12/24/2022
12/18/2022
Felix qui potuit rerum cognoscere causas
Felix, qui potuit rerum cognoscere causas,
atque metus omnes et inexorabile fatum
subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari.
Frutto di una notte insonne, condivido con voi qualche considerazione sul secondo canto delle Georgiche di Virgilio, versi di una bellezza e di una profondità ineguagliabili.
“Felix, qui potuit rerum cognoscere causas”,
Felice chi è riuscito a conoscere le cause di ciò che gli succede
“atque”. Bellissimo questo “atque”: non è un semplice “et” che giustappone quello che fa poi questo “felix”, ma si può tradurre “e proprio per questo”. Ciò che adesso egli fa, può farlo perché ha capito perché gli succede quel che sta vivendo.
E che cosa fa? “Ha messo sotto i piedi tutte le sue paure, il fato inesorabile e lo strepito della morte che vuole ghermirlo”.
Cosa sono “il fato inesorabile e lo strepito della morte che vuole ghermirlo” se non un’immagine poetica di ciò che non possiamo controllare e quindi delle nostre ansie?
Dunque, semplificando:
Felice chi è riuscito a conoscere le cause di ciò che gli succede e, proprio per questo, ha sottomesso le proprie paure e le proprie ansie.
Già, ma come sottometterle? Penso che una proposta concreta potrebbe essere quella di farsele alleate, ossia non aver paura della paura, ma frequentarla, parlarci assieme, comprenderne le ragioni pur senza esitare a riportarle nelle giuste dimensioni.
Dunque, altra traduzione, più libera: “Felice chi non ha paura delle proprie paure, ma se le fa alleate, facendosi spiegare da loro cosa gli sta succedendo”.
Manca però un passaggio perché tutto questo sia possibile: la tranquillità dell’animo. Se non sei pacificato dentro, le situazioni continueranno a far leva sulla tua insicurezza per terrorizzarti, dicendoti che «non si sa mai...» e che «sicuramente capiterà il peggio». E’ così che nascono le paure.
E qui bisogna tornare ai versi precedenti.
O fortunatos nimium, sua si bona norint,
agricolas! Quibus ipsa procul discordibus armis
fundit humo facilem victum iustissima tellus.
Fortunato chi coltiva i campi!
La terra gli dona ciò di cui ha bisogno
e, soprattutto, lo stacca dalle preoccupazioni del mondo.
Virgilio assume l’agricoltore come simbolo della persona pacificata, in equilibrio con se stessa perché possiede ciò di cui abbisogna e, se se ne rende conto (“sua si bona norint”), ne è contenta e non cerca altro.
Se è soddisfatta di ciò che ha a sua disposizione, e sente che c’è una Provvidenza (qui la “iustissima tellus”) che le dà i mezzi per provvedersene o per accogliere come sfida la sua mancanza, non ha più paura di non ottenere quel che non ha o che le venga a mancare quel che ha.
Si non ingentem foribus domus alta superbis
mane salutantum totis vomit aedibus undam,
nec varios inhiant pulchra testudine postes
illusasque auro vestes Ephyreiaque aera,
alba neque Assyrio fucatur lana veneno,
nec casia liquidi corrumpitur usus olivi;
Traduco liberamente, attualizzando:
Questa persona non cerca i like dei followers,
non ha bisogno di vestirsi firmato per farsi guardare
né di esibire una vita sopra le righe
né di tenersi su a forza di eccitanti.
La sua passione diventa non procurarsi beni, piaceri, visibilità, ma gustare quanto le viene dato.
at secura quies et nescia fallere vita,
dives opum variarum, at latis otia fundis
speluncae vivique lacus et frigida Tempe
mugitusque boum mollesque sub arbore somni
non absunt; illic saltus ac lustra ferarum.
Ella gusta una tranquillità operosa, una vita genuina;
a piene mani ne raccoglie i frutti
ma sa anche trovare riposo all’aria aperta:
sui monti attorno,
rupi, laghi e fresche valli,
dove riposare all’ombra di un albero
mentre il bove alza il suo muggito
e tra gli alberi si aggirano, timide, le bestie selvatiche.
Ecco allora che, pacificata interiormente, è pronta a vivere nella dimensione di cui parlavamo poco fa: parlare senza paura alle sue paure e ridere in faccia alle sue ansie.
Michele Bortignon
12/01/2022
Il “dovere” della gioia
Tutti, penso, ci siamo trovati in situazioni in cui proprio non siamo riusciti a capirci con chi ci stava davanti, con conseguenti litigi, musi lunghi, sensazione che tutto sia finito senza nessuna possibile soluzione.
Cessata la rabbia (e abbiamo visto che non ci portava da nessuna parte, se non a peggiorare la situazione) siamo stati presi da una sorta di depressione, senza più alcuna voglia di fare, mentre una nebbia ci isolava in noi stessi come se attorno tutto fosse sparito. In questa condizione, il futuro ci viene rubato e il presente è un brancolare senza direzione.
Cosa facciamo? Restiamo così e incolpiamo gli altri di aver creato questa situazione? Aspettiamo siano loro a darsi da fare per risolverla? Anche no! Ricordiamoci che noi siamo l’unica risorsa a nostra disposizione per cambiare le cose. Qualsiasi cosa possiamo pensare, prima però dobbiamo lavorare sulla motivazione per farlo, e, ancor prima, sul clima interiore che permette a una motivazione di esserci: se non sono contento della vita, perché mai dovrei impegnarmi per migliorarla? Tanto vale lasciarla andare dove vuole!
E’ qui che si inserisce l’invito alla gioia dell’ottava beatitudine del Vangelo (“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli". Mt 5,11-12): quando le cose vanno di al contrario, tu rallegrati e salta di gioia, la mente e il corpo impegnati a dire che quel che ti sta succedendo è Super, è da WOW! Una reazione da svitati? Ma forse una reazione di fede, una fede assoluta nella promessa che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28).
Rallegrarmi è un atto di una fiducia così assurda che non può che mettere in moto l’impossibile di Dio: «Caro Dio, o ci sei o non ci sei; e, se ci sei, dovrai tener fede alla tua promessa di dare un senso a ciò che sto vivendo». Eccomi allora entrare in un’attesa attiva: come dice sant’Ignazio, agisco come se tutto dipendesse da me, ma chiamando Dio al mio fianco, con un’invocazione di speranza e di fiducia che lo chiama a essere co-autore di questa svolta nella mia vita. Come risponde Dio? A sua volta rivestendomi di speranza e di fiducia per rendermi co-autore di quel bene che spero. Come? Comincio intanto io a vivere questa situazione come se il bene che spero si fosse già realizzato ("Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato". Mc 11, 24). Se il futuro che spero è fatto di armonia, di collaborazione, di premura, comincio io a vivere con l’altro questi atteggiamenti. E, poiché la realtà funziona secondo la legge dello specchio, che ti restituisce quello che gli dai, è possibile che qualcosa di buono accada davvero.
Difficile questa prospettiva? Molto, perché anti istintiva. Ma quando abbiamo esaurito tutte le risorse che il nostro buon senso può offrirci e ci troviamo a sbattere la testa contro un muro di gomma, può valere la pena di provare anche questa strada… che magari ci porterà da tutt’altra parte: la fantasia di Dio sa sempre stupirci!
Michele Bortignon
11/01/2022
La falsa pace dello strutturato
Il timore di quel che può succedere seguendo Cristo su una strada di cui intravedo le difficoltà e i problemi può bloccarmi nell’indecisione, in un’immobilità in cui trovo una certa tranquillità, che mi rassicura pur senza soddisfarmi. Non è detto mi trovi in una situazione di peccato o di ignavia. Più spesso ho trovato il mio equilibrio in una religiosità strutturata, che mi ha programmato la vita. In essa ho tutti i miei riferimenti, persone che mi rassicurano semmai mi venisse qualche dubbio, l’approvazione del gruppo a cui appartengo.
E’ una pace che viene da Dio?
“I demoni non tentano più la persona da quando vedono che la via che
segue basta da sola per evitarle di tornare accanto a Cristo” (Francisco de Osuna, Tercer abecedario
espiritual, cap.5). E’ vero, c’è una quiete, una pseudo-pace che deriva
dall’immobilità: non seguo il Nemico, ma nemmeno il Signore. Il tentatore
allora non ha bisogno di farsi vivo facendomi cadere o deviare: sono bloccato,
inerte, all’angolo, per cui non posso nuocergli!
La sensibilità è anestetizzata, i desideri sono congelati dalla paura di
ciò che può accadermi se li seguo, non c’è pensiero sul futuro. «Sto bene così
come sono», mi dico. Non mi manca nulla per una vita normale. Ma il problema è
appunto qui: la mia è una vita “normalizzata”: non vi succede nulla,
nient’altro al di fuori della routine quotidiana. Non c’è avventura, non c’è
scoperta, …non c’è rischio! Solo la sicurezza del prevedibile. E gli eventi
negativi che inevitabilmente accadono li classifico subito come errori di
percorso, qualcosa che non doveva succedere.
Mi mancano le ali per volare nella terza dimensione della vita: la paura
me le ha strappate e l’aquila che ero si è trasformata in un pollo, a cui non
manca nulla… se non tutto ciò che trascende la mera esistenza.
Questa situazione non può bastarmi se ho cominciato a percorrere una via spirituale.
Certo, la paura mi farà dire che in fondo va bene anche così, che ci
sono occasioni per fare il bene anche nella mia situazione senza dover far
nulla di più, che Dio non può volere per me una vita di tormento affrontando
situazioni più grandi delle mie forze, che i miei limiti e incapacità mi
porteranno a fare danni, …
Ma un’insoddisfazione di fondo, una nostalgia dei momenti in cui Dio mi
ha trascinato in alto con Sé mi porta a sentire che neanche così va bene. E non
so cosa fare, incredulo che proprio quella, con tutte le difficoltà che vi
prevedo, sia la via attraverso cui Dio vuole condurmi: «Ma come? Dio non vuol
darmi la pace?»
Occorre allora fare chiarezza sulla via di Dio. A chi Egli sceglie, Dio non prepara una vita senza problemi: non è questa la pace che Egli dà.
«La croce è il prezzo dell’amore» dice S.Teresa d’Avila; «O il nostro
amore è un prolungamento dell’amore di Cristo Crocifisso o è una burla». Ma
perché l’amore ha le dimensioni della croce? Chi è con Cristo ama, e chi ama ha
il cuore che canta, perché riempito di Lui, e, allo stesso tempo, geme, perché
svuotato di sé, del suo diritto a soddisfare il proprio bisogno quando collide
con quello dell’altro, portato a dimenticare l’interesse proprio per cercare il
bene dell’altro. Chi ha fatto esperienza di Dio può amare nella gratuità e
nella mortificazione perché è stato, è e sarà nel suo amore. Questo gli basta e
colma ogni suo bisogno. Chi, se non lui, può amare accettando la croce che
l’amore spesso porta con sé? Anzi, entra volontariamente in queste situazioni,
perché sa che può incontrare Cristo se si mette sulla sua strada. Ed essere con
lui è ciò che sazia completamente il cuore.
La pace promessa da Dio non è dunque una vita senza problemi, ma l’
“Emmanuele”, il Dio con noi.
In compagnia di Cristo c’è compresenza di tormento (la dimensione della
croce) e fede, speranza, amore (la sua presenza, la presenza del suo Spirito,
in noi); il cuore allora, tirato in queste due opposte direzioni, si lacera,
mentre la vita, finora in più luoghi dispersa, si unifica in Cristo, ritrovando
senso, gusto e quella pace vasta e profonda a cui così poco somiglia la
tranquillità dell’immobilismo.
Che cosa mi serve, dunque, per uscire dalle secche dell’immobilismo? Ricordare, riconoscere, rivivere e rigustare la grazia, le esperienze in cui ho toccato l’amore gratuito di Dio che ha trasformato la mia esistenza in vita. Senza la grazia, nessuna esperienza di fede è possibile.
Ma la grazia chiama a una risposta di fede, il cui primo passo è entrare
nella prospettiva di Cristo, lasciando che l’Amore faccia nuove tutte le cose
nella nostra vita.
Sono allora chiamato a fare anche la mia parte: scegliere, decidermi per
Dio con coraggio, disponibilità, generosità e affidamento. “Determinada
determinaciòn” la chiama Teresa: “un grido di protesta contro la situazione
penosa che stiamo vivendo, indotta dai problemi e dalle difficoltà poste
dall’ambiente che ci circonda o dal nostro stesso io”.
Senza “determinada determinaciòn” non si va da nessuna parte: “Coloro
che vogliono percorrere questa strada senza fermarsi fino al termine di essa,
cioè fino a giungere a bere di quest’acqua di vita, è cosa – ripeto – di grande
importanza come debbano cominciare: devono cioè prendere una risoluzione ferma
e decisa di non arrestarsi prima di raggiungere quella fonte, avvenga quel che
avvenga, succeda quel che succeda, si fatichi quanto bisogna faticare, mormori
chi vuol mormorare; bisogna tendere sempre alla meta, a costo di morire durante
il cammino se il cuore non regge agli ostacoli che vi s’incontrano. Il vero
servo di Dio, al quale Sua Maestà ha dato la luce per scorgere la vera strada,
quanto più nel cammino si sente prendere da timori, tanto più cresce nel
desiderio di non fermarsi. Vede chiaramente dove il demonio si prepara a
colpirlo e non solo si sottrae all’urto, ma gli rompe la testa. (Teresa de
Jesus, Cammino di perfezione, cap.21, 1.2).
Oltre alla grazia di Dio e alla nostra “determinada determinaciòn”, è la vita che spero, aspetto e fin d’ora sto gustando a darmi forza per accettare e portare la croce che mi attende sulla strada con Dio: “Sulla via della perfezione tutto ci appare gravoso, e a ragione, perché si tratta di una guerra contro noi stessi, ma appena ci mettiamo all’opera, Dio agisce così efficacemente nell’anima e le dona tante grazie che le sembra poco tutto ciò che si può fare in questa vita” (Teresa de Jesus, Cammino di perfezione, cap 12, 1).
Michele Bortignon
10/23/2022
L'idea della morte nel trascorrere dei secoli
Se con la stagione autunnale è questa esperienza sensoriale a darci il senso della morte, i nostri antenati hanno sentito che è così importante averlo sempre presente che hanno creato altri modi (potremmo definirli dei simbolismi sacri) per renderci presenti a questa esperienza.
Me ne sono reso conto durante un recente viaggio in Toscana. Dal paese di Sorano ho percorso la “Via Cava” che porta alla necropoli etrusca: un sentiero di quasi un chilometro, in salita a tornanti verso la sommità del colle, scavato nel tufo per una profondità di 5-6 metri. Nel percorrerlo, la sensazione è di oppressione, di star penetrando nelle viscere della terra, di correre il rischio di rimanere sepolti vivi, a tener compagnia a quei morti dai quali ci si sta recando.
Una sensazione analoga, seppur non così intensa, l’ho provata qualche giorno dopo, salendo per un sentiero fiancheggiato d’ambo i lati da alti cipressi: due muri verdi che salivano compatti verso il cielo. E guarda caso, sono sbucato nel cimitero del piccolo borgo nel quale mi stavo recando. Coincidenza? Non credo: una stessa struttura simbolica si esprime in maniere diverse ma suscita le stesse sensazioni. Con quale obiettivo? Credo che il messaggio che gli Etruschi volevano far passare è che la vita è breve, e sfocia irrimediabilmente in una morte che toglie ogni illusione; è pertanto un’occasione da non sprecare, e vale la pena scegliere con oculatezza il modo di vivere il tempo che ci è dato. A questa struttura simbolica il cristianesimo si è sovrapposto senza cancellarla. Probabilmente, in questi viali di cipressi che portano ai cimiteri l’ha mantenuta e ripetuta considerandola valida a livello estetico, non so quanto comprendendone il significato. La tensione del cristiano è infatti più ottimisticamente rivolta verso la risurrezione, non solo come opportunità di una nuova vita, ma anche come “pareggiamento di conti”, come esigenza di giustizia. Una volta superata la soglia dalla quale non si può più tornare indietro a cambiare le cose, ecco il giudizio. Mi ha colpito vedere, in due stanze attigue nel museo di Cortona, da una parte un dipinto di san Michele arcangelo che con la bilancia pesa l’anima di un defunto, dall’altra un’illustrazione tratta dal libro dei morti degli antichi egizi, dove il dio Osiride sta facendo esattamente la stessa cosa. L’idea della continuazione della vita dopo la morte non è un’esclusiva del Cristianesimo, ma una speranza/certezza insita nell’animo di ogni uomo. Direi, anzi, che sia alla base di ogni fede religiosa e ne fonda l’etica, intesa come via a un positivo realizzarsi di questa nuova vita.10/01/2022
Chiamati alla fede
Confessarlo unico salvatore è scegliere di lasciare da parte i tentativi
di gestire la vita e la storia dal nostro punto di vista (decidendo
anticipatamente cosa è bene e cosa è male, cosa realizza e cosa impedisce la
nostra felicità), per accogliere tutto quel che ci succede come luogo in cui
Dio si fa presente per darci la salvezza (che è per l’appunto la costante
esperienza del “Dio con noi”), come appuntamento in cui possiamo incontrare
Gesù Cristo, inviato dal Padre in ogni occasione di sofferenza per darci la
mano a viverla con Lui, con il suo Spirito, e farla così diventare benedizione,
passo importante sulla via della nostra risurrezione da una morte che viene da
lontano. Ed è primariamente questo incontro ad essere fonte di salvezza, non
tanto la remissione dei sintomi del nostro male. «Sono guarita non perché si
sia risolto il problema» mi diceva un’esercitante «ma perché ho incontrato una
Presenza».
“Poiché se confesserai con la
tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha
risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9): Gesù è il mio Signore perché si è fatto me nella mia
situazione, è sceso a incontrarmi nella mia incapacità di uscirne da solo; mi è
stato accanto fino in fondo (fino a diventarne vittima!) nei miei errori, per
liberarmene; ha aperto, con la sua risurrezione, la mia speranza in una vita
nuova, non più condizionata dal male ricevuto e fatto o schiacciata dalla
sofferenza. Quella di Cristo è una kenosis
continua: in ogni avvenimento scende a noi per portarci a sé (cfr. Fil 2,
5-11).
Nella difficoltà, nella sofferenza che stiamo vivendo possiamo dunque credere che Dio ci è accanto per affrontarla assieme, nel suo Spirito (con fede, speranza e amore), e trasformarla così in evento di salvezza. A noi Egli chiede di accogliere nel discernimento le mozioni dello Spirito, che ci guida a incarnare il Cristo nella nostra vita, per essere con Lui ad agire come fa Lui.
Possiamo allora prorompere in un canto di gioia (seguendo l’invito dell’angelo a Maria: «Kaire!») perché non siamo più soli con la nostra fatica, la nostra sofferenza, ma la nostra fede contempla il Dio fedele al suo amore, alle sue promesse di liberazione, il Cristo che ci rende partecipi alla sua risurrezione. Anche se adesso ci sentiamo nella morte, pure ci guardiamo già risorti, credendo che, vissuta in Cristo, la nostra passione sarà dal Padre trasformata in fonte di vita vera; una storia, questa, che, a partire da suo Figlio, il Padre realizza con ogni figlio (“Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” Rm 6, 5); per questo la risurrezione di Cristo è l’annunzio che apre ogni morte alla salvezza.
Quando, nella fede, scegliamo di vivere la nostra situazione di fatica, di sofferenza uniti a Cristo, cambia il nostro atteggiamento verso di essa, e ci sentiamo guidati dallo Spirito a darle un senso. Possiamo allora perfino esclamare: «Che bella occasione per fare…, per dare…, per crescere in…, per rendermi conto che…, per scoprire cosa c’è che non va in…». Un’occasione, dunque, in cui Dio ci chiama a scoprire il modo di trasformare la fatica in amore, la sofferenza in gioia, l’oscurità in luce, proprio come ha fatto Gesù, che è passato dalla morte alla risurrezione vivendo la propria fatica, la propria sofferenza e la propria oscurità nella fede, nella speranza, nell’amore.
Nella fede non si pretende che il Signore trasformi la situazione secondo i nostri desideri (anche se è legittimo chiederlo!), e nemmeno ci si accontenta di un minimo da sopravvivenza, ma ci si attende da Lui la risurrezione: una trasformazione assolutamente inedita, che realizzerà il nostro bene più autentico… che sarà probabilmente diverso da ogni previsione, perché Suo, non nostro.
Ma, soprattutto, nella fede il Signore vuol farci sperimentare una nuova relazione con Lui: a chi gli si affida, dopo il primo, fisiologico, smarrimento, Egli risponde facendogli sentire tutta la forza e il calore del suo abbraccio. Non si capisce, non si sa cosa succederà e cosa ci aspetta, ma ci si sente nelle mani di Dio. E questo ci basta. Nella fede diventiamo progenie di Abramo, che “per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, sperando contro ogni speranza” Rm 4, 20.18a).
Michele Bortignon
9/01/2022
Mediatore dello Spirito
E’ già lo Spirito Santo che ti ispira di offrirti, perché vuole offrirsi
attraverso chi si offre. Non agisci dunque per tua scelta, ma ispirato dallo
Spirito e lasciando sia Lui ad agire in te. Non sta a te decidere. Puoi operare
solo a nome del Padre, assecondando la sua azione, compiendo ciò che Lui ti fa
capire essere la sua volontà.
Nel momento in cui cammini a fianco della persona che ha bisogno di te,
lo Spirito che è in te entra nella sua vita, manifestando la potenza in cui hai
creduto accogliendolo. Lo Spirito Santo che è in te, quando sei in comunione
con Cristo, entra in comunione con la persona con cui sei entrato in comunione:
hai dunque il potere di comunicarle lo Spirito Santo, assecondando la volontà
di Dio di esprimersi con potenza nei bisogni dell’uomo attraverso chi l’ha
accolto nella propria vita.
Però, perché la potenza di Dio si manifesti attraverso di te, devi aver
fatto la scelta della fedeltà alla storia delle persone che accompagni. Lo
Spirito Santo si rivela allora per quello che è: Amore. La sua potenza è la
potenza dell’amore, e l’amore ha la capacità di cambiare lo spirito della
persona in cui si riversa, portandola a vivere in maniera diversa la sua
situazione, creando in essa una vita nuova.
E’ la potenza dell’amore, il lasciare che l’amore agisca attraverso di
te che ti permette di fare miracoli. Se agisci a nome di Dio, lasciando sia Lui
ad operare attraverso di te, è dunque Dio il protagonista del miracolo, da Lui
parte l’iniziativa, che tu puoi solo assecondare.
Quando nasce quest’iniziativa di Dio attraverso di te? In risposta alla
fede della persona che ha bisogno. La fede chiama Dio a intervenire, in una
situazione di morte, per portare la salvezza. In questo desiderio di salvezza è
Dio stesso, nel suo amore, ad agire, dando alla persona la speranza che la
spinge alla fede. Puoi dunque fare miracoli solo dove c’è fede, in una storia
in cui già Dio sta agendo con la potenza dello Spirito Santo, e solo
assecondando quello che già Lui vuol fare.
Amare fino al miracolo, agendo in opposizione allo spirito del male,
diventa così una missione: “Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il
quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere
del diavolo, perché Dio era con lui” At
10, 38).
Michele Bortignon
8/01/2022
Il senso della volontà di Dio
Quando senti
parlare di volontà di Dio su di te, rischi di metterti subito sulle difensive
perché ti senti espropriato della tua libertà di scegliere la direzione della
tua vita.
E’ pertanto indispensabile chiarire innanzitutto cosa si debba intendere
per volontà di Dio su di te e come questa si ponga in sinergia con la tua
libertà per orientare la tua vita.
In Cristo, Dio ha dichiarato il suo impegno
perché l’uomo raggiunga la vita in pienezza (“Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza” Gv
10, 10). Puoi dunque essere certo che volontà di Dio è “il tuo bene” e conforme
a tale volontà è tutto ciò che, realizzandolo, ti rende più uomo.
In questa direzione Dio continua ad operare
per te. Dopo averti dato in Cristo la via che porta alla vita vera, attraverso
il suo Santo Spirito Egli ti “lavora dentro” per far maturare in te frutti di
vita: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio
di sé (Gal 5, 22). E, questo, confermando le tue scelte che vanno in questa
direzione con la serenità interiore o distogliendotene con il disagio;
sentimenti questi in cui si esprimono la consonanza o la dissonanza nei
riguardi di ciò che la coscienza avverte “per connaturalità” come bene
autentico, oppure di ciò che si pone o meno come sensata e positiva
prosecuzione della storia che stai vivendo.
In questa modalità Dio interviene a supporto
della tua azione, dei tuoi progetti, facendosi luce che ti mostra la strada da
percorrere e forza che ti sostiene nel cammino intravisto.
Ma accanto a questo intervento
“dall'interno”, possiamo anche individuare una guida esterna, in cui è invece
Dio stesso che interviene, nella propria libertà d’azione, ad orientare la tua
storia.
La sua volontà è qui da discernere nei
“segni dei tempi”, nella penombra di avvenimenti che ti coinvolgono e, come la
corrente di un fiume, ti chiamano ad assecondare un’azione di Dio che si
rivelerà con chiarezza come proveniente da Lui solo a posteriori, dai frutti
che saranno nati dalla tua adesione ad essa.
Se nella prima modalità sei protagonista,
qui sei ascoltatore. Nel primo caso agisci orientandoti con la guida interna
dello Spirito Santo, ma a questo stesso Spirito non puoi che affidarti quando
senti che una storia che non sei tu a guidare ti chiama al suo interno.
Allora non puoi che affidarti e confidare.
Quel Dio che, guidandoti interiormente, aveva avuto fiducia in te, nella tua
risposta positiva alla sua chiamata, ora ti invita a ricambiare questa fiducia,
camminando nell’oscurità di situazioni talora di fatica e sofferenza, talaltra
che ti chiamano a uscire dalle tue sicurezze verso un futuro incognito, forte
solo di una speranza: alla fine tutto sarà bene perché è Lui che ti ama a
guidare la tua storia. «Lascia a me la tua storia. Io so quel che faccio»,
sembra allora dirti il Signore di fronte ai tuoi tentativi di capire, di dare
un senso, di pianificare le cose… tutti modi con cui vorresti riprendere in
mano la guida della tua vita seguendo un tuo progetto. «Ho fiducia in te. Abbi
fiducia in me», ti ripete il tuo Signore.
Non sarà facile fidarti, credere che le cose
vadano a buon fine anche se non sei tu a guidarle. Ma è l’unica strada per
entrare nella speranza che Dio nutre su di te; una speranza che ti sovrasta a
tal punto che, se ti fosse dato di contemplarla nella sua intensità fin dall'inizio, guardando alla tua debolezza rimarresti schiacciato dallo
scoraggiamento o da un perfezionismo angosciato.
In te rivive la tentazione di Mosè all'inizio del cammino nel deserto. “Indicami
la tua via, così che io ti conosca” (Es 33, 13): Mosè chiede a Dio di
dargli la mappa della strada, per poterla percorrere da solo, senza più bisogno
di lui, egli stesso diventando Dio del suo popolo. Ma Dio procederà con lui
passo passo, in un cammino di crescita graduale e progressivo, aprendogli
davanti sempre nuove prospettive, nelle quali lo inviterà ad entrare
investendovi il proprio intuito, la propria creatività, il proprio impegno.
Per sé Dio rivendica un ruolo di padre, il
ruolo di chi cioè continua a riproporre con forza la propria speranza sul
figlio. In tale veste dunque Dio non ti pone limiti e condizionamenti, ma ti dà
la dolce sensazione di una presenza premurosa e discreta, che non si impone ma
si propone, pronta a rispondere a ogni tuo richiamo d’aiuto. La certezza di
questa presenza ti dà la possibilità di fidarti e affidarti con amore a questa
speranza, senza più ansia (“Io camminerò
con voi e ti darò riposo” Es 33, 14).
La cosa importante e da curare non è allora
la chiarezza di obiettivi e strategie, ma la relazione con il Signore. Il
cammino nasce dall'ascolto, non da un progetto: “Nell'abbandono confidente sta la vostra forza” (Is 30, 15), nel “camminare umilmente con il vostro Dio”
(Mi 6, 8).
Dio non dà evidenze, né ti chiede di agire
sulla base di una presunta certezza sulla sua volontà, quasi esistesse un
progetto prestabilito, fatto senza di te, sopra la tua testa, da scoprire e a
cui dare la “risposta giusta”. Non è questa l’intenzione di Dio: Dio è amore e
la libertà è una dimensione consustanziale dell’amore. Non c’è un progetto
prefissato e un’obbedienza richiesta, ma da parte di Dio una speranza “attiva”,
un investimento di fiducia nella tua intuizione e creatività; da parte tua una
risposta d’amore, che si impegna responsabilmente, a questa speranza e a questa
fiducia.
Nella consolazione che provi è Lui che
condivide con te la sua gioia per una tua risposta che sente essere “a sua immagine e somiglianza”, di cui
Egli, come in origine, può dire “E’ cosa
buona”.
Michele Bortignon
7/01/2022
Salvezza e benessere
Che cos'è l’anima? Sono io, in tutto ciò che non posso togliermi
senza rinunciare a quello che sono. E’ quello che resta di me dopo la mia
morte, quello che di valido ho realizzato nella mia vita, ciò che di me è
impregnato di bontà, di verità, di bellezza. E’ il mio io profondo.
Che cos'è lo spirito? E’ ciò che mi fa essere oltre me stesso. È
Dio che abita nella mia anima e così mi rende suo figlio, suo erede, sua
presenza nel mondo.
Il corpo e la psiche sono ciò che dà all'anima la
possibilità da un lato di esprimersi (sentimenti, parole, gesti), di esserci,
di essere al mondo, dall'altro di percepire, di ricevere stimoli che la
modificano.
La vita umana, nella prospettiva cristiana, si realizza in un processo
di incarnazione dell’Amore.
Lo Spirito d’Amore scende nell'anima (ossia plasma l’io profondo) prima
attraverso la relazione con i genitori, poi (con il maturare della capacità
d’astrazione, a circa 10 anni) attraverso la relazione con Dio, cioè con
l’Amore incontrato in una pluralità di modi diversi (persone, cultura,
Scritture, Chiesa, ecc.).
Questo processo di incarnazione dell’Amore è però soggetto ad importanti
deformazioni a causa di mediazioni manipolatorie: le ferite della psiche incidono
sull'anima, deformandone la naturale capacità di amare.
L’accompagnamento spirituale deve allora aiutare il riplasmarsi
dell’anima in Cristo.
Perché Cristo? Perché il suo modo di vivere la vita, cioè l’amore, ha
vinto le morti che Egli ha incontrato nella sua esistenza, dandoci così la
speranza di uscire dalle nostre morti se le viviamo anche noi nell'amore.
Come aiutare questa ri-creazione dell’anima nell'amore? Rifacendo il
look agli archetipi: portando la persona a vivere con Dio, a livello intellettuale,
affettivo e corporeo, l’esperienza d’amore gratuito e maturante che non ha
vissuto con i genitori. Di questo amore di Dio potrà fare esperienza nell'amore
comunque presente nelle sue relazioni, nell'amore del suo accompagnatore,
mediatore della Parola che in lui si fa Spirito, nell'Amore che misticamente
percepisce in ciò che la circonda.
L’anima non la guarisci da solo, ma nella relazione con un altro o con
un Altro, perché la medicina dell’anima si chiama amore.
Poiché, come abbiamo detto, le ferite psichiche hanno inciso sull'anima,
ed è l’anima ad interagire con la vita attraverso la psiche e il corpo, creare
condizioni di benessere per quest’ultimi dà sollievo, ma non è risolutivo, non
guarisce l’anima. La condizione dell’anima guarita è la salvezza, ossia il
ripristino della percezione di essere amata e della conseguente capacità di
amare.
Salvezza è Vivere nell'Amore, è lo Spirito
Santo che scende nell'anima e si fa uno con essa, è Cristo che si incarna in
me.
Benessere è funzionare correttamente nella
psiche e nel corpo, è la psiche e il corpo che funzionano in armonia.
L’accompagnamento spirituale non lavora sul benessere, ma sulla
salvezza; che poi si traduce anche in benessere.
Risulta evidente che ciò
che decide della vita o della morte interiore di una persona è la possibilità
di ricevere e di dare amore. In maniera sana. Ed è proprio a questo livello che
incide la salvezza. Anche nel linguaggio comune si dice “mi hai salvato la
vita” quando uno era in pericolo di morte e tu lo hai aiutato ad uscirne.
La salvezza è dunque la
questione fondamentale della nostra vita. A livelli più superficiali c’è ciò
che migliora il nostro vivere, ma non ci uccide dentro, non toglie senso alla
nostra vita se dovesse mancarci: la salute, la sicurezza economica, il successo
nelle nostre attività... tutte cose buone e desiderabili e doverose da
perseguire, ma non decisive per la Vita. Prova ne sia che, se anche le
possedessimo tutte, senza amore non ci sarebbe alcun gusto nel vivere; sarebbe
anzi una tragedia.
Ma perché l’esperienza di
Dio è necessaria per la salvezza? Noi trasmettiamo agli altri amore nelle
modalità in cui l’abbiamo ricevuto: scriviamo con l’alfabeto che ci è stato
insegnato! Ma queste modalità di amare, anche nel migliore dei casi, sono pur
sempre segnate da egoismi e immaturità che limitano o rovinano l’essere persona
di chi riceve questo amore; il quale non risponderà certo con amore a queste
manifestazioni distorte.
Quando la persona constata
allora che i suoi atteggiamenti sono controproducenti, non le ottengono l’amore
che cerca e rovinano la relazione con l’altro, può scatenarsi in lei una crisi
dolorosa ma salutare. E’ il momento di orientarla alla sorgente stessa
dell’amore, al Dio-Amore, per aiutarla a capire come amare, facendo prima
esperienza di essere amata.
Come ha mostrato nella sua
vicenda terrena, anche se l’uomo si relaziona con Lui in maniera distorta,
Cristo risponde con un amore sano e autentico. A questa scuola d’amore l’uomo
impara ad amare; pian piano riuscirà gradualmente a vivere anch'egli in maniera
sana le proprie relazioni e a ottenerne risposte d’amore.
L’amore ricevuto da Dio diventa pertanto condizione per dare amore agli
altri e, conseguentemente, riceverne.
Ogni amore che dura è perché, direttamente o indirettamente, è modellato
su quello di Cristo, immagine del Dio-Amore. Gli altri amori sono merce di
scambio per ottenere il soddisfacimento di un bisogno; e, quando l’altro delude
questa mia aspettativa, lo scarico.
La salvezza, dunque, si apre davanti a chi ha fede, a chi accetta, cioè,
di entrare in un sistema di riferimento (l’amore) completamente diverso
rispetto a quello in cui il problema si è creato (dominato dall'ansia di
ottenere e dalla paura di perdere ciò che soddisfa i nostri bisogni). Come abbiamo
appena visto, tale scelta di campo può farla chi riconosce le conseguenze
fallimentari dell’essersi fatto Signore della propria vita: diventa allora
disponibile a dare al Dio-Amore il ruolo di Signore, e perciò ad assumere i
suoi criteri per entrare nella Vita. La salvezza non è dunque un risultato
raggiunto una volta per tutte, ma la scelta quotidiana di vivere in Colui che è
la Vita.
L’errore che si potrebbe commettere a questo punto è quello del
volontarismo: ho capito che nella salvezza entra chi ama e allora mi sforzo di
amare.
No: l’amore deve traboccare da un cuore che ne è stato riempito,
altrimenti non è amore.
Gesù dice “Amatevi gli uni gli altri, come
io vi ho amati” (Gv 15, 12). Amiamo
dopo aver fatto l’esperienza di essere amati e amiamo nel modo in cui siamo
stati amati. Allora è amore vero, senza secondi fini inconsci e modalità
contorte.
Dobbiamo solo scoprirci amati: è questo il lavoro iniziale e
fondamentale dell’accompagnamento spirituale, che non a caso si chiama
“Principio e fondamento”.
L’esperienza dell’essere amati porta in sé la spinta e il modo per amare
a nostra volta.
Senza di questo non si va avanti senza il rischio di ricadere nel
volontarismo.
Nella psicanalisi freudiana, ad esempio, dopo aver fatto chiarezza sulle
motivazioni inconsce dell’agire del paziente, si lascia alle sue forze e alla
sua buona volontà ricostruire la sua situazione. Nel counseling rogersiano si
confida che la persona saprà trovare da sola la sua strada e percorrerla una
volta che ha preso consapevolezza della propria situazione.
La salvezza ha invece la sua origine nell'esperienza dell’Amore, nei
tanti modi in cui si esprime nella nostra vita, e il suo compimento nel viverlo
nei modi che la nostra storia personale ci affida. In ciò consiste la Vita Eterna,
altro modo di esprimere il concetto di salvezza. Dice Benedetto XVI° (Omelia
del 3.11.2012): “… la vita eterna non è un infinito doppione del tempo
presente, ma qualcosa di completamente nuovo. La fede ci dice che la vera
immortalità alla quale aspiriamo non è un’idea, un concetto, ma una relazione
di comunione piena con il Dio vivente: è lo stare nelle sue mani, nel suo
amore, e diventare in Lui una cosa sola con tutti i fratelli e le sorelle che
Egli ha creato e redento, con l’intera creazione”.
Come si riconosce la salvezza in una persona? Dalla gioia, dalla pace,
dalla libertà interiore, frutto del sentirsi amati, e dalla generosità,
espressione della bellezza dell’amare.
Diceva Nietzsche: «Non è vero che Cristo è risorto, sennò i cristiani
avrebbero un’altra faccia». Un cristiano dal volto triste non è credibile
nel suo annunciare che la salvezza viene da quel Cristo nel cui amore dice di
vivere.
Quando si vive in Dio, nelle situazioni difficili, pur nella
comprensibile preoccupazione, il clima di fondo è la pace, che deriva appunto
dall'essere con Lui ad affrontarla, e la generosità, che ci spinge a vivere
fino in fondo il suo amore per risolverle.
6/01/2022
La verità è sempre oltre il troppo evidente
Il bimbo della mia collega
d’ufficio, due anni e mezzo, al ritorno dall'ospedale, dov'è stato ricoverato
per una polmonite, non ne vuole più sapere di andare a letto: urla disperato
appena lo si porta in camera. Traumatizzato dall'ospedale, in cui il letto
significava sofferenza? Allora nulla si può fare se non addormentarlo in
braccio e rimetterlo a letto. E così il problema continua… Ma poi la mamma si
accorge che sul divano il bimbo si addormenta. In salotto c’è la luce accesa…
che sia paura del buio? Tiene allora la luce accesa anche in camera e il bimbo
si addormenta.
Perché racconto questa storia? Perché anche nei nostri
rapporti tra adulti succede esattamente lo stesso: quante volte ci è successo
di giudicare una situazione o una persona sulla base di dati evidenti, ma poi
rivelatisi incompleti, per cui abbiamo reagito in maniera inefficace se non
addirittura controproducente?! Fra queste reazioni, forse la più tipica è
l’ira: ribellione a ciò che sentiamo come un’ingiustizia, giudicato tale sulla
base di brandelli di verità venuti a dirci che noi siamo nel giusto e l’altro
nell'errore.
Sola può salvarci da queste
reazioni una verità fuori di noi che ci dica non che cosa è giusto, ma come è
giusto vivere la relazione. Un “come” che Dio chiama misericordia.
Diciamo innanzitutto che la
misericordia è un pregiudizio positivo, di comprensione, in cui percepiamo la
persona vittima di una forza oscura che lei non vede, non capisce e non sa
controllare: la paura.
«Qual è il volto di questa paura?
Da dove nasce?». Con queste domande la misericordia si pone accanto all'altro
col cuore, e cerca lasciando da parte lo scampolo di verità che sembra così
evidente. Apre lo sguardo e cerca ancora, cerca oltre, cerca prima. Soprattutto
cerca con: cerca mettendosi al posto di quella persona, non come appare, ma
come è: un essere umano anch'esso pieno di paure e di fragilità… come tutti.
Intuisce una storia di sofferenza nascosta. Si chiude la bocca e apre gli
orecchi: ascolta. Ascolta col cuore. Un cuore pieno di tante altre storie di
uomini da cui questa storia non è diversa. E allora comincia a capire, a
formulare un’ipotesi che non sarà poi tanto lontana dalla realtà. Ma se non
capisce non importa… perché non è la chiarezza che conta, ma creare
un’accoglienza in cui la verità nascerà nella possibilità offerta all'altro di
dirsi ciò che comprende mano a mano che lo tira fuori. Una possibilità che
nasce dal fatto che la misericordia raccoglie il suo vissuto senza giudicare,
piangendo dentro nella condivisione del suo dolore, ma anche nella solidità di
chi è nelle mani di Dio e a queste mani sa consegnare lui e la sua storia.
Michele Bortignon
5/01/2022
Non abbandonarci nella tentazione
Non è vero che soddisfare una voglia ti faccia stare bene come vuoi credere; se non chiami bene l’eccitazione di un momento, il piacere di toglierti uno sfizio…
Ma poi tutto torna esattamente come prima; anzi, no, peggio di prima, perché l’insoddisfazione profonda che provi (anche se non l’ammetti) ti dice che il bisogno che volevi colmare è sempre lì, fuori tiro: hai sbagliato il bersaglio. Ma questo raramente lo capisci… E ci provi ancora, e vuoi di più, e non riesci a smettere, ma non serve: non è lì che devi tirare, non è con quelle frecce. Colpisci fuori di te quando il bersaglio è dentro di te, spesso nascosto nel tuo passato.
Qualcuno ti ha fatto male, tanto male, facendoti sentire abbandonato, inesistente, incapace; oppure ti ha manipolato, violato, svuotato.
«Ma il passato è passato!» mi dirai. Eppure, anche se lo hai dimenticato, continui a portartelo appresso come un fardello che non riesci a toglierti dalle spalle. E continua a pesare. Gola, lussuria, avarizia, superbia, invidia, ira, accidia sono diventate le tue modalità per cercare di deporlo e riprendere il controllo della situazione.
Serve? Ti senti sollevato, più leggero? Ti dà gioia di vivere, accende di canti la tua giornata? La risposta la sai ma non la vuoi sapere. E ti illudi che sarà domani, con più fortuna, riprovando ancora una volta. Nel frattempo ti aggiri in una tenebra che per te è l’unica luce possibile. E’ la notte della tentazione.
Dio ti aiuta? Sì, lasciandoti lì a marcire. Devi arrivare a gustare la feccia ed esserne disgustato. Devi non poterne più. Il tuo corpo si deve ribellare e la tua mente abbandonarti. Allora, forse, la tua luce comincerà a mostrare sfumature di tenebra e una luce, lì, fuori, da qualche parte, comincerà a mostrare sfumature di senso.
Allora, in un disperato slancio di onnipotenza, vuoi cambiare tutto, E subito. E non ce la fai. E ci ricadi.
Impietoso, Dio non ti da né la luce né la forza sufficienti per uscirne. E forse va bene così, perché qui devi fare esperienza della tua incapacità di gestire la situazione. La tua fragilità ti rende umile e capisci esistenzialmente che non puoi giudicare gli altri nelle loro fragilità; ti rendi disponibile a un ammaestramento esterno, tu che prima presumevi di guidare gli altri; le pratiche religiose e le attività pastorali in cui trovavi la realizzazione del tuo essere cristiano ora le senti vestito di un nulla a cui non sei riuscito a dare sufficiente sostanza.
No, non basta il disgusto del marcio per non tornare ad assaporarlo.
Il rifiutarti all’impulso che ti assale non ha senso se non lo vedi come una porta che ti permette di entrare in un modo di essere di più alto livello, che dia spessore alla tua esistenza trasformandola in vita. Gesù non ha scelto di soffrire perché il soffrire abbia un valore, ma ha accettato di soffrire per conquistare qualcosa di valore. Allora sì, qui alzi lo sguardo a Dio, chiedendo a Lui una strada che hai capito di non poter vedere, che hai sperimentato di non poter percorrere.
E Dio che fa? No, non interviene a toglierti ciò che ti turba, nemmeno ti dà la ricetta per uscirne. Incredibile: la sua risposta per liberarti dalle sollecitazioni dei sensi non è «Affronta la tentazione!»; no, è la vita stessa, in quel che ti succede, con le sue difficoltà, con il suo ferirti, da affrontare con Lui. E’ qui che puoi impegnarti, perché qui hai le forze per farlo e il calmo ragionamento per gestire la normalità del quotidiano; non sei sopraffatto dall’emotività che ti toglie lucidità ed energie. Qui puoi provarti, e renderti conto che, assieme a Lui che ti dà le coordinate del tuo percorso, hai la possibilità di cambiare la situazione. Stando con Lui, lavorandoci con Lui, sentirai che non sei un nulla e non sei più annullato. Il buio incolmabile di quel tuo bisogno di sicurezza, di stima, di affetto (non lo sai perché non te ne sei accorto…) si è riempito: di sicurezza, di stima, di affetto. La tua ferita, che ti portava a ferire, non si è risolta: si è dissolta. C’è, ma non fa più male.
La tentazione? C’è, ma non può più farti male.
Michele Bortignon
3/30/2022
Io posso fermare la guerra !
Ci si può rallegrare in questa guerra? E’ possibile che il “Kaire!” faccia risuonare diversamente il rombo dei cannoni? Eppure, fatti gli opportuni distinguo, è questo che mi sta succedendo...
La guerra mi sta mettendo in crisi come uno schiaffo che mi scrolla da un sonno in cui avevo affogato ciò che non mi andava di vedere. E il “Rallegrati!” è come dire “Accorgiti, renditi conto ed esci da questa situazione. Rallegrati perché è ora di venirne fuori”.
Quale situazione? Quella delle mie guerre.
Quante guerre ho impiantate attorno a me? Quante persone ucciderei se potessi? (Magari no, ma se sparissero non mi dispiacerebbe).
Ecco allora che questa guerra agisce come una lente d’ingrandimento sulle mie guerre personali. Intanto mi mostra che in guerra ci sono anch’io (è inutile che me lo nasconda e mi stupisca di chi sta sparando se poi lo faccio anch’io) e poi mi mostra a cosa porta una guerra, a quali sofferenze, a quali mostruosità conduce. Anche le mie guerre hanno delle conseguenze, anche se non voglio vederle, anche se non le ammetto e so solo denunciare l’ingiustizia che mi viene fatta.
Il problema è che ci facciamo guerra perché ogni contendente ha ragione e vuole uscirne vincitore. Fintantoché il mio obiettivo è mostrarti che le mie ragioni sono più forti delle tue, non ne verremo mai fuori, perché tu farai altrettanto.
Andremo avanti finché io non mi renderò conto che non è star bene da solo che può soddisfarmi. Finché non troviamo un modo per stare bene assieme, stiamo costruendo un fallimento per entrambi.
Costruire la pace è trovare questo star bene assieme, non l’uno a scapito dell’altro, non l’uno senza l’altro. Ma questo passa dal rinunciare a quello che mi ero immaginato di poter essere. E’ doloroso, fa rabbia, risulta pesante, perché in questo mio essere con te non posso entrarci con quel che voglio essere, ma con quel che di me è compatibile con questa nuova realtà. Ed è ancor più doloroso, fa ancora più rabbia, risulta ancora più pesante perché tu non cambi: tu il problema non lo vedi o non ti fa problema. E così il cambiamento che dovrebbe farci star meglio assieme è tutto a mio carico. Ma ci sei e sei così come sei; e probabilmente non sarai mai come vorrei che tu fossi. E così, se voglio che qualcosa cambi (non in te, ma fra noi), io sono l’unica risorsa a disposizione. Tacendo, aspettando, cercando di capire, trovando una mediazione.
La guerra tra Russia e Ucraina mi spaventa e per essa spero e invoco la pace. Ma la pace non basta sperarla, non basta invocarla. La pace posso costruirla qui, concretamente, all’interno delle mie guerre.
Intanto comincio io. E lo spirito della guerra avrà un respiro in meno per continuare a sopravvivere.
Michele Bortignon
3/01/2022
Fede e bene comune
Se uso il carrello al
supermercato, dovrebbe essere ovvio che poi lo ripongo al suo posto. Se non
posso più esserci alla visita che ho prenotato, dovrebbe essere ovvio che
avviso per disdirla. Invece, a quanto sembra, non è proprio così ovvio: per
farci capire che i carrelli vanno riposti, hanno dovuto inventare il deposito
con i soldi e se non disdico, devo pagare ugualmente la prestazione; anzi, a
costo intero. Ho voluto partire da queste ovvietà, che dovrebbero essere parte
di noi, del nostro senso civico, per cercare di capire dove siamo finiti. Il
tanto decantato bene comune non è anche semplicemente riporre il carrello al
suo posto perché chi verrà dopo di me lo trovi pronto? O perdere cinque minuti
per disdire una visita in modo da lasciare il posto a chi ne ha bisogno, non è
attenzione all'altro?
Invece hanno dovuto
obbligarci con cauzioni e sanzioni perché c’è chi non ci bada e fa quel che gli
è più comodo. Tutta una serie di comportamenti che dovrebbero essere logici,
naturali per chi ha un minimo di senso civico e attenzione al prossimo, hanno
dovuto essere imposti con regole, con leggi.
Non ultime tutte quelle
relative al Covid: se devo stare in isolamento perché non lo faccio? Se potrei
essere contagioso perché non sto attento? Se potrei averti contagiato perché
non ti avviso? Se potrei essere stato contagiato perché non faccio il tampone?
Perché viviamo tutti questi atteggiamenti preventivi come imposizioni e non
come attenzione e cura verso l’altro? Non voglio entrare in merito al fatto che
siano tutte regole giuste, sbagliate, esagerate o inutili, ecc… Voglio capire
perché il bene comune, ossia ciò che limita la mia libertà per la tua libertà e
per la tua sicurezza, lo vedo solo come minaccia alla mia libertà. Vorrei
capire perché siamo arrivati a guardarci il nostro ombelico e a coltivare il
nostro orticello invece di guardarci negli occhi e coltivare l’Eden comune.
Vorrei capire perché, soprattutto nel web, ogni affermazione -qualsiasi
affermazione- diventa scontro e non incontro.
San Paolo parla della
Comunità cristiana come di un unico corpo composto da tante membra, dove se un
membro soffre, soffre tutto il corpo e se un membro è nella gioia tutto il
corpo è nella gioia (1Cor 12,12-31).Da quando abbiamo smesso di
considerarci corpo?
A mio avviso quando
abbiamo dimenticato due parole: fiducia e sacrificio.
La fiducia. Il primo a fidarsi dell’uomo è stato Dio: ha dato all'uomo il potere di scegliere un nome per ogni animale che Lui aveva creato (Gen 2,19) e ha posto la creazione nelle sue mani.
Ci si abitua da piccoli ad
aver fiducia: ci si fida dei genitori, dei fratelli, degli insegnanti e degli
educatori. Crescendo e diventati adulti, ci fidiamo del coniuge, dei colleghi,
degli amici; ci fidiamo di chi decidiamo ci rappresenti al governo o nel
consiglio pastorale piuttosto che nel circolo di quartiere o nell'associazione a cui apparteniamo.
La nostra giornata è piena
di fiducia nell'altro: mi fido che tu mi dai la precedenza e ti fermi allo
stop, ad esempio. Se voglio vivere in una società complessa mi devo fidare del
lavoro dell’altro e della capacità dell’altro di conoscere e rispettare le
regole. Mi devo fidare in tutti gli ambiti dal più semplice -che il meccanico
mi ha veramente controllato l’olio- al più complesso -che il chirurgo che mi
opererà sa fare il suo lavoro.
Mi fido dell’altro perché
principalmente mi fido di me stesso e so che l’altro si comporterebbe come mi
comporterei io al suo posto: con professionalità, competenza, onestà e umanità.
Mi fido dell’altro perché
in lui mi specchio e in lui vedo una parte di me. L’altro non mi sta di fronte
contrapponendosi a me, ma, dandomi la possibilità di confrontarmi con uno
simile a me, ma diverso da me, mi dà la possibilità di crescere. La fiducia nell'altro è anche fiducia in Dio, perché è attraverso l’altro, attraverso un
corpo, che Dio si manifesta al mondo. Dio si fa carne e in Spirito abita ogni
corpo: si manifesta a me attraverso l’altro da me.
Il sacrificio. Se riconosco l’altro come parte di un noi di cui anch'io faccio parte, non posso non entrare in empatia con lui, non posso non interessarmi a lui. Capisco perciò che le mie scelte non sono legate solo al mio stare bene o al benessere del mio gruppo familiare o di amici -già questo sarebbe un “noi”-, ma esiste un noi più grande. Questo “noi più grande” possiamo chiamarlo “casa” ed è il mondo e dobbiamo considerarci, come dice Papa Francesco “tutti sulla stessa barca” e avere la consapevolezza che “nessuno si salva da solo”.
Questo interessarmi all'altro implica dover rinunciare a un po’ di me: del mio tempo, delle mie
energie, dei miei beni…; lo faccio, rinuncio a qualcosa, me ne occupo, perché
il vantaggio comune è vantaggio anche per me ed è vantaggio per tutti. E’
questo il sacrificio: rinuncio a un mio benessere e tornaconto personale per un
bene comune più grande del quale, forse, io non vedrò e non godrò nemmeno il
risultato. Sacrificio: parola desueta, fuori moda, che sa di vecchio. Eppure,
motivo in più se ci consideriamo cristiani, seguaci di Cristo: non possiamo dimenticare
che la strada che ci ha additato è quella della croce, del saperci sacrificare
per amore dell’altro, perché l’io autentico è comunitario, non isolato. L’uomo
è un animale sociale che per vivere ha bisogno dell’altro, di un reciproco
prendersi cura; ha bisogno di sapere che è amato e di avere qualcuno da amare e
ogni gesto di amore porta in sé la gioia della rinuncia per l’altro e per un
bene più grande, per un ideale di amore che si concretizza in azioni.
Fiducia nell'altro e sacrificio per l’altro: due parole che, a mio avviso, tracciano la via verso la possibilità di ricominciare a vivere come donne e uomini nuovi aperti a un futuro certo non facile, ma di speranza.
Maria Rosa Brian