12/24/2021

12/01/2021

Da dove nasce la gelosia?

Perché sono così complicati i rapporti tra marito e moglie?

Forse perché tu diventi il motivo per dichiarare quello che io sono, per confermare quel che io penso di essere.

Credo che, inconsciamente, nel geloso abiti l’idea che, se il partner lo ha scelto, significa che lui è attraente, valido, consistente; ma quando l’attenzione e il tempo dell’altro è preso da un’altra persona o attività, il suo sentirsi abbandonato, tradito, e, di conseguenza, geloso, nasce forse dal crollo della sua autostima: se non desta più l’attenzione dell’altro, se non suscita più il suo affetto (più che altro se non lo riceve come vorrebbe: non è detto che questa sua sensazione corrisponda a ciò che il partner sente davvero), questo significa che tanto attraente, valido e consistente poi non è.

Come ripristinare la situazione previa? Musi lunghi, lamentele, brontolamenti, ricatti, imposizioni… che, naturalmente, ottengono il risultato opposto.

Penso che a volte anche il rapporto sessuale venga vissuto dal geloso come una ripresa di possesso dell’altro per rassicurarsi sul permanere della propria validità (un’acuirsi della gelosia, ad esempio, porta a una vigorosa ripresa dei rapporti sessuali).

I comportamenti del partner che il geloso sente irritanti a volte, è vero, possono anche non essere del tutto equilibrati, ma ne viene esagerato l’impatto da una sensibilità esasperata, che li sente tradimento della fiducia, dei patti, di un corretto vivere in coppia, di decisioni prese assieme.

Naturalmente, all’esagerazione l’altro risponde minimizzando, per cui il geloso si arrabbia ancor di più, non sentendo riconosciuta come realistica la sua “verità”.

Inizia così un dialogo tra sordi, che non può portare a una conclusione e a un accordo, perché quello che è creduto un problema non è il problema.

Come se ne esce? Non certo affrontando questo problema, ma affrontando il problema. Che probabilmente è quello della mancata elaborazione di un abbandono, che viene ora rivissuto ad ogni comportamento del partner che glielo fa ricordare.

Bisognerebbe diventare capaci di una solitudine soddisfatta, raggiungendo una solidità che non abbisogna di puntelli. Una parola! La sfida di una vita intera! Per il momento basterebbe anche solo si rendesse conto che il problema non è l’altro (che certo ha i suoi problemi, magari anche grossi. Ma questa è un’altra storia…), ma il problema è in lui. Forse questo aiuterebbe a ridimensionarlo e non farlo rimanere continua fonte di litigio.

                                                                                    Michele Bortignon


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11/01/2021

Elogio dell’imperfezione


 Qual è il nostro desiderio quando abbiamo un problema? Che il problema non ci sia più!

La perfezione come assenza di problemi è la nostra meta. Vogliamo creare un vuoto per costruirvi sopra il nostro progetto senza altro che lo disturbi.

“Desertum fecere et appellaverunt pacem”... Mi viene in mente quanto scrisse Tacito parlando della guerra in Britannia: fecero piazza pulita di tutto ciò che li ostacolava e lo chiamarono pace.

La perfezione è come la cima di una montagna: più su non si va.

Anche se costruiamo qualcosa di nuovo, sarà sempre in base a quel che conosciamo, e quindi un nuovo non veramente nuovo; un di più, non un diverso.

Ma se la realtà è molteplice, per comprenderla e armonizzarci con essa, ossia per diventare più uomini, siamo chiamati a lasciarci scalfire nel nostro essere mono-toni, nella nostra visione unilaterale, nel nostro costante tentativo di “reductio ad unum” di ciò che non è poi così semplice da classificare.

La destabilizzazione che ci costringe a cercare e a costruire un nuovo equilibrio è la vita stessa a procurarcela, con uno sgradito ma utilissimo dono: il problema.

La meta non è dunque la vetta, ma il camminare cercando la via verso nuovi orizzonti.

E se la fecondità della vita sta nel camminare, gustiamoci pure le soste, ma non disperiamoci quando è ora di ripartire.

 

A volte potremmo perfino renderci conto che l’imperfezione è bella… C’è una bellezza narrata proprio da quelle imperfezioni che sono nate, col passare del tempo, all'interno di una storia vissuta assieme, ognuna delle quali evoca un ricordo affettuoso che fa bene al cuore. E questo porta a rivalutare quel che c’è proprio così com'è, rinunciando a pretese, aspettative e sogni illusori.

 

Non so a voi, ma a me questa prospettiva acquieta l’ansia e mi riconcilia con la vita, facendomela gustare con quel che mi dà proprio ora, sia quel che sia.

E’ questo che significa essere contenti?

 Michele Bortignon

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10/01/2021

Il dono delle difficoltà

Il modo di relazionarsi con me del mio capo è assurdo e umiliante.

Il mio collega d’ufficio ha rovinato il lavoro che avevo iniziato, portandolo avanti in modo diametralmente opposto al mio.

Con il suo perfezionismo da un lato e la sua trascuratezza dall’altro, mia moglie mi fa saltare i nervi.

I continui rimproveri e le vittimistiche accuse di mia suocera mi stanno estenuando.

Queste alcune esperienze raccolte qua e là. Ne avete altre da aggiungere? Certamente sì, perché tutti abbiamo le nostre spine nel fianco… che non possiamo toglierci.

Certo, qualche volta si scoppia e una bella litigata ci sta… per accorgersi ben presto che non è servito a nulla, che le cose si stanno ripetendo esattamente uguali a prima.

Allora ci teniamo dentro la rabbia che gira, gira e si scarica sul nostro povero corpo, causandoci gastrite, cervicali, mal di schiena, emicrania, insonnia… e chi più ne ha più ne metta.

Senza contare il sottofondo di ansia che presagisce le prossime mosse del “nemico”, ce le fa sentire possibili e reali, e ci fa elaborare altrettante strategie di contrattacco, una più assurda e perfida dell’altra.

Che cosa sta succedendo? Perché queste azioni devianti e queste reazioni esagerate?

Perché tutti abbiamo paura della morte, anche solo di quella piccola morte che incontriamo quando le cose non vanno come diciamo noi, per cui quella situazione si colma di fatica, di sofferenza, di disagio, di non senso, di disperazione.

E, così, tutti cerchiamo di fare andare le cose come diciamo noi, sentendo che solo quella è la nostra salvezza.

In quel momento, la paura ci fa perdere di vista che quello è soltanto un dettaglio della nostra vita. E’ una piccola cosa, ma ce lo fa apparire come il tutto, l’essenziale senza il quale la nostra esistenza è rovinata.

La paura è una scattista: devi reagire subito! Sa benissimo che se l’emozione si raffredda, la ragione ti fa vedere la cosa come realmente è: fastidiosa, ma non terribile. Puoi sopportarla o perché c’è ben altro nella tua vita, o perché quella persona ti dà molto di più di quel che ti toglie, o perché proprio quella situazione ti sfida a reagire in modo diverso dal tuo solito, per cui ti fa crescere in adattabilità, in elasticità, in creatività, in umanità.

Osserviamo questo modo di essere in Gesù che vive la sua Passione: guarda quel che succede quasi con distacco; quell’emotività che l’ha travolto nel Getzemani è ora imbrigliata. E’ soprattutto il silenzio la sua scelta: il silenzio ti colloca in un’isola al di fuori di quel che sta succedendo, dove puoi osservare, pensare, valutare, decidere. Con calma, dandoti tutto il tempo che serve.

Anche dopo aver accettato la sua morte come esito inevitabile delle sue scelte, Gesù non ha fretta di uscirne: condividere gli altrui inferi è un momento privilegiato per capire, per rimanere accanto, per trovare assieme una via di risurrezione.

Gesù toglie alla morte il suo pungiglione: da allora possiamo scegliere di reagire in modo da non farcene uccidere; da allora la morte è l’occasione in cui possiamo imparare, a essere diversi, piantati in ciò che Dio chiama Vita e da cui aspettiamo Vita.

Non è questa la risurrezione?

                                                                                          Michele Bortignon

 

9/01/2021

Imparare a scegliere

Sapete perché, nelle icone, sono disegnate tre stelle sul capo e sulle spalle della madonna? Stanno a indicare la verginità di Maria prima, durante e dopo il parto. Potremmo pensare a un modo di comprovare il concepimento di Gesù ad opera dello Spirito Santo… Giusto, ma non credo che il dogma si limiti a questo. I dogmi sono i punti fermi della nostra fede; non la conclusione di un ragionamento, ma porta aperta su un mistero da esplorare.

Ed è proprio nel mistero della verginità di Maria che mi voglio addentrare, per ricavarne un insegnamento per noi oggi. Me ne ha dato lo spunto una frase di Sant'Agostino in uno dei suoi sermoni (293, 1): “Prima la fede raggiunge la mente della Vergine, poi si attua la fecondità in seno alla madre”.

La condizione della fecondità è la fede, l’accoglienza della Parola da parte di un cuore che si rende vergine. La fecondità è per noi e per gli altri: abbiamo bisogno che quel che facciamo sia significativo, che costruisca bene in noi e attorno a noi, che renda il mondo migliore di come l’abbiamo trovato.

Per diventare fecondi bisogna rendersi vergini, abbiamo detto. Ma perché?

 Ai problemi che incontriamo noi applichiamo la nostra soluzione: è quello che sappiamo fare, è quello che ci hanno insegnato a fare. Abbiamo la nostra soluzione in tasca, o la cerchiamo tra quelle che abbiamo sempre applicato, ma… è davvero quella buona? Se così fosse, tutto sarebbe subito risolto!

Ma il più delle volte così non è…

La realtà è complessa e va affrontata con umiltà, senza la presunzione di sapere già.

Certo la novità, la complessità, la difficoltà generano angoscia, che cerchiamo di sciogliere aggrappandoci alla prima soluzione che ci sembra convincente. E qui entrano tante dinamiche che finiscono per deviare le nostre decisioni.

La prima è quella del capro espiatorio: anziché chiederci cosa fare per risolvere il problema, cerchiamo di chi è la colpa per sfogare su di lui la nostra rabbia, per pretendere un  risarcimento.

La seconda è il vittimismo: ci sentiamo vittime di una diabolica macchinazione che opera a favore di inconfessabili interessi, da cui ci difendiamo con il sospetto sistematico.

La terza è lo schieramento: ci documentiamo sul problema, ma dando credito solo alle fonti che avvalorano la nostra visione delle cose, trascurando il fatto che una teoria, per essere scientificamente provata, dev'essere confermata con dati statistici.

Che cosa accomuna questi approcci? La mancanza di un’ipotesi alternativa: distruggono ma non propongono. Non portano una soluzione che abbia l’umiltà di fondarsi su sperimentazioni convalidate, su dati confrontabili; come se il buon Galileo non ci avesse insegnato nulla sul metodo scientifico.

E’ qui che entra in gioco la verginità. Una soluzione al problema dobbiamo trovarla, se non in termini generali, validi per tutti, quantomeno per il nostro inserirci in esso, per capire come comportarci.

Abbiamo il diritto -e nessuno può togliercelo!- di decidere per noi stessi, almeno fino al punto in cui le nostre scelte non coinvolgono altre persone. Ma la nostra scelta, per essere  moralmente valida, dev'essere presa con retta coscienza. Ci si deve cioè rendere vergini, lasciando da parte le nostre propensioni, e prendere in  considerazione le posizioni di chi può con competenza dire qualcosa sull'argomento (e qui l’onestà valuta anche idee diverse dalla propria).

Guardando alle conseguenze su di me e sugli altri che la mia scelta coinvolge, in coscienza, davanti a Dio, prendo infine la mia decisione. In tal modo sarò altresì riuscito a motivarla e quindi sarò anche disposto a pagarne il prezzo.

Una considerazione dev'essere fatta anche sul fatto che non tutte le nostre scelte possono essere “assolute”, ossia svincolate da ciò che ha democraticamente deciso la società in cui viviamo. Personalmente posso non essere d’accordo su certe norme che regolano il vivere comune, ma sono comunque tenuto a rispettarle. Democrazia è anche sapersi adattare alle scelte della maggioranza, quando non vanno contro la nostra coscienza in questioni fondamentali. Il preteso diritto a fare quello che vogliamo è figlio dell’individualismo esasperato di cui è impregnata la nostra cultura, che ci porta a fregarcene del fatto che viviamo in una società in cui dovremmo scegliere assieme il bene comune.

Michele Bortignon

 

 

8/01/2021

Il Vangelo è sempre buona novella!

 

Cercando commenti al vangelo del giorno mi sono più volte imbattuta in considerazioni molto tristi, imbevute di moralismo e centrate su ciò che manca e che non c’è, piuttosto che tese a evidenziare ciò che rende il vangelo buona novella, lieto annuncio*. Ciò che ascoltavo o leggevo non dava un impulso positivo alla mia giornata, non era niente che mi arricchisse di energia o che mi facesse pensare: “Che bello! Che bella notizia il Vangelo!” È facile cadere nella lamentela: “si dovrebbe…”, “bisognerebbe…”, ma il vangelo è sempre una buona notizia, un’esultanza, un rallegrarsi del cuore, perciò mi son detta: “Forse c’è anche un’altra strada…"

 

Immagina un genitore che scrive una lettera al figlio per comunicargli quanto lo ama e quanto ci tiene a lui. Immagina che cosa questo genitore -padre o madre è indifferente- possa scrivere a suo figlio o figlia. Pensa che cosa scriveresti tu a tuo figlio. Che cosa gli diresti, quali parole useresti, quali sentimenti vorresti trasmettere, quali raccomandazioni suggeriresti? Sicuramente vorresti lasciare a tuo figlio, attraverso questa ipotetica lettera, tutto il bene e tutto l’amore che puoi; vorresti fargli sapere quanto lo ami, quanto ci tieni a lui e suggeriresti tutto ciò che gli può servire per vivere una vita felice, gustosa, sensata, piena di amore e di tutte le cose belle che gli hai messo a disposizione. Certamente vorresti scrivere per lui un manuale per permettergli di non sbagliare il centro della sua vita. E se anche capitasse che, nonostante tutte le tue raccomandazioni, lui rovinasse la sua vita, faresti di tutto per fargli capire che niente è perduto e che c’è sempre il modo per rimediare e ritornare a vivere nuovamente la vita in pienezza. Scriveresti a tuo figlio la buona notizia del tuo amore incondizionato per lui. Penso che tu, come ogni buon genitore, saresti talmente appassionato e talmente preso da quest’amore per tuo figlio da non risparmiargli, se servono, invettive e ammonizioni per evitargli di sbagliare, ma alla fine, con il cuore ferito e l’animo triste, lo lasceresti anche libero di sbagliare restando a un passo da lui pronto a riprenderti quel figlio per il quale daresti la vita.

Sicuramente saresti un ottimo genitore, e anche se concretamente tu scrivessi veramente questa ipotetica lettera o manuale per una vita felice, non avresti scritto nulla di nuovo, perché è ciò che gli evangelisti hanno fatto con la stesura dei Vangeli. Dio Padre vuole comunicare all’uomo, attraverso gli insegnamenti di Gesù, il Suo Amore infinito e la Sua Misericordia. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16)

 

Se leggiamo i Vangeli anche con quest’ottica semplice e alla portata di tutti, senza nulla togliere alle profonde esegesi che possiamo trovare per approfondire la nostra lettura del Vangelo, forse riusciremmo a non cadere nel moralismo e la smetteremmo di guardare solo a ciò che non va in noi e negli altri. Proviamo a porci questa domanda alla fine della lettura di un brano: “Che cosa mi sta dicendo Dio Padre? Che cosa dice a me e alla mia vita ora, adesso, in questo mio momento storico, non ieri o domani, ma nel mio oggi”. Chiediamoci: “Qual è la buona notizia contenuta in questo brano?” Deve esserci! Altrimenti non è Vangelo! E quando ci capitano fra le mani quei versetti che sembrano essere solo invettive e catastrofi, leggiamoli pensando che a dirceli è un Dio che ci è Padre: un rimprovero da parte di chi ci ama non è altro che un gesto appassionato, da parte di chi non sopporta vederci rovinare la nostra vita. Quando invece ciò che leggiamo ci sembra tutto all’infuori che buona novella, non arrendiamoci e cerchiamo ancora, buttiamo all’aria quel campo di parole fino a trovarvi il tesoro nascosto: quella perla preziosa che darà una luce nuova a tutto il testo.

Prima di iniziare a leggere ricordati che, attraverso quel testo, Dio sta parlando a te e lo fa come faresti tu con tuo figlio: con un amore così grande da morirci. Anzi, …Lui ci è già morto!

 

Vi invito a provare, noi lo facciamo già. Nel nostro gruppo whatsapp “Kaire ogni giorno” condividiamo quotidianamente il nostro commento al Vangelo del giorno, proprio con la modalità che vi ho illustrato. Perché non provi anche tu a cercare il “lieto annuncio, la buona novella” del Vangelo?

                                                                                                                     Maria Rosa Brian

 

 

*La parola evangelo, dalla cui contrazione viene il termine Vangelo, è composto dall’avverbio  greco εὖ (bene, rettamente) e dal verbo ἀγγἐλλω (anghello) che significa annunzio. Dunque un buon annunzio o ancora meglio, “reco una buona notizia, porto un lieto messaggio, comunico una buona novella”.

7/02/2021

Riportare allo spirituale

 

Normalmente, quando, alla fine di un colloquio, mi sento in pace e contento, è segno che anche la persona che accompagno sta provando gli stessi sentimenti. Senza esserne cosciente, percepisco il suo stato d’animo, lo sento risposta alla prospettiva di Vita che assieme abbiamo intravisto e mi rallegro che questo le stia dando sollievo. Ho svolto correttamente il mio compito, che è quello di accompagnare la persona a dare la mano a Gesù per continuare con Lui la propria strada.

A volte, invece, già durante il colloquio sento che qualcosa non va, qualcosa non gira per il verso giusto. Mi sono accorto che questo succede quando l’altro non mi sta chiedendo  di aiutarlo a sintonizzarsi con Dio nel vivere la situazione che gli crea problema (è questo il compito dell’accompagnatore spirituale!), ma si aspetta che gli faccia da genitore/guida chiedendomi di dargli io una soluzione (cosa devo fare?) oppure, dopo avermi esposto il suo punto di vista, mi chiede di far da giudice (chi ha ragione?). Entrambe sono richieste non spirituali: Dio mai ti solleverebbe dall’essere protagonista della tua vita e mai si chiuderebbe in un giudizio, il cui effetto sarebbe soltanto creare divisione.

Occorre dunque riportare il colloquio sullo spirituale. In che modo?

Innanzitutto ricorda dove Dio vuol portare la persona: a una vita libera, serena e felice. La libertà dai condizionamenti, la pace, la gioia sono patrimonio stabile di questa persona? Evidentemente no, altrimenti non si sarebbe impantanata in questa situazione.

Lei, certamente, qualche soluzione per uscirne ce l’ha, ma se questa soluzione non l’ha portata finora o non la porterà domani a una vita così, rimodellando il proprio modo di vivere la situazione dentro di sé e con gli altri, il problema si ripresenterà appena più in là.

Prova dunque a chiederle: «Come potresti recuperare la solidità, la pace e la gioia di vivere che adesso non hai?». Lasciala cercare; tu semplicemente fatti garante che la sua ricerca si muova verso questi obiettivi: è questa la volontà di Dio su di lei.

Un’altra cosa rende spirituale la ricerca di questa persona: non è sola!

Già la tua presenza, lì a cercare accanto e assieme a lei, significa e richiama un’altra Presenza, che continuerà ad accompagnarla anche dopo il vostro incontro.

Una Presenza a cui non deve solo dire «Grazie che ci sei!», ma con la quale, allo stesso modo che con l’accompagnatore, prima può sfogarsi, permettendosi di essere arrabbiata, e con la quale poi potrà confrontarsi, fino, appunto, a trovare assieme una soluzione che la lasci nella pace, che le ridia la dignità di persona libera e responsabile, e che, per quanto possibile, le ridia un po’ di gioia di vivere.

Sentirà allora che il suo dolore è abitato e condiviso da questa Presenza.

E, se non fuori, almeno dentro di lei tutto sarà diverso.

Giunto a questo punto, forse ti starai chiedendo: «Cosa c’entra tutto questo con me, che non sono un accompagnatore spirituale?». Ti dirò che diverse persone, dopo aver concluso il percorso degli Esercizi Spirituali, mi hanno raccontato di essere state oggetto di confidenze. Forse, avendo imparato ad ascoltare se stesse, gli altri hanno riconosciuto in loro una capacità di ascolto. Potrebbe succedere anche a te. Tieni allora presente quanto ti ho detto, ricordando comunque che, prima di parlare, l’altro dev’essersi saziato del tuo silenzio.

Michele Bortignon

6/01/2021

Rimpianti, rimorsi, scrupoli: quando il pensiero si avvita su se stesso

La sensibilità a volte gioca brutti scherzi. Se sei una persona sensibile, tutto provoca in te vibrazioni amplificate: il bello è meraviglioso, un’attenzione ti scioglie, ma, d’altro canto, l’errore è un disastro e il timore di sbagliare ti paralizza. Con più facilità di altri puoi cadere nella desolazione, che assume tre forme particolari: il rimpianto, il rimorso, gli scrupoli.

Il rimpianto è la forma meno pesante: il passato ti perseguita con quel che avresti potuto fare ma non hai fatto, suggerendoti che tutto sarebbe potuto essere diverso, ma tu hai irrimediabilmente perduto la possibilità di cambiarlo.

Anche nel rimorso è il passato a perseguitarti, questa volta con quel che hai fatto e non avresti dovuto fare, sprofondandoti nei più cupi sensi di colpa.

Negli scrupoli, infine, il presente è invivibile: ogni situazione diventa occasione di un possibile errore, ogni errore è terribile, e il terrore ti blocca per evitarti di sbagliare.

 In tutti e tre i casi, il problema è che il pensiero si avvita su se stesso, ossessionato dall’errore commesso o che ha paura di commettere.

 Se è il rimpianto o il rimorso a tormentarti prova a chiederti: c’era davvero un’alternativa? O il contesto ti metteva in una strettoia per cui non avevi possibilità di scegliere e quella era l’unica strada possibile? A volte la scelta non dipende solo da noi, ma dall’accordo di altre persone coinvolte, che non possiamo obbligare alla nostra volontà. Il grosso rischio di chi è armato di buoni propositi e di buona volontà è di instaurare una dittatura del bene.

Ammettiamo, invece, che la scelta dipendesse solo da te, per cui un’alternativa ci sarebbe stata. Valutiamola quest’alternativa. Qual era? E quali ne sarebbero state le conseguenze? Positive e negative, non solo per te, ma anche per gli altri…

Alla fine di questa valutazione, sei ancora dell’idea che potevi e dovevi fare diversamente? Oppure la scelta fatta, nonostante tutto, resta ancora la migliore?

Ammettiamo infine che effettivamente hai sbagliato. Potevi fare diversamente, ma, per tutta una serie di valutazioni erronee, istintuali e/o condizionate, hai fatto quel che hai fatto.

Ora, cosa ci ricavi dal rimanere impantanato nella desolazione, che ti toglie dal gioco della vita, immobilizzandoti in una morte anticipata? Non è sano un dispiacere che non ti porti a riprendere a camminare con un atteggiamento diverso. Dio ci chiama alla Vita!

Distogli allora lo sguardo dal tuo ombelico e permettiti di entrare in una prospettiva diversa, fidandoti di quel che ti dicono gli altri (anche questo un modo di Dio per parlarti!).

Nel rimorso: cosa ti direbbe la persona a cui pensi di aver fatto del male? e il Dio della Vita quale strada ti additerebbe per liberarti dal tormento e continuare a vivere?

Nei rimpianti, guarda quante altre cose belle ci sono nella tua vita che la fanno volare comunque!

 Se, invece sono gli scrupoli a perseguitarti, distogliendoti dal fare il bene per paura di sbagliare, puoi dar credito agli altri quando ti dicono che sbagliare è normale e non è un disastro. E loro, come Dio, ti vogliono bene con i tuoi sbagli. La perfezione è solo una fisima tua. Oppure, gli scrupoli possono mettere in dubbio la decisione che hai appena preso; in questo caso, se la tua scelta è stata ponderata da un accurato discernimento, metti semplicemente a tacere i tuoi scrupoli non prestando loro attenzione: ti fanno solo perdere tempo.

 Questo aprirti al nuovo, questo fidarti di chi ti vuol bene si chiama misericordia. Che non è rassegnazione, ma sintonizzarti sulla realtà della vita, molto più grande e complessa di come la stai vedendo tu adesso.

Michele Bortignon

5/01/2021

Come recuperare la libertà dalle mie pulsioni e dalle pretese altrui?

Un po’ per gioco e un po’ per sfida mi sono trovata a leggere le “Lettere a Lucilio” di Seneca. Mi era stato chiesto di farne una lettura mirata: cercare, in questo testo filosofico, in che modo gli stoici cercavano la libertà dalle proprie pulsioni e dalle pretese altrui.

Come fare per restare fedeli a se stessi? Come perseguire i propri obiettivi? Come vivere il presente senza eccessive ansie per il futuro o inutili recriminazioni per il passato?

In queste lettere, che, circa duemila anni fa, Seneca ha inviato all’amico Lucilio, ho trovato vie percorribili anche a noi donne e uomini di oggi.

In effetti, trascorriamo gran parte della nostra vita cercando di piacere a qualcuno o nel tentativo di far contenti gli altri, ma “chi vuol essere dappertutto non sta in nessun luogo” [lettera 2]. Facciamo di tutto per essere accettati, ci conformiamo, ci adeguiamo, ci adattiamo e alla fine non ci riconosciamo più e non ci piacciamo più. Ci guardiamo allo specchio e ci facciamo schifo, vediamo solamente la persona che gli altri vogliono vedere; e allora Seneca replica: “Raggiunge il culmine della sapienza chi sa di che cosa debba gioire e non pone la propria felicità in potere altrui” [lettera 23].

Tradiamo noi stessi per non scontentare gli altri, e così perdiamo la cosa più preziosa che abbiamo -la nostra unicità e la nostra bellezza originaria- per conformarci a come pensiamo che gli altri ci vogliano; ma è vero proprio il contrario: “Chi ha il possesso di sé non ha perso niente” [lettera 42]. Perdiamo tempo e vita cercando di accumulare beni; Seneca invece evidenzia che “è povero non chi possiede poco, ma chi brama di più” [lettera 2] e “l’essere vissuti a sufficienza non dipende dal numero degli anni o dai giorni, ma dal nostro animo” [lettera 59]. E, ancora, il timore che le cose possano cambiare a nostro sfavore ci immerge nell’angoscia; cosa fare, dunque? “Non renderti infelice prima del tempo, perché i mali che hai temuto imminenti forse non verranno mai… …e se anche un male deve venire, che vantaggio c’è ad andargli incontro? Sarai in tempo a dolertene quando verrà; intanto augurati cose migliori; guadagnerai tempo.” [lettera 13].

 

Leggendo queste lettere ho capito che avere un obiettivo, uno scopo nella vita, un progetto, un fine, è ciò che ci dà la forza di vivere ogni giorno cercando di essere fedeli al nostro sogno, anche se ciò comporta deludere le aspettative altrui: “non saprà ordinare i particolari se non chi ha già una visione d’insieme di tutta la vita” [lettera 71] L’essenziale è perseguire il proprio fine… lasciando liberi gli altri di agire e perseguire il loro obiettivo a modo loro e come vogliono. Io posso dare il mio consiglio e parere: l’altro è libero di accettarlo o no. Viceversa, gli altri possono darmi i loro consigli e pareri; e io sono libera di accettarli o meno. È vitale focalizzare il proprio obiettivo accettando tutti gli imprevisti come occasioni per allenarci e crescere: questo ci aiuta a liberarci dalle nostre paure, dalle nostre ansie e angosce. Se vuoi rendere gioiosa la tua vita lascia ogni preoccupazione per essa. Nessun bene giova a chi lo possiede, se il suo animo non è pronto a perderlo” [lettera 4]. Considerare le avversità come occasioni in cui imparare dalla vita stessa ci libera dalle aspettative esagerate su noi stessi, ci permette di accettare e imparare anche dalle cadute e a non considerarle solo come sbagli: “ti rendi conto che in ogni avvenimento non c’è niente che debba far paura, se non la stessa paura” [lettera 24]. Inoltre è inutile piangerci addosso o, peggio, trovare scuse e inutili colpevoli per ciò che nella nostra vita non va bene: “Vuoi sapere qual è la nostra arma di difesa? Non indignarsi di niente; sapere che anche ciò che sembrerebbe lederci serve alla conservazione dell’universo e rientra fra quelle cause che assicurano al mondo l’adempimento delle sue finalità” [lettera 72]. Cercherò di fare della mia vita una meraviglia con gli ingredienti che ho a mia disposizione senza recriminazioni o inutili rimpianti. “il male non sta nelle avversità, ma nel fatto che tu ti lagni… l’unica infelicità per l’uomo è credere che esista l’infelicità nella natura” [lettera 96]. Vivi ora! La vita è in questo momento, non ieri né domani.

Non è detto cha alla fine tu raggiunga il tuo obiettivo, ma è nella strada che hai fatto per cercare di raggiungerlo che troverà un senso e uno scopo il tuo vivere. Una strada che percorri non necessariamente cambiando la tua situazione, ma cambiando te stesso in quella situazione; dunque, “Se vuoi sfuggire ai mali che ti assillano, non devi andare in un altro luogo; devi essere un altro uomo” [lettera 104]; “Desidero che non ti manchi mai la gioia, anzi che ti nasca in casa; e ti nascerà, purché essa sia dentro te stesso” [lettera 23]

 

La sensazione che ho avuto leggendo queste lettere, però, è di una mancanza. L’uomo che Seneca prefigura basta a se stesso: il suo successo o insuccesso dipendono dalla sua capacità di trovare dentro di sé la forza e le motivazioni giuste.

Se guardo dentro di me, anch’io trovo la gioia, la forza, il coraggio, la tenacia, trovo le mie capacità o i miei fallimenti; ma non solo: io trovo un Altro. S. Paolo direbbe: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” [Gal 2,20].

Per noi cristiani, è su Cristo, e non esclusivamente sulle nostre forze, che si fonda il nostro essere liberi dalle nostre pulsioni e dalle aspettative altrui. Questa libertà non è solo uno sforzo ciclopico di perfezione, autocontrollo e buona volontà, ma è dono, dono del Suo amore. L’aver sperimentato che è Dio ad amarci per primo e in modo totalmente disinteressato ci porta a ridimensionare il nostro bisogno di stima e di affetto e a liberarci dalle aspettative e condizionamenti degli altri. S. Giovanni afferma: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” [1Gv 4,19]. E ancora: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo”  [1Gv 4,10].

Ed è questa certezza di una Presenza che ci avvolge e ci abita a diventare il motore di un cambiamento che ci rende liberi e protagonisti della nostra vita.

Tutto questo lo potrei riassumere con le parole di Teresa d’Ávila: “Nada te turbe, nada te espante… sólo Dios basta”.

 

                                                                                  Maria Rosa Brian

4/04/2021

Hanno portato via il Signore

 Quando l'essenziale è invisibile agli occhi

«Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». (Gv 20,2)

È il giorno dopo il sabato, Maria di Magdala non riesce a stare ferma e si reca alla tomba del suo Maestro ancora prima del sorgere del sole. Al vedere la pietra tombale scostata deduce l’unica cosa umanamente credibile: hanno portato via il corpo del Maestro.

Ma chi lo ha trafugato? e perché poi? Queste sono domande che forse non si è posta: troppa era la fretta di ritornare da Pietro e dagli altri per avvertirli.

Quanta fretta Maria! Quante corse al buio senza vedere bene che cosa era successo.

Anche noi a volte, presi dalla fretta, siamo tentati di prendere decisioni avventate, di scegliere su due piedi, anche se non abbiamo chiara tutta la situazione. Se solo imparassimo a fermarci e a guardare dentro le cose, ci accorgeremmo che non sempre la realtà è come sembra; ci accorgeremmo che quel vuoto è un pieno, che quell’assenza è abitata, che una fine può essere un inizio.

Maria, alla fine sei tornata e, tra le lacrime, ti sei fermata e hai guardato dentro quel sepolcro (Gv 20,11); l’angoscia di una perdita ha allora lasciato il posto alla gioia di una certezza: il tuo maestro non era morto, ma chiamandoti per nome, ti invitava ad annunciare ai discepoli non più la notizia di una perdita (hanno portato via il Signore), ma la gioia della resurrezione.

Resurrezione è saper vedere oltre le apparenze. Quando, sapendomi fermare, ho visto che la situazione era molto diversa da come l’avevo giudicata? Quando sono riuscito a non farmi prendere dal panico o dalla fretta di trovare una soluzione e con la calma ho dato a una situazione la possibilità di cambiare, di trasformarsi?

È ciò che ci siamo chiesti e che, alla luce del cammino che abbiamo intrapreso con il Kaire, abbiamo sperimentato:

Resurrezione è saper vedere oltre le apparenze... C'è stata un’importante frattura tra la mia famiglia e un gruppo di servizio in parrocchia. Un clima pesante, ricatti e prevaricazioni e da parte di molti un voltare lo sguardo altrove, in un silenzio a
ssordante. Lasciare tutto mi sembrava l'unica scelta possibile. Il tempo e lo sguardo rivolto alla croce mi hanno permesso di vedere oltre, cogliendo la fragilità di alcune persone coinvolte, il loro buon cuore e regalandomi la possibilità di nuove relazioni. 

Quando si abbandona il giudizio e si accolgono le situazioni per quello che sono, si aprono opportunità che prima tralasciavo o ignoravo. Una soluzione magari non ce l'ho ancora, ma il non esercitare la mente mi porta a non affrontare i fatti e le persone che incontro con paura ed angoscia. Contemporaneamente lasciare spazio a un respiro profondo e lungo di meditazione mi porta a imparare a sostare in me e con Cristo per illuminare il mio muovermi nel mondo. Non porvi obiettivi e pregiudizi ma continuare a esercitarmi con perseveranza mi può consegnare una dimensione del mio essere più consapevole e compassionevole. L'augurio per questa Pasqua è applicarmi con entusiasmo in questo nuovo compito maturato con l'esperienza del Kaire. 

Ho iniziato il kaire con pochissime porte aperte, quasi non vedessi spiraglio. Mano a mano che procedevo con il percorso ho visto che Dio agisce e giorno dopo giorno mi dà l’utile per fare passi avanti nell'affrontare le difficoltà, mi aiuta a crescere nelle situazioni, anche grazie alle persone che mi fa incontrare.

«È tutta colpa tua, sei tu la rovina di tutto»: parole dure che feriscono, che ho sentito ingiuste nei miei confronti. La prima reazione è stata quella di alzare la voce anch’io e di usare gli stessi epiteti. Ma non l’ho fatto, ho cercato di riportare l’altra persona alla realtà delle cose (se ho parlato male, dimostra il male che ho detto; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti? Gv18,23). Apparentemente non è servito a niente: la situazione non è migliorata. Il cambiamento e la resurrezione sono stati solo miei, ho capito che sono capace di rispondere al male con il bene e la pace interiore che ne segue non ha prezzo.

Guardo con dispiacere a quando, fino a qualche anno fa, mi facevo un punto d’onore rispondere sempre per le rime a chi mi faceva qualche appunto. E, quando mi prendeva l’ansia, l’ira mi scoppiava dentro di brutto. Io sapevo già che le cose erano andate come pensavo io… Poi ho provato a tacere qualche volta… e darmi il tempo di pensare e capire. Strano e bello: posso essere diverso! Certamente più libero.

Riconosco che i segni di resurrezione sono sempre stati presenti nella mia vita, ma con modi di intenderli diversi, penso sia dovuto al passare degli anni. Da focoso, entusiasta, quando ero più giovane, oggi mi scopro più rivolto verso una consapevolezza nuova; sono attento più di prima alle apparenti piccole cose quotidiane: il risveglio al mattino, l'aver una persona che mi vuole bene, il piacere di parlare con lei delle situazioni che ci stanno a cuore, poter essere utile agli altri con servizi pratici o con parole di ascolto. E' un segno di resurrezione vedere i figli crescere, prendere decisioni, assumersi responsabilità, soffro e gioisco con loro, partecipo come mi è permesso alle loro vite. Ma soprattutto sono questi i giorni della S.Pasqua, il Signore mi fa conoscere di Lui sempre cose nuove.

Buona Pasqua di Gesù nella Vostra vita 

Katia, Lorenzo, Simone, MariaRosa, Michele, Tiziano

4/01/2021

Il silenzio che illumina

Un tentativo di furto con relativo danneggiamento. Mi ha fatto sentire violato e ora anche insicuro perché potrebbe ripetersi. Nello smarrimento mi sono rallegrato: “Kaire!”, l’ultima delle beatitudini: quando gli altri vi fanno del male voi rallegratevi. L’ho fatto per obbedienza: un atto di fiducia in Gesù, che certo sa quel che dice.

Il risultato è che ti domandi perché lo fai e poi domandi a Lui, a Gesù, perché lo fai. E allora succede che ti metti in relazione con Lui anziché con la tua rabbia e le tue paure.

No, non ho fatto ragionamenti con Lui, nemmeno mi sono sfogato: ero con Lui e ho pregato. Ho pregato per questa persona e ho sentito il suo sbandamento, la sua disperazione che l’ha spinta a un’azione di cui ha visto il vantaggio per sé ma non il male che ha provocato ad altri. L’empatia si trasforma in compassione. Non sono più contro di lei, ma con Dio davanti a lei. Non è passata la paura, che ogni tanto invade i miei pensieri: potrebbe rifarlo! Ma mi sento libero e in pace: non c’è il rancore a separarmi da lei e io mi sento completamente nel Padre. Trovare in Dio un padre e vedere nell’altro un fratello: non è questa la salvezza?

Sentire la tua mano nella mano del Padre non cancella la paura, il malessere, l’amarezza per quel che succede o è successo, ma ti ci fa rimanere o passare attraverso senza sentirtene sommerso. In Lui trovi la luce per capire, la forza per andare avanti, quell’intimità che ti fa sentire in Lui dovunque e comunque tu sia. Per te c’è un orizzonte diverso. E già questo è Paradiso.

Che cosa attiva questa dinamica di affidamento che inserisce nell’abbraccio di Dio? Rileggiamo l’esperienza appena descritta. L’invito di Gesù a rallegrarmi ha avuto lo stesso effetto che ha il “Koàn” nel Buddismo Zen: un assurdo che ti fa cadere dai tuoi consueti punti di riferimento e ti obbliga a pensare in maniera nuova. E, quando non sai da che parte girarti, fai silenzio e aspetti. Aspetti in silenzio, senza costruire pensieri. Perché? Perché i pensieri rimescolano quello che già sai e ti riportano a quello che hai sempre fatto. Un agire nuovo è portato invece da un’ispirazione: un pensiero carico di emozioni positive che proviene da un modo di essere e di pensare che hai sentito profondamente vero ma finora è rimasto quiescente dentro di te, come un seme pronto a germinare quando un bisogno profondo lo richieda. E ora puoi e vuoi seguirla perché il nuovo te stesso che ti chiama a essere lo senti più vero di quel che sei ora.

Da una piccola morte è nata una piccola risurrezione. Davvero, tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28).

                                                                                       Michele Bortignon

3/01/2021

Il malumore

Quanto poco ci vuole a metterci di malumore e a rovinarci così la giornata? Un malinteso con una persona a cui teniamo, qualcosa che non va per il verso giusto, un egoismo altrui che ci ferisce… Ci coglie allora un senso di ingiustizia (o di colpa se siamo noi la causa della situazione) e tutto sembra un disastro.

Ultimamente ci sono passato anch’io a causa di un piccolo incidente in camper e rifletterci sopra mi ha aiutato a capire come uscirne. Sarà un esempio semplicistico, ma, appunto in quanto semplice, forse potrà aiutarti a individuare una dinamica da applicare a casi più complessi.

Il primo passo è RIDIMENSIONARE. Forse quel che è successo non è proprio un disastro, ma una cosa fastidiosa, magari anche dolorosa, a cui però non è giusto dare il potere di sconvolgerci la vita. Nel mio caso era andato in pezzi un angolo del paraurti di plastica, ma niente di sostanziale era stato toccato. Certo, il paraurti di un veicolo vecchio, di cui non trovi ricambi, per cui il secondo passo, quello di REAGIRE, si presentava più complesso. Ma reagire è anche accettare la sfida di creare una novità tirando fuori le proprie risorse. E con una colla e uno stucco particolari sono riuscito a riparare in qualche modo. Non è tornato come prima, per cui il malumore persisteva. Ho messo allora in atto il terzo passo: RICENTRARSI. Il negativo tende a invadere completamente il nostro campo di coscienza, facendoci vedere tutto nero. Da qui l’importanza di accorgerci che nella nostra vita, anche così com’è ora, c’è tanto di bello, di buono, di vero da rimettere al centro per dargli modo di esplicare il suo potenziale di bellezza che suscita gioia. E ho deciso di essere felice gustandomi fino in fondo la bella giornata di sole e la passeggiata in montagna che mi aspettava.

Ridimensionare, Reagire, Ricentrarsi: 3 R, una formula facile da ricordare, da usare come salvagente quando l’amarezza ci trascina alla deriva.


                                                                                        Michele Bortignon

2/01/2021

Vicino, nei giorni della lontananza

Lo sappiamo che i nostri genitori, alla fine, ci lasceranno, che moriranno lasciando un segno indelebile dentro di noi. E tutti noi quel giorno vorremmo essere presenti, essere loro vicini, tenergli la mano e dire loro, per l’ultima volta, «Ti voglio bene», nutrirci delle loro ultime parole o dei loro ultimi sospiri prima di stringere la loro mano ormai inerme tra le nostre. Tutti vorremmo essere presenti nei loro ultimi giorni: accudirli e seguirli nei gesti semplici che i loro tanti anni rendono difficili.  Vorremmo essere lì, seduti al fianco del loro letto, pronti ad accogliere ogni segno e ogni loro bisogno, vorremmo poter ricordare e ricambiare le cure che loro avevano per noi quando eravamo bambini. A me tutto questo, ora, è negato da un virus che non permette il più elementare ed essenziale gesto che ci rende esseri sociali: la vicinanza.

Non so come esprimere l’impotenza accompagnata dalla lontananza, non so come spiegare o dire la devastazione che mi abita in questi giorni di snervante attesa senza poter consolare mio padre con la mia presenza.

Mio padre ha il covid19, ha novant’anni, non è un vecchio: è mio padre. È in ospedale curato sicuramente con tutta la dedizione e le attenzioni del personale, ma non vede gli occhi di mia madre che è il suo angelo custode, non vede i visi delle sue figlie, dei generi e dei nipoti. Il suo corpo è accudito, ma i suoi occhi non sono nutriti con i volti noti e amati da una vita e questa cura importante e necessaria non gli può essere concessa.

Mi sento inerme e impotente, con l’aggravante di non poter vedere per sapere; il filo del dialogo è interrotto dalla distanza a causa dell’isolamento. Isola: ecco la parola giusta in questi giorni. Siamo isole che lanciano messaggi di fumo contro un cielo che li inghiotte. C’è un linguaggio fatto di gesti, di mani che toccano, di occhi che guardano e braccia che stringono che ora non ci sono dati e di cui ora avremmo bisogno come l’ossigeno che questo virus si sta portando via.

 Questo era il mio grido di rabbia e impotenza nei giorni dell’incertezza.

 Mi sono chiesta spesso se oltre a una vicinanza fisica vi sia anche una vicinanza spirituale, un’unità di anima e cuore: è possibile pensare intensamente una persona e sentirsi con lei?

E poi: come essere vicina a mio padre morente se le circostanze non mi permettono di esserlo fisicamente?

A un certo punto ho abbandonato i pensieri rabbiosi fatti di “se, ma, perché” e ho abbracciato i “voglio e posso”, aiutata anche da questa frase di Douglas Malloch: “Sii il meglio di qualunque cosa tu possa essere”.

Voglio esserti vicina come posso, papà, di più non posso fare. Lo posso nello spirito, lo posso in quel Dio che è mio Padre e tuo Padre, papà.

Se Dio mi dice: “Io sono con te”, lo dice anche a te, papà, e quel Dio diventa il ponte tra me e te. È lo Spirito che ci unisce: è l’amore che circola, è la speranza che ci nutre e la fede che diventa ossigeno.

Ecco che, durante una notte insonne, il mio pensiero corre tra te e Dio e nell’invocare quel Dio e nel pronunciare “padre” sento che questa parola così dolce ci rende una cosa sola, ci fa unità.

Il giorno dopo, durante la messa, sento che tu sei con me e lo Spirito diventa il ponte che ti fa essere “presente” con me a quella messa. All’offertorio, sull’altare, metto la tua sofferenza e lontananza. E il corpo di Cristo lo ricevo con te e in te, papà, divento il tramite della tua ultima Eucaristia. Questa celebrazione, nella domenica del battesimo di Gesù, diventa il tuo battesimo in Cristo: sei immerso in Lui, avvolto nel Suo amore.

 Poi… sei diventato tutto suo, tutto in Lui e tutto in me, in una unità che niente e nessuno mi potrà togliere.

 Questo è diventato il mio canto di lode e di ringraziamento nei giorni della certezza che sarai sempre in me, papà.

 

                                                                          MariaRosa Brian

1/01/2021

Allora non c'è futuro? Che cosa fa proseguire assieme anche quando non si trova un accordo.

 

Io sono responsabile di ciò che dico o di ciò che tu capisci? Il problema è mio che non mi so spiegare o tuo che afferri quello che vuoi? Parliamo la stessa lingua, ma a renderti incomprensibili le parole che ti dico è il tuo vissuto diverso dal mio.

Nel rapporto di coppia, pur parlando la stessa lingua, a volte, capiamo “pan per polenta” e il buffo -o il tragico- della situazione è che, per quanto uno tenti in tutti i modi di spiegarsi, non riesce a intaccare la visione dell’altro. È come se ragionassimo per schemi mentali e non riuscissimo a uscire da quello schema. Forse perché il nostro vissuto (il bagaglio della nostra infanzia creato da quei genitori, da quell’ambiente e da quelle esperienze) ci tiene prigionieri e rende il nostro sguardo miope. In tutto ciò non ci sono capri espiatori ai quali addossare la colpa, no: è così perché tutti noi siamo figli del nostro tempo e della nostra storia.

Penso sarà capitato anche a voi. Certi atteggiamenti del vostro coniuge vi fanno arrabbiare e, se riuscite a evitare di “sbottare” e cercate di spiegare all’altro in modo educato e civile perché il suo atteggiamento vi abbia fatto irritare, otterrete proprio ciò che volevate evitare: l’incomprensione e la lite. È come cercare di dipanare una matassa: più cerchi di sgrovigliare il filo e più lo aggrovigli in modo irrecuperabile. Che fare? Lasciar perdere e buttare tutto? Tagliare il filo e fare dei nodi?

E in un rapporto, che non è una matassa, come procedere? Mollare tutto e andare via? Litigare fino allo sfinimento per imporre all’altro la nostra verità? Quando non ci si capisce in famiglia che si fa? Si scappa? Ci si chiude tenendo il muso e ingigantendo l’incomprensione? Ci si scanna inutilmente a vicenda? Diciamo che trattandosi di una relazione il filo del rapporto va recuperato evitando strappi e nodi. Partiamo dal presupposto che non siamo tutti uguali; già nella Bibbia, all’origine della creazione, troviamo un perché delle differenze fra maschio e femmina.

Ricordo un’interessante esegesi del brano di Genesi sulla creazione della donna che può esserci utile: «Non è bene che l'uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18), normalmente il testo è tradotto con “un aiuto che gli sia simile”, ma il testo ebraico dice una cosa diversa: “come qualcuno che gli sia come un suo di fronte”. La donna è posta di fronte/contro l’uomo: i due, cioè, stanno uno di fronte all’altro; non guardano nella stessa direzione, ma ognuno, stando di fronte all’altro, oltre a guardarlo in faccia, può guardare alle sue spalle e vedere ciò che l’altro non vede. È come se la visione di uno compensasse la visione dell’altro non senza creare problemi e divergenze; ma, se ci pensiamo bene, non è proprio chi ti dà contro che ti fa crescere? A volte, però, quando non c’è verso di far comprendere il nostro punto di vista è bene spostarsi e mettersi di fianco e guardare con i suoi occhi, dal suo punto di vista. Poiché del mio coniuge conosco la storia e la sua infanzia, posso capire e cercare di entrare nel suo campo visivo che non è il mio. Se per un momento mi metto al posto dell’altro, ho la sua stessa visione delle cose e posso capire come lui vede, come lui ascolta, come lui sente, con quale visione e conoscenza della realtà. Proviamo a spostarci e a guardare con gli occhi del nostro interlocutore: ecco che il suo non capire diventa meno fastidioso e più comprensibile.

La situazione non si risolve, nessuno ha la visione corretta delle cose, ma si può andare avanti lo stesso, a volte standoci di fianco, a volte uno di fronte/contro all’altro, mai di spalle.

MariaRosa Brian