

Sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e che con Lui è più facile trovare il senso di ogni cosa. È per questo che evangelizziamo. Il vero missionario, che non smette mai di essere discepolo, sa che Gesù cammina con lui, parla con lui, respira con lui, lavora con lui. Sente Gesù vivo insieme con lui nel mezzo dell’impegno missionario (EG 266).

La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera  per chiedere a Lui che torni ad affascinarci (EG 264).

Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri (EG 9).
Se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri? (EG 8).
Sebbene questa missione ci richieda un impegno generoso, sarebbe un errore intenderla come un eroico compito personale, giacché l’opera è prima di tutto sua (EG 12).

Gesù vuole evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio (EG 259).

Uniti a Gesù, cerchiamo quello che Lui cerca, amiamo quello che Lui ama (EG 267).

Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore. La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo. Quando sostiamo davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo tutto il suo amore che ci dà dignità e ci sostiene, però, in quello stesso momento, se non siamo ciechi, incominciamo a percepire che quello sguardo di Gesù si allarga e si rivolge pieno di affetto e di ardore verso tutto il suo popolo. Così riscopriamo che Lui vuole servirsi di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato. Ci prende in mezzo al popolo e ci invia al popolo, in modo che la nostra identità non si comprende senza questa appartenenza (EG 268).

Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza.
Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo (EG 270).

Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare (EG 273).

Se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi! (EG 274).

Per mantenere vivo l’ardore missionario occorre una decisa fiducia nello Spirito Santo, perché Egli «viene in aiuto alla nostra debolez­za» (Rm 8,26). Ma tale fiducia generosa deve alimentarsi e perciò dobbiamo invocarlo co­stantemente. Egli può guarirci da tutto ciò che ci debilita nell’impegno missionario. È vero che questa fiducia nell’invisibile può procurarci una certa vertigine: è come immergersi in un mare dove non sappiamo che cosa incontreremo. Io stesso l’ho sperimentato tante volte. Tuttavia non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi porta­re dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a con­trollare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera. Egli sa bene ciò di cui c’è bisogno in ogni epoca e in ogni momento. Questo si chiama essere miste­riosamente fecondi! (EG 280)

1/13/2014

Gestire i malintesi

Quando c’è un diverbio con una persona a cui vogliamo bene, tendiamo comunque a leggere i comportamenti dell’altro in un modo che confermi l’opinione che abbiamo di noi stessi: se ho paura che l’altro non mi ami, li interpreterò come rifiuto; se ho paura che non mi stimi, li interpreterò come mancanza di fiducia in me. Ma sono tutti castelli che ci costruiamo noi: se sapessimo metterci nel cuore dell’altro, piangeremmo di commozione nel vedere quanto siamo amati e stimati.
Invece, con questa idea in testa -che l’altro non ci ami o non ci stimi- reagiamo aggredendolo o deprimendoci. E con queste reazioni costruiamo, rispettivamente fuori o dentro di noi, le condizioni per confermare il fatto che le cose stanno proprio come pensavamo. Ne ricaviamo la magra soddisfazione della vittima, che prova un sottile piacere nel sentire compassione di se stessa di fronte all’oltraggio del mondo, nel darsi come unica amica di se stessa di fronte all’abbandono del mondo: ma non è che un altro modo di soddisfare in maniera egocentrata e autosufficiente il proprio bisogno di affetto. Oppure l’altro sottile piacere di sentire che avevamo ragione, che nessuno ci fa fessi e noi sappiamo come stanno veramente le cose: un modo malato per consolidare la nostra autostima.

Confrontarsi con la realtà e le sue ragioni è difficile perché chiedere un chiarimento passa attraverso il mostrare la propria ferita e rendere così evidente il proprio bisogno, proprio nel momento in cui accusiamo l’altro di ferirci, di essere insensibile, di negarci quel che, secondo le nostre aspettative, avrebbe invece dovuto darci.
Ma, partendo da una diversa esperienza di vita, l’altro ha un diverso modo di esprimerci affetto e stima. E forse è proprio l’accogliere questa diversità, lasciarci riempire il cuore da un modo sconosciuto e inaspettato di rispondere al nostro bisogno, che può rompere quell’automatismo istintivo innescato dal fantasma di un’antica ferita che suscita l’ossessivo bisogno di una risposta nei modi richiesti da un io rimasto infantile.
E ci accorgeremo che questo doloroso passaggio di umiltà, di uccisione del nostro io con le sue miopi esigenze, ci apre a un mondo nuovo e vasto, in cui riceviamo proprio perché ci lasciamo dare e prendiamo quel che ci viene dato, abbandonando il filtro delle nostre attese e delle nostre preclusioni.

C’è da dire comunque che il problema non si risolve una volta per tutte soltanto perché se ne è preso coscienza: momenti di stress, il sorgere di difficoltà fanno riemergere quei problemi che dicono la paura di non ottenere il soddisfacimento del nostro bisogno.

Come possiamo aiutarci l’un l’altro? Se conosco l’altro, cioè se in qualche modo ho imparato a capire il suo bisogno, da parte mia posso comprendere le sue reazioni ed evitare di controreagire alla sua aggressività o depressione nel modo che confermerebbe l’ipotesi malata che ne sta alla base, per aprire invece un dialogo in cui portarlo a rendersi conto che tutt’altri sono i miei sentimenti di fondo nei suoi confronti. E’ questo un momento di massima gratuità, di scelta di fondarsi esclusivamente sulla propria solidità senza nulla pretendere, per il momento, dall’altro, in attesa che, grazie proprio a questo intervento, si ripristinino le condizioni per la reciprocità.

                                                                                                  Michele Bortignon